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venerdì 26 febbraio 2021

Weird Tales. Il giardino dei Trees: tra folk e psichedelia!

 

Il grande patrimonio folk anglo-scoto-irlandese è stato una delle caratteristiche forse meno evidenti dell’esplosione del rock inglese, spesso oscurato dal blues, dallo skiffle e dal rock’n’roll, musiche più chiaramente riconoscibili nella costruzione della British Invasion. Eppure, quelle centinaia di ballate che si sono trasmesse oralmente per tutta la Gran Bretagna e l’Irlanda, sconfinando anche negli Stati Uniti, sono state il substrato di tanta musica inglese, primi fra tutti i Beatles. È un patrimonio che è stato sottovalutato ma che con tutta evidenza rappresenta quell’elemento particolare, quell’ingrediente speciale che ha permesso la nascita e lo sviluppo del rock d’Albione. Tale è stata la forza di questo retaggio culturale da aver dato vita anche ad un vero e proprio genere musicale, il cosiddetto folk rock, che ha prodotto dei veri capolavori ed una serie di gruppi eccezionali. La triade Fairport Convention/Pentangle/Steeleye Span, con la Incredible String Band a fare da stralunato e sperimentale jolly, già di per se mostra la ricchezza e lo splendore di una musica ancorata si alla tradizione ma in grado di rinnovarsi e sperimentare nuove sonorità e nuovi approcci musicali. Il rock, il jazz e il blues hanno contribuito a dare una nuova luce alle ballate e alle canzoni tradizionali, dimostrando che un materiale, pur antico, può e deve avere sempre una nuova vita. 



Tra i numerosi gruppi e musicisti che hanno attraversato la gloriosa stagione del folk rock, tra il 1968 e il 1973, i Trees rivestono un ruolo particolare, lontani dal successo eppure autori di una miscela originale e significativa, con quel loro folk psichedelico, tra la California e le campagne inglesi. Bias Boshell, principale autore, bassista e tastierista, Barry Clarke, chitarra solista, David Costa, chitarra acustica e ritmica, Unwin Brown, batterista, e Celia Humphris, cantante, formano nella primavera del 1969 uno dei tanti gruppi che andrà ad arricchire il folto immaginario inglese, la nuova Arcadia, un paesaggio preindustriale, popolato da esseri fantastici e ricco di melodie e suoni naturali, con le foreste incontaminate e i bardi che narrano leggende d’altri tempi. Da questo punto di vista i Trees non sfuggono all’estetica folky del periodo, e gran parte della loro musica sarà tratta dal patrimonio folkloristico opportunamente riarrangiato, sulla falsa riga di ciò che facevano Fairport, Pentangle e tanti altri. Ma in loro c’è un approccio in parte diverso dagli altri gruppi folk rock. Potremmo quasi dire che l’esperimento Trees coniuga gli ultimi lasciti della rivoluzione pop di entrambe le sponde dell’oceano con il susseguente ripiegamento in ambito “fantasy”, di un immaginario lontano dalla contemporaneità e situato in un passato fiabesco. Da questo punto di vista non avremmo molta difficoltà a leggere come una tendenza comune e omogenea l’Arcadia folk con la Terra del Grigio e Rosa o le copertine di Roger Dean così come le atmosfere barocche dei Gentle Giant o la pastoralità di certi Genesis.

Tuttavia, nei Trees è possibile rintracciare consistenti elementi che contaminano e cambiano di segno le atmosfere e le musiche del repertorio tradizionale da loro arrangiato. Elementi potremmo dire progressivi, che di fatto rimandano spesso alla musica psichedelica, alle lunghe improvvisazioni e ad atmosfere dilatate.

