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venerdì 18 marzo 2022

Disorder at the Border

 



Questo breve scritto fa parte di una serie di schede compilate per un laboratorio sulla storia del jazz, Percorsi Jazz. 



DISORDER AT THE BORDER

 

Il mito della frontiera, dello spostamento dei confini sempre più in là, fino alla conquista dell’intero continente, è stata una delle narrazioni più evidenti ed importanti delle vicende americane. E per quanto riguarda le arti, e il jazz in particolare, la ricerca e il superamento dei limiti hanno fatto da elemento propulsore delle dinamiche artistiche, in stretto rapporto con le vicende storiche e sociali. In circa un secolo di storia il jazz ha promosso una serie di trasformazioni tali da rivoluzionare in maniera profonda l’ascolto e la pratica musicale in tutto il mondo. Ovviamente questo è in stretta relazione con l’emergere e lo stabilizzarsi degli Stati Uniti come prima potenza mondiale, sia dal punto di vista economico che militare. E le evoluzioni tecnologiche, la radio e i dischi, hanno certo favorito l’espansione della musica jazz in tutto l’occidente, e non solo.

L’intreccio con le vicende storiche non è certamente circoscritto ad una dinamica di causa effetto, o posto in maniera meccanica, ma va interpretato e connesso dialetticamente. Come per tutte le arti, le vicende storico sociali, politiche ed economiche sono traslate, anticipate o interpretate dall’espressione artistica. La musica, in questo caso il jazz, è agente di storia, strumento di narrazione storica e fonte per la ricerca e siamo noi a dover interrogare la produzione artistica per rintracciare ed analizzare i rapporti che intercorrono tra essa e le vicende storiche. Agente di storia in quanto è presente ai mutamenti e, all’interno di essi, costruisce, delinea e organizza identità e partecipazione. Strumento di narrazione storica perché è in grado di narrare il passato, la storia e le storie delle vicende umane. Ed è, da ultimo, un materiale per la ricerca storica, una fonte certo difficile da maneggiare, stratificata e complessa[1].

Da questo punto di vista possiamo rintracciare, all’interno della storia del jazz che va dagli anni della Seconda guerra mondiale fino al 1959, anno di registrazione del disco Free Jazz a nome di Ornette Coleman, una tensione, un movimento spasmodico verso il superamento di confini, regole e comportamenti in ambito jazzistico. Il tutto strettamente intrecciato all’evoluzione storica degli Stati Uniti, alle sue contraddizioni interne e al suo ruolo esterno.

Il coinvolgimento degli USA nella Seconda guerra mondiale, nel dicembre del 1941 dopo l’attacco di Pearl Harbour, trova una nazione e una società ancora alle prese, seppur parzialmente, con la crisi economica innescata dal crollo di Wall Street del 1929. Il New Deal Roosveltiano aveva certo permesso un miglioramento generale delle condizioni di vita della popolazione ma la disoccupazione toccava, ancora nel 1940, il 14,5 per cento della popolazione, più di 8 milioni, e 5,6 milioni nel 1941[2]. La partecipazione in guerra riportò la piena occupazione e nuovi e grandi profitti per il sistema industriale americano, con conseguente rafforzamento del capitalismo americano anche in prospettiva mondiale[3]. L’entrata in guerra comportò uno stravolgimento dell’assetto sociale con il coinvolgimento, nella produzione e nel conflitto, di ampie fasce di popolazione fin lì escluse o emarginate. Le donne e gli afroamericani, ma anche gli operai, ora centrali nello sforzo della nazione per vincere la guerra, assunsero un ruolo importante che comportò un aumento di conflittualità e di richiesta di diritti. Si combatteva in nome di ideali progressisti e di uguaglianza all’esterno ma ovviamente quegli stessi principi dovevano essere messi in atto anche all’interno del paese. 

Il protagonismo delle masse popolari, e all’interno di esse della comunità afroamericana, ebbe riscontro anche nel campo delle arti, in particolare in ambito jazzistico. La guerra mise in crisi le grandi orchestre votate all’intrattenimento e al ballo, che tanto avevano spopolato negli anni ’30. Ma anche lo stesso ruolo del musicista, visto spesso come semplice esecutore, stava cambiando. La spinta a forzare i limiti sia della società che dal punto di vista artistico iniziò a manifestarsi in un momento cruciale come quello della Seconda guerra mondiale. Al successo della cinquantaduesima strada di New York, ricca di locali famosi con orchestre e star dello spettacolo, si andava contrapponendo in maniera sotterranea la Harlem dei Minton’s Playhouse e Monroe’s Uptown, piccoli locali dove si svolgevano jam session furiose e si sperimentavano nuovi linguaggi. L’iniziativa era nelle mani e nelle note dei musicisti neri, ora certamente in sintonia con il nuovo ruolo della loro comunità nella società americana. La mobilitazione della nazione americana in nome della libertà nella guerra contro il nazifascismo riportava a galla la questione razziale, e con essa un nuovo protagonismo degli afroamericani che si intrecciava alle rivendicazioni delle masse popolari bianche, impegnate nello sforzo bellico sia al fronte esterno che in quello interno. La crescita degli iscritti ai sindacati comportò anche la loro parziale apertura ai lavoratori neri, e un generale movimento di conquista di maggiori diritti serpeggiava in tutto il paese.

