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mercoledì 30 marzo 2022

Lettere al Direttore (6)

 



Caro Direttore,

Le scrivo con un leggero sorriso sul mio viso, quasi con una sorta di compiacimento. È buffo, lo so, ma appena ho saputo della sconfitta della nazionale italiana di calcio per mano di una sconosciuta del football mondiale quale è la Macedonia del Nord, la mia bocca si è increspata, i miei occhi hanno sommessamente brillato e io mi sono seduto placido sul divano.

Lei forse sa, caro Direttore, che il mio nome è omonimo del mitico allenatore Edmondo Fabbri, passato ahimè alla storia non per le sue qualità ma per la ormai non più storica sconfitta e conseguente eliminazione dai mondiali del 1966 con la Corea del Nord (buffa questa simmetria geografica nordista!). E dico con piacere non più storica, perché credo che quella sconfitta sia stata tutto sommato meno clamorosa di questa, avvenuta sere fa. Quale ironia per un paese che per il calcio ha una folle devozione, un credo immotivato e per certi versi immorale: mancare per la seconda volta di seguito la qualificazione ai Mondiali per colpa di un’anonima squadra.

Per anni ho coltivato una sorta di ammirazione mista a profondo dispiacere per quell’allenatore costretto a rimanere a bordo di un aereo per più di un’ora senza poter scendere a causa dell’ira dei tifosi, impazziti per l’inopinata sconfitta. Ora penso sia giunto il momento di lasciare in pace il mio omonimo, di dimenticarlo per quella trascurabile eliminazione a fronte di ciò che è avvenuto con gli onesti e sconosciuti macedoni, figli di un calcio d’altri tempi, povero e modesto, lontano certo dai fasti e dal denaro scintillante. È tempo di ridare dignità ad un personaggio che è stato sconfitto non dalla Corea del Nord ma dal suo stesso paese, inadatto ad accettare debolezze e umiltà. Viva Edmondo Fabbri.  

 

L’omonimo

Suo assiduo Lettore

Lettere al Direttore (5)



 

Direttore,

le scrivo così di getto, quasi di soprassalto, come per un’esigenza di liberazione. Mi trovo in strada, seduto ad un bar sotto un bel sole, caldo ma allo stesso tempo rinfrescante. Pur con tutto il piacere che questa momentanea dimensione mi provoca, le idee smuovono i miei sentimenti, acutamente. Non posso non riflettere sull’inconsistenza di un autentico pensiero progressista, rivoluzionario, utopista, e quindi sull’assenza pressoché totale di un protagonismo degli sfruttati, imbrigliati e imbrogliati sempre più in discorsi e rivendicazioni nazionaliste, regressive, collaterali al Mercato. E’, questa assenza, motivo del mio pessimismo e, in un quadro generale, causa del nostro scontento e dei pericoli che corriamo in questo momento. Ma la tristezza si acuisce quando vedo sparuti rimasugli di quella che un tempo fu una grande forza di emancipazione, prendere le mosse di volta in volta di questo o quel personaggio, provocando nei fatti una sorta di tifo del nemico del mio nemico. È proprio questo agire che mostra la subalternità ai discorsi dominanti, alle azioni e alle dinamiche del Capitale, senza una reale possibilità di poter incidere sui nostri destini e sul futuro del pianeta. Si tenta di rispondere all’abbandono degli ideali di cambiamento compiuto da una larga parte della sinistra storica, ormai pienamente inserita nell’ambito dell’esistente, con riflessi condizionati del passato, ricercando di volta in volta presunti alleati che in realtà non sono altro che diverse facce della stessa medaglia. 

 Servirebbe invece un’altra voce, un altro punto di vista, altre idee che provino a sovvertire realmente l’esistente. Invece di essere rinchiusi nella morsa degli eventi dovremmo cercare di disinnescarla, quella morsa, per poter liberare l’umanità dallo scempio dell’esistente, del pensiero unico, del realismo capitalista.

La finisco qui, dopo averla certamente importunata più del solito, e conscio della mia inettitudine e del mio velleitarismo. Tutto sommato anche io sono prodotto e causa della nostra inconsistenza, del nostro marginalismo. Ma non mi tolga, almeno lei, la soddisfazione di poter esprimere le mie inquietudini e i miei sfoghi. Tutt’altro che produttivi, lo ammetto.

Cordiali Saluti

Edmondo Fabbri, suo assiduo Lettore

  

 

 

 

 

 

Recensioni. Henry Cow "Western Culture"

 



                                                                         Henry Cow
                                                                 WESTERN CULTURE
                                                                       Broadcast 1978

E’ il loro ultimo disco, una sorta di testamento per le generazioni future e un affresco per nulla roseo della civiltà occidentale. Nel 1978 gli Henry Cow, nonostante i primi segnali di crisi e di affaticamento, decidono comunque di tornare  in studio per registrare un altro lp. Non ci sono più John Greaves, impegnato con i National Health, e Dagmar Krause, per problemi di salute. Il primo materiale registrato è composto per lo più da canzoni ma proprio per questo non sembra in linea con la storia e l’estetica di Henry Cow, così tutto quel repertorio va a finire nel primo disco degli Art Bears, formazione con Fred FrithChris Cutler e Dagmar Krause. Proprio queste discussioni intorno al repertorio portano alla decisione di terminare l’esperienza del gruppo,  con la registrazione di  nuovo materiale solo strumentale che sarà l’ultimo disco ufficiale degli Henry Cow, il primo in studio non per la Virgin ma per la loro etichetta, la Broadcast. 

l quartetto base  (Tim HodgkinsonLindsay CooperFred FrithChris Cutler) registra 7 tracce, le prime tre a nome di Hodgkinson, le altre tre di Lindsay Cooper e la settima scritta insieme dai due autori. 
Il primo brano, Industry, chiarisce immediatamente le coordinate musicali dell’intero disco: musica contemporanea, Zappa, dissonanze e improvvisazioni libere innestate su brani dai rapidi cambiamenti e dai tempi intricati, atmosfere inquietanti, aperture consonanti e spazi cerebrali. The decay of cities si apre con una chitarra acustica vagamente canterburiana (dalle parti di Hatfield e National Health) per poi sfociare in atmosfere tipicamente zappiane. Verso la fine del brano sembra di ascoltare i Soft Machine di Third. Il terzo brano, On the raft, ci porta in ambito jazz inglese, con  una intrigante melodia contraddistinta da un bell'impasto di fiati. I brani di Lindsay Cooper hanno un sapore più vicino alla musica “colta”, con passaggi Progressive e sperimentazioni varie. Gretel’s tale è impreziosito dalle improvvisazioni alla Cecil Taylor della pianista Irene Schweizer,  mentre il breve Look back, dalle atmosfere delicate, sembra quasi musica da camera. La chiusura è affidata alla stupenda e solare Half the sky,  attraversata da un sax soprano che improvvisa gemendo piccoli suoni e frasi spezzate, con un finale tipicamente prog. La ristampa in cd contiene tre bonus tracks. E’ la conclusione della vicenda Henry Cow, ma i protagonisti saranno comunque ben attivi per tutti gli anni ’80 e oltre con progetti e dischi di assoluto valore.




pop

lunedì 28 marzo 2022

Recensioni. Matthew Halsall "Salute to the Sun"

   




                                                                Matthew Halsall

                                                            SALUTE TO THE SUN

Gondwana Records 2020

C’è un fascino