L’esordio è su CBS, The Garden Of Jane Delawney, registrato all’inizio del 1970 e pubblicato il 24 aprile dello stesso anno.  La produzione è di David Howells e di Terry Cox (Caravan, Yes, Family e tanti altri) mentre la copertina è opera dello stesso David Costa, uno stupendo disegno in stile Magritte.  Metà dei brani sono tradizionali, ovviamente riarrangiati, mentre il resto sono a firma di Boshell e il primo brano del disco è opera di tutto il gruppo. L’album è caratterizzato da un alternarsi tra acustico ed elettrico, un aspetto comune a tante altre opere di folk rock. Spesso l’elemento elettrico, sporco, aggressivo, è riservato ad intermezzi che spezzano le composizioni e introducono, per l’appunto, altri territori, dove la chitarra elettrica è protagonista. Alcune volte questa operazione sembra un po’ meccanica, frutto di giustapposizioni, nondimeno il risultato è pregevole e affascinante. Il brano di apertura mostra già gli inequivocabili segni della musica dei Trees, a cavallo tra folk e psichedelia, una ballata attraversata in lungo e largo da una chitarra elettrica dal netto sapore West Coast, a tratti simile al Kaukonen lisergico, anche nel suono oltre che stilisticamente. L’eterea e delicata voce di Humphris, tipicamente folk, è contrappuntata dal solismo di Barry Clarke e rende questa Nothing Special un giusto mix tra energia rock e sapori pastorali. The Great Silkie e Lady Margaret sono esemplificativi del lavoro di arrangiamento che i Trees compiono sul materiale tradizionale. La prima è tratta dal repertorio delle isole Orcadi in Scozia e narra le vicende di un uomo che si trasforma in un animale acquatico soprannaturale. Qui la ballata dolce e appena segnata da leggeri tocchi elettrici si trasforma in una cavalcata psichedelica grazie ad un intermezzo dove le due chitarre soliste intrecciate ricordano atmosfere decisamente acid rock.  La seconda, ballata apparsa in Inghilterra intorno al diciassettesimo secolo e chiamata anche Lady Margaret And Sweet William, ha un inizio alla Fairport, tra chitarre acustiche ed elettriche pulite per poi, anch’essa, irrobustirsi e distorcersi, con una ritmica vivace ed incalzante. She Moved Thro’ The Fair, antica ballata irlandese del Donegal, registrata anche dai Fairport Convention nel loro secondo album, mostra un Bushell virtuosistico, con il suo strumento a disegnare continue linee melodiche, quasi una sorta di Jerry Garcia del basso, e poi un’improvvisazione collettiva coinvolgente ed affascinante, per uno dei migliori brani dell’album. E dai Fairport si passa ai Pentangle, perché Glasgerion altri non è che la Jack Orion del gruppo di Jansch e Renbourn. Una delle 305 tradizionali ballad raccolte da Francis James Child nella seconda metà del diciannovesimo secolo, Glasgerion venne modificata in Jack Orion (con il protagonista della storia che da suonatore d’arpa diventa violinista!) dal folk singer A.L. Lloyd negli anni 60 e quindi poi ulteriormente trasformata dai Pentangle nel loro stupendo Cruel Sister. Qui la versione dei Trees è leggermente più veloce, con cambi di tempo e un’elettrificazione moderata, un andamento tradizionale e una voce non sempre all’altezza, pur se ricca di fascino.  I brani originali di Bushell spaziano dal country rock di Road, con la voce del bassista ad alternarsi con quella della Humphris, alle atmosfere tipicamente folk di Epitaph, contraddistinto da una splendida chitarra arpeggiata, oppure alle suggestioni West Coast di Snail’s Lament, dove il canto della coppia Bushell Humpris ricorda gli impasti vocali dei primi Jefferson Airplane. Menzione speciale la merita la title track, scritta sempre da Bushell, un piccolo gioiello acustico, impreziosito dal dulcimer e con un atmosfera cupa, triste, il giardino di Miss Delawney colmo di sogni gotici e selvagge fantasie.

Il primo album dei Trees non ottiene il successo sperato, pur essendo inequivocabilmente un ottimo disco, ma il gruppo va avanti, suona regolarmente, anche se soprattutto nei circuiti universitari, ed ha il sostegno di importanti dj come John Peel e Pete Drummond (che più tardi sposerà proprio la cantante Celia Humphris). E quindi a fine anno arriva un nuovo album, On The Shore, registrato nell’ottobre del 1970 e pubblicato sempre dalla CBS, con una stupenda copertina frutto del lavoro di Storm Thorgesen, dello studio Hipgnosis.