Il Be Bop, anche se in un momento particolarmente difficile, è segnale inequivocabile di maggiore dinamismo, di rottura di schemi preesistenti. La struttura dell’orchestra, con ruoli predeterminati, un leader, solisti per poche battute e in generale macchina per divertirsi, viene lentamente sradicata a favore di una musica che non è più d’intrattenimento ma è musica d’arte. I piccoli combo diventano i protagonisti e con loro una musica veloce, angolosa, irrequieta, lontana dalle atmosfere patinate dello swing. Ovviamente non si arriva a questo all’improvviso, ma la tendenza inizia a manifestarsi già a fine anni Trenta grazie ad alcuni musicisti che saranno poi fondamentali per la nascita e l’affermazione del Bop. Charlie Christian, chitarrista dell’orchestra di Benny Goodman, è uno di loro, così come ovviamente Charlie Parker nell’orchestra di Jay MacShann e Dizzy Gillespie, che grazie anche al sostegno di uno dei grandi del jazz come Coleman Hawkins, ha la possibilità di mettersi in mostra a fianco, per l’appunto, di uno dei padri dal jazz. In Disorder at the border (brano di Hawkins registrato nel 1944 https://youtu.be/IqEjHzusYUo) si può notare l’estrema differenza solistica e la ricerca, fatta da Dizzy, di infrangere alcune regole fin lì acquisite, come in una specie di moto ondoso che sempre più avanza.

Per quanto, dal punto di vista armonico, la rivoluzione bop non sia così profonda, richiamandosi in parte ad acquisizioni già avvenute in ambito classico, grazie a Debussy, Hindemith e Schoenberg, nondimeno all’interno del quadro jazzistico sono mutazioni che pesano, che incidono. Una caratteristica fondamentale delle innovazioni boppistiche è la diversa concezione ritmica rispetto allo swing. Una batteria che accentua momenti importanti all’interno del brano e non più limitata al solo 4/4 per ballare. In generale un diverso approccio ritmico più intraprendente, meno legato al sostegno e più in primo piano. Questa irruenza ritmica è una sorta di flusso che tende ad infrangere le regole, traslando nel jazz quel nuovo protagonismo delle masse popolari americane, tutte, impegnate sia nello sforzo bellico che nella ricerca di una società diversa, tese a rompere le dinamiche pre-guerra.

Un altro aspetto del rinnovamento e della tensione verso la rottura e lo spostamento dei confini, musicali e no, è la volontà di avere un nuovo repertorio o, in alcuni casi, di riscrivere totalmente vecchi brani e rimodularli sulle nuove concezioni armonico stilistiche. C’è da sottolineare, comunque, il solo parziale lavoro di rinnovamento della forma. Anzi, da questo punto di vista, è come se si segnasse una sorta di passo indietro rispetto alle elaborazioni fatte soprattutto sul repertorio delle grandi orchestre, Ellington su tutti. C’è una semplificazione, tema assoli tema, che da un lato permette lo sviluppo e la maggiore importanza del solo, ma dall’altra impoverisce, per l’appunto, il discorso formale, le modifiche e gli sviluppi sui temi che successivamente verranno ripresi in parte dal Cool jazz.

Il protagonismo musicale e sociale si arresta nella seconda metà degli anni ’40, in pratica dopo la fine della Seconda guerra mondiale. La morte di Roosevelt e l’elezione a presidente del suo vice, Truman, nell’aprile del 1945 sposta gli assi della politica interna ed esterna degli USA. Il nuovo presidente è certamente più attento alle richieste degli industriali del nord e dei proprietari terrieri del sud, modificando di fatto il ruolo egemonico avuto sin lì dei settori popolari. Da questo punto di vista, l’avvio della guerra fredda avrà un duplice scopo: da una parte contrastare a livello mondiale l’URSS e, dopo la vittoria di Mao nel 1949, la Cina, ma dall’altra mettere a tacere le richieste e le rivendicazioni salariali dei sindacati all’interno e congelare ogni movimento con il terrore del comunismo.  

