Il personaggio è abbastanza
particolare, tanto da meritare certamente più attenzione di quanta gliene sia
stata data dalla storiografia jazzistica. Nato nel 1921 in Texas, a metà dagli
anni ’50 Jimmy Giuffre è un tipico
esponente della scena west coast, conosciuto non solo come sassofonista e
clarinettista ma anche come ottimo arrangiatore e compositore; è lui infatti
che scrive ed arrangia uno dei maggiori successi dell’orchestra di Woody Herman, Four Brothers, del 1947. Ma, contrariamente ad alcuni suoi colleghi
come Gerry Mulligan, Stan Getz o Dave Brubeck, si allontana pian piano dai riflettori, dal successo
commerciale preferendo sperimentare nuove soluzioni e sonorità.
Ispirato dalla Sonata per flauto,
viola e arpa di Debussy e con l’idea
di sviluppare così ulteriormente il suo approccio contrappuntistico Jimmy Giuffre forma un trio drumless
con Jim Hall alla chitarra e Ralph Pena al contrabbasso (più tardi
al posto di Pena subentrerà Bob Brookmeyer al trombone a pistoni!).
A questo aggiunge un lento abbandono del sax per suonare quasi esclusivamente
il clarinetto, scelta decisamente controcorrente.
Le sonorità del nuovo progetto di
Giuffre sembrano condividere i
parametri dell’estetica cool ma in realtà c’è qualcosa che lascia intravedere
gli sviluppi futuri. Innanzitutto la scelta di non avere batteria: lo swing non
sembra affatto risentirne ma è sempre presente sottotraccia, permettendo una
maggiore libertà nelle improvvisazioni e lasciando emergere un forte interplay
tra i tre musicisti che iniziano ad eludere i confini tra tema e improvvisazione.
Il “blues-based folk jazz” di Jimmy
Giuffre è alla ricerca di un’intensità e di un feeling che solo le
atmosfere morbide e le sonorità contenute possono far emergere, lontano dalle
grida e dal volume alto della maggior parte dei gruppi jazz dell’epoca.
Nel 1957 si sposta a New York, e
qui nuovi stimoli portano Giuffre
lontano dai suoni west coast e vicini alla nuova scena free che sta emergendo
sul finire dei ’50 inizi ’60 proprio nella Grande Mela. Il trio rimane la
formazione ideale per Giuffre, ma cambiano
questa volta i musicisti; Paul Bley
al piano e Steve Swallow al
contrabbasso. Nel 1961, a marzo e ad agosto, il nuovo trio registra due album
per la Verve (poi ristampati in un doppio cd dalla ECM nel 1992): Fusion e Thesis.
La Fusione di Jimmy Giuffre è un materiale sonoro
liquido ma non informe, composito ma fluido, ricco di stimoli e di suggestioni.
Le dissonanze sono immediatamente stemperate da continue consonanze, il
semplice sembra tramutarsi in complicato e viceversa. C’è una libera ricerca di
nuove forme e le tonalità vengono in parte abbandonate per poi essere riprese.
Questo disco sembra essere un’alternativa alla bollente energia dell’hard bop
così come alle rivolte musicali e socio-culturali del free. Ma non lo è perché
non si contrappone ad essi bensì ne rielabora alcune tematiche e ne sussurra
nuovi aspetti. È fondamentale, come in passato, l’interplay fra i tre
musicisti; piano e contrabbasso sembrano fondersi con quel suono così delicato
eppur anomalo, sfuggente, alieno in certi casi, del clarinetto. Coraggiosa e
vincente è la scelta stilistica di Giuffre;
rinunciare in pieno alla tradizione virtuosistica dello strumento per costruire
un proprio linguaggio innovativo che faccia respirare e parlare il clarinetto
insieme agli altri strumenti, che lo faccia vibrare sommessamente senza dover
per forza urlare. In Fusion c’è un
dialogo pacato tra i musicisti che porta il trio ad improvvisare in una
continua ricerca tematica, portando alla luce il blues del Texas come la Third
Stream, il free come il Modern Jazz
Quartet. Il volume basso, il suono soffice, il soffio permettono
all’ascoltatore di percepire continuamente nuove suggestioni, richiami,
visioni.
Thesis, registrato qualche mese dopo, è diverso. Ma è una diversità
insita in Fusion, non se ne
percepisce al primo ascolto il carattere programmatico. Dove Fusion era materiale liquido Thesis sembra offrire rivoli solidi,
spunti programmatici solitari inseriti in discorso complesso, vicino alla
musica “colta”. Dove in Fusion c’era
suono comune qui spesso gli strumenti appaiono isolati tra loro, intenti a
elaborare i loro assunti, forti della precedente compattezza, della loro
raggiunta fusione. Lo stesso clarinetto di Giuffre
suona leggermente più alto, su registri acuti. Le composizioni sono più
angolose, aggressive, libere da tonalità. Dopo essere riusciti a fondere i loro
suoni, i tre musicisti manifestano la volontà di enunciare le loro idee uscendo
dal materiale fuso e spargendo note e suoni nell’aria. Il tutto sempre in
maniera sommessa, quasi a non voler disturbare troppo, come se fossero di lato
rispetto al fluire degli eventi.
Sarebbe finita qui se uno non
considerasse il terzo capitolo della saga, Free
Fall. Sempre lo stesso trio, qualche mese dopo Thesis e un tour in Europa. E può benissimo dirsi l’esplosione di
un gruppo, di un’idea; lo scioglimento dei suoni nella libera improvvisazione
quale naturale approdo dell’intero percorso artistico di Giuffre. Una sonorità ostica e sfrangiata, un oltrepassare i limiti
e lanciarsi nel precipizio dell’ignoto. Il trio che ha fuso le sue molteplici
influenze e ha teorizzato nuovi assunti, con Free Fall mostra la dissoluzione
del tutto, una libertà angosciante, che sa di fine della storia.
“Ci disperdemmo una notte in cui
guadagnammo 35 centesimi ognuno”. Steve
Swallow
pop