Questo secondo, e ahimè ultimo lavoro ufficiale dei Trees, è sicuramente più organico, il materiale è ben amalgamato e fluido, la voce della Humphris più intraprendente e i suoni, soprattutto della chitarra elettrica, maggiormente definiti e originali. Ma in generale il gruppo appare più maturo e sicuro delle proprie scelte stilistiche così da dare a On The Shore la peculiarità di piccolo capolavoro discografico, purtroppo misconosciuto. Prodotto sempre da Tony Cox (che appare anche al basso in Sally Free And Easy), il disco si apre con Soldiers Three, una ballata composta da Thomas Ravenscroft nel sedicesimo secolo e ideale introduzione al nuovo lp, con le voci di Bushell e Humphris perfettamente combinate e un intermezzo acustico a spezzare l’andamento energico del brano. Murdoch e While The Iron Is Hot sono gli originali di Bushell, che mostra ancora una volta la sua grande capacità di scrivere sia vibranti e serrati scenari come nel primo caso, oppure struggenti melodie, splendidamente arricchite dagli archi, con al loro interno intermezzi classicamente rock, come nel secondo. Little Sadie, un traditional americano, è un simpatico country rock con la voce di Humphris perfettamente calata nel mondo di Nashville, mentre Geordie, una delle tante antiche ballate raccolte da Francis James Child, è delicata, rilassante, punteggiata da una chitarra elettrica discreta e dal solismo appena accennato. Ma il cuore pulsante di On The Shore è rappresentato dal tradizionale Streets Of Derry, con le chitarre elettriche che dialogano nel lungo finale e il basso di Bushell a sostegno delle improvvisazioni, una lunga suite psichedelica di grande fascino. E da Sally Free   And Easy, del folk singer Cyril Tawney, registrata dal vivo in studio al termine di una lunga giornata e provata solo mezz’ora prima, introdotta da un suggestivo pianoforte che poi lascia spazio alle chitarre acustiche ed alla voce limpida e intensa della Humphris. Sono 10 minuti di un incredibile crescendo con tutti gli strumenti che si rincorrono tra loro a delineare un paesaggio sonoro dilatato, vivido, di una luce sognante. In questi due brani i Trees mostrano la loro straordinaria abilità nell’amalgamare linguaggi differenti e creare un folk psichedelico di grande spessore e qualità. Resta da dire ancora dell’originale Fool, scritto da Bushell e Costa, dalle movenze ipnotiche e decisamente rock, l’acquerello acustico dal sapore medievale Adam’s Toon, scritto dal compositore e poeta francese Adam de la Halle vissuto nel tredicesimo secolo, e la tradizionale Polly On The Shore (conosciuta anche come The Valiant Sailor, popolare sea song apparsa  per la prima volta intorno al 1744 e dagli accenti antimilitaristi) a chiudere, con un’altra suite a forti tinte psichedeliche, un disco semplicemente irresistibile e coinvolgente.


 


 

Nel 1971 il gruppo si scioglie, per poi riformarsi brevemente l’anno successivo con Barry Lions al posto di Bias Boshell e Alun Eden alla batteria in luogo di Unwin Brown, con l’aggiunta al violino di Chuck Fleming. Nulla di ufficiale registrato, a parte un bootleg edito in Italia dalla Hablabel nel 1989 con materiale dal vivo e una copertina certamente non all’altezza dei due precedenti album. Purtroppo, anche la musica non è un granché, lontana dal fascino di On The Shore e The Garden Of Jane Delawney, un onesto folk con velate tinte rockeggianti, per di più di scadente qualità sonora.

Resta un mistero lo scioglimento dopo due dischi di assoluto valore, anche se probabilmente le vendite insufficienti e le recensioni non tutte positive hanno contribuito in maniera consistente alla fine del gruppo, lasciando ad un ultimo vano tentativo con una seconda line up la ricerca di quel successo che altre band dello stesso genere musicale avevano avuto in quel periodo. Successo che arrivò in parte, e postumo purtroppo, nel 2006 grazie al duo soul americano Gnarls Barkley che campionò, per la title track del loro disco St. Elsewhere, la versione dei Trees del traditional Geordie, vendendo milioni di copie.



Lo scorso anno, sorprendentemente, è arrivato un elegante cofanetto di quattro cd, corredato da booklet con foto e storia/storie del gruppo, che comprende i due album, un terzo cd di outtakes e remix e il quarto con delle session live alla BBC, più brani dal vivo suonati al Cafè Oto di Londra nel 2018 da una fantomatica On The Shore Band con i soli David Costa e Bias Boshell della formazione originaria. Un piccolo regalo che non fa che aumentare i rimpianti per una band che avrebbe avuto ancora molto da dire.

A noi rimangono musiche eccezionali che acquistano sempre più fascino nel corso degli anni, frutto di stagioni forse irripetibili e che fanno dei Trees certamente uno dei migliori gruppi non solo di folk rock ma della musica popular.

pop

mercoledì 10 febbraio 2021

L'arte del duo!





Ad integrazione di questo post dello scorso anno va aggiunto quello che probabilmente è il lavoro più affascinante del lotto: Keys, a nome del sempre attivo Bill MacKay e del virtuoso del clawhammer banjo Nathan Bowles. I due allestiscono un piccolo gioiello acustico, sempre con lo sguardo rivolto verso le profonde radici folk americane e con quei tocchi improvvisati seducenti, spazi distesi e accenni minimalisti. E se di Bill MacKay ne abbiamo già tessuto le lodi, altrettanto va fatto con il multistrumentista  proveniente da Duhram (North Carolina) Nathan Bowles, nato come batterista e percussionista ma riconvertitosi con meritato successo al banjo. Autore di una manciata di ottimi lavori in solo, in Keys Bowles dialoga perfettamente con il suo compagno intrecciando abilmente i suoni del suo banjo con le chitarre visionarie di MacKay. Un album assolutamente da ascoltare distesi sul divano, sognando ad occhi aperti un'altra America.  



Al centro di questi paesaggi sonori delineati in coppia, certamente anomali ma alquanto suggestivi, c'è lui, Ryley Walker, da Chicago. 

 


Di Walker se ne è parlato molto, giustamente, e speriamo se ne parli anche in futuro, in attesa di suoi nuovi lavori. Musicista particolare, profondo e creativo, autore di una progressione artistica notevole che in soli tre dischi solisti l'ha portato dalle lande intimiste contornate dai Van Morrison e dai Nick Drake, a territori più impervi, increspati dai rivoli dell'improvvisazione che certamente è di casa in quel di Chicago. Ma il chitarrista è personaggio da innumerevoli appetiti, in continua ricerca e voglioso di approdare in terre inaudite, per nulla fermo sugli allori. E' quindi abbastanza naturale che in questi anni, oltre alle sue opere soliste, abbia intrecciato e incrociato i destini e le musiche di altri inesauribili ricercatori di nuove sonorità, grazie anche all'ambiente favorevole a questo tipo di mutazioni che la città di Chicago, storicamente, offre ai suoi concittadini. 

Meno famoso di Walker, ma anche lui instancabile chitarrista, innovatore e sperimentatore, Bill MacKay è uno di quei musicisti che attraversano i generi con semplicità e spontaneità: dal folk all'avant-rock, al jazz e al blues, dalla collaborazione con la violoncellista della Chicago Symphony Orchestra Katinka Klejn a lavori in solitudine. In poche parole, un tipico prodotto della fertile scena di Chicago. 



E veniamo al terzo protagonista, Charles Rumback, batterista, bandleader e compositore di ambito free, essenzialmente un jazzista, autore di diversi lavori discografici, spesso in trio con il pianista Jim Baker e il bassista John Tate. Provenienza? Chicago, as usual!

Viste le biografie e la residenza comune era assai naturale che questi musicisti si trovassero insieme a collaborare, ovviamente su terreni a loro congeniali, di certo non inclini al mainstream. Ed è quindi con curiosità che mi sono avvicinato a questi lavori prodotti in coppia, due a nome Bill MacKay e Ryley Walker, gli altri due a nome Charles Rumback sempre con lo stesso Walker. Quattro dischi dalle atmosfere e dall'andamento simili, come se fossero suonati da un'unica band contraddistinta da una spasmodica ricerca a rifuggire le etichette, a travalicare gli stili, tutte qualità (perché di questo si tratta) che sembrano essere di casa nella dinamica ed effervescente Windy City, la Chicago del jazz e del blues, dell'Art Ensemble e della techno, del post-rock e della Symphony Orchestra.  



Tuttavia sbaglierebbe di grosso chi pensasse a lavori ardui, duri, di difficile ascolto. Tutt'altro. I tre hanno trovato in quel suono malinconico, pastorale, prettamente acustico, il luogo dove intrecciare le loro anime creative. Quella musica che viaggia tra folk e blues, tra John  Fahey e Nick Drake, il fingerstyle, i Monti Appalachi e i raga indiani, quel sapore di un'America d'altri tempi, ma anche quel richiamo d'Europa, con qualche sottile esotismo. Il tutto reso audace e intrigante da un approccio improvvisativo che attraversa tutti e quattro i lavori costantemente, dando un profondo senso di avventura a tutte le composizioni.  Ed è un piacere sopraffino perdersi nell'ascolto di queste lande. 

Più elettrico e psichedelico Cannots, il primo lavoro di Walker con Rumback, ampiamente improvvisato e vicino a certe atmosfere alla Grateful Dead, mentre il secondo lp, Little Common Twist, è pacato, arioso, sostenuto talvolta dall'elettronica di John Hughes, ma in modo delicato, a far risaltare la compostezza acustica del disco e la morbida batteria di Rumback.

SpiderBeetleBee, con Bill MacKay, è un trionfo di chitarre intrecciate, melodie folk, richiami blues e suggestioni agresti. I due chitarristi, anche qui talvolta aiutati dal violoncello di Katinka Kleijn o dalle percussioni di Ryan Jewell, esplorano con profondità quel mondo acustico che fa riferimento a John Fahey e a Bert Jansch, America ed Europa, folk e blues, radici e sguardi improvvisati. Stesso discorso per il loro primo disco, Land Of Plenty, con qualche richiamo esotico e medievale in più, ma sempre con un'originalità e un'intensità davvero uniche. 



Quattro dischi che ci mostrano un'America differente, quasi compassata, riflessiva, attenta a ricordare i suoi legami con l'Europa ma ricca di pulsioni improvvisate che scorrono sottotraccia, a rinvigorire vecchie melodie e atmosfere sospese nel tempo. Ai quali può benissimo essere aggiunto Fountain Fire, lavoro solista di Bill MacKay, che scorre fluido negli stessi territori. 

Se Ryley Walker di attenzioni ed elogi ne ha avuti molti, credo che altrettanto vada fatto con questi suoi due compagni di viaggio e concittadini, Charles Rumback e Bill MacKay.

 


https://open.spotify.com/playlist/35SZEICX1pJyEfLLWsgtnL?si=A6D4fD-PRmK_kxrH-SUIxA


Bill MacKay - Ryley Walker "SpiderBeetleBee" Drag City, 2017

Bill MacKay - Ryley Walker "Land Of Plenty" Whistler Records, 2015

Charles Rumback - Ryley Walker "Little Common Twist" Thrill Jockey, 2019

Charles Rumback - Ryley Walker "Cannots" Dead Oceans, 2016

Bill MacKay "Fountain Fire" Drag City, 2019

Bill MacKay - Nathan Bowles "Keys" Drag City, 2021


pop

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