L’assenza di conflitti e la normalizzazione della società americana, portata avanti sia dai democratici (o almeno una grossa parte del partito) che dai repubblicani, determina anche cambiamenti nel mondo del jazz. La rivoluzione bop viene anch’essa normalizzata, come depotenziata. Se ne assumono alcune conquiste inserendole però in un contesto più rispettabile. I comportamenti provocatori, le sperimentazioni e l’irruenza tipici dei primi boppers vengono messi in crisi dalla soffocante politica di caccia ai comunisti e ai loro fiancheggiatori. E così un’orchestra valida e intraprendente come quella del bianco Woody Herman raccoglie e porta avanti i frutti della rivoluzione bop incanalandola in differenti ambiti, meno sovversivi se così vogliamo dire. Ma l’attestarsi sulla difensiva, il ritiro e poi la stasi delle masse popolari è come se si riflettesse anche nel jazz, con l’emergere di un tipo di musica più rilassata, ben arrangiata e priva di grosse asprezze. Il Cool jazz, preso atto delle sperimentazioni del Bop, ne sussume le conseguenze e le rielabora in forma differente. Complice anche il passaggio propulsivo dai musicisti neri a, in gran parte, quelli bianchi. E anche lo spostamento dell’iniziativa dalla costa est, New York in particolare, alla costa ovest, dove c’era Hollywood e le atmosfere erano certamente meno tese.

Nondimeno le sperimentazioni Cool, portate avanti agli inizi da Miles Davis, Gil Evans, Gerry Mulligan, John Lewis, tra gli altri, mostrano quanto profondo sia il sommovimento provocato dalla rivoluzione bop, e ne conferma, come dicevo sopra, alcune conquiste, prima fra tutte la trasformazione del jazz da musica di consumo a forma d’arte. E, ovviamente, anche le innovazioni stilistiche, dalla pronuncia alla differente concezione ritmica, all’uso di scale e accordi particolari. Ma l’esuberanza nera è come messa in sordina, vincolata a forme di sperimentazione che certamente molto devono al materiale armonico/teorico occidentale e bianco. Da questo punto di vista, pur perdendo di irruenza e spontaneità, le musiche di estrazione cool sono però contraddistinte da un profondo lavoro sulla forma e sulla struttura tematica, così come sulla sperimentazione armonica. Soggiace nelle atmosfere e nello spirito di questa musica, pur di stretta derivazione bop, come un senso di levigatezza e introspezione, un mettersi di lato rispetto all’evoluzione della società americana, quasi a non voler troppo disturbare o non essere disturbati. La prima metà degli anni ’50 è, per gli USA, il trionfo, perlomeno declamato e omaggiato dal cinema e dalla televisione, della classe media, delle villette unifamiliari nelle aree residenziali suburbane delle città. Questo sviluppo, segnato dalle dinamiche repressive maccartiste, comporta un’ulteriore emarginazione delle masse afroamericane, così come dei settori liberal o alternativi, fuori dalla cortina di consenso e assurti a nemici interni nella guerra contro l’URSS. Non è certo un giudizio di valore che viene dato a questo jazz così elaborato e patinato, di alto livello, bensì solo una sottolineatura dei legami che la musica afroamericana, in questo caso, ha avuto con le dinamiche politico sociali ed economiche statunitensi.

Non bisogna tuttavia generalizzare troppo, dare un segno univoco a quegli anni, renderli di un solo colore. Non tutti erano classe media e l’altra faccia dei suburbs erano i ghetti neri delle grandi città, la condizione di estremo sfruttamento della classe operaia, o perlomeno di una sua fascia, quella più povera ovviamente. E gli eventi, sia storici che artistici, non hanno inizi o termini precisi, netti, bensì innovazioni e tendenze anticipatrici si muovono sotterraneamente per poi uscire in maniera dirompente o meno allo scoperto. E quindi insieme agli esperimenti di Giuffre, al contrappuntismo[4] di Mulligan o al “progressismo” di Stan Kenton, convivono i laboratori sperimentali di Charles Mingus così come resiste l’orchestra di Ellington, senza parlare dei cosiddetti reduci bopper della prima ora come Davis (peraltro già protagonista con la nascita del Cool) o Monk. Tuttavia, c’è una data precisa che può essere presa a misura del cambiamento di rotta delle dinamiche sociali e politiche, oltreché artistiche, che avviene negli USA: il primo dicembre 1955, a Montgomery in Alabama, profondo sud, viene arrestata l’attivista afroamericana Rosa Parks per essersi rifiutata di cedere il suo posto in autobus ad un bianco. È come un segnale che accende la rivolta e le rivolte, soprattutto innesca di nuovo e con maggior forza il protagonismo delle masse afroamericane. Le lotte per i diritti civili e la fine del segregazionismo coinvolgono anche settori ampi della società americana bianca e poi si fonderanno con i movimenti contro la guerra in Vietnam agli inizi degli anni ’60. Dal punto di vista artistico e musicale in generale, questa effervescenza sociale e politica non può non avere ricadute ed effetti. Nel 1954 Art Blakey e Horace Silver fondano i Jazz Messenger, alfieri di quello che viene definito Hard Bop, nient’altro che una versione più nera, più funk del Be Bop, con una forte componente blues e uno sviluppo del solismo ad alti livelli. Clifford Brown, Sonny Rollins, Jackie McLean, Hank Mobley, Cannonball Adderley, Lee Morgan, ma anche la rinascita di Miles Davis, che avviene proprio nel 1955, con il suo quintetto insieme a John Coltrane o allo stesso Sonny Rollins, insomma un fiorire di grandi solisti che segnano la storia del jazz e che sviluppano la loro arte proprio in questo periodo, con evidenti connessioni alle dinamiche in atto nella società americana.

La corsa quasi spasmodica a rompere consuetudini, regole, confini, procede di pari passo con le conquiste sociali e politiche soprattutto degli afroamericani, un’esplosione creativa che probabilmente non avrà più eguali. È l’ampliamento della fase improvvisativa, a scapito per alcuni versi dell’elaborazione tematica, a far esplodere l’edificio armonico, orami percepito come gabbia, come costrizione. Le nuove concezioni e i nuovi approcci di Ornette Coleman e Cecil Taylor liberano completamente l’improvvisazione dalla progressione armonica dandole finalmente la libertà creativa totale, basata sull’ispirazione del/dei musicista/i e senza alcun vincolo. È come se ora l’afroamericano (ma non solo, pensiamo per esempio al trio di Jimmy Giuffre con Paul Bley e Steve Swallow) fosse fuori dalle regole che, seppur modificate e piegate alla propria espressività, erano state espressione della storia e della cultura bianca e occidentale, quelle leggi e formule armonico/teoriche che avevano comunque segnato il jazz, la sua storia. Se l’esperienza Cool, fatta di sperimentazioni colte e avanguardistiche, aveva infranto le forme provenienti dal mondo pop e traslate nel jazz, l’Hard Bop sfocia nell’affrancamento della fase improvvisativa dalla schiavitù dell’armonia, lasciando al tema la funzione di ispirazione, di guida. Va detto che questi due approcci troveranno molti punti di contatto, per esempio nelle elaborazioni della cosiddetta Third Stream, una corrente musicale che tentava di coniugare il mondo colto e classico occidentale/europeo con il jazz. Nondimeno l’arrivo di Ornette Coleman porta a compimento una spinta insita alla musica jazz all’infrangere il corpus di regole e leggi dell’armonia occidentale, una folle corsa alla piena espressività di un popolo che fin lì era stato ancora soggetto al predominio bianco. Non che non lo sarà più, ma quelle conquiste musicali, a fianco delle conquiste sociali e politiche pagate a caro prezzo, saranno fondamentali per il prosieguo della storia culturale e sociale afroamericana. Un’ultima annotazione: anche lo stesso Davis, con il suo jazz modale, rappresenta, con un altro approccio, quel desiderio di emancipare l’improvvisazione, di permettere al solista di comporre istantaneamente senza dover porre attenzione alla progressione armonica. È uno sviluppo assolutamente fertile che sarà forte fonte di ispirazione per tanta musica, non solo jazz. E avrà una sua importante declinazione nella fase elettrica del trombettista, dove Davis porrà al centro della sua musica il ritmo black a sostegno di una piena libertà, persino dal tema. Ma questo è un altro discorso!

 

pop


[1] Marco Pieroni, Il nostro concerto. La storia contemporanea tra musica leggera e canzone popolare, 2001, R.C.S. Libri, Milano

[2] Bruno Cartosio, Stati Uniti contemporanei. Dalla guerra civile a oggi, 2002, Giunti, Firenze

[3] Richard Boyer – Herbert Morais, Storia del movimento operaio negli Stati Uniti, 2012, Casa Editrice Odoya, Bologna

[4] Stefano Zenni “Storia del jazz. Una prospettiva globale” Viterbo, 2012, Stampa Alternativa, pag.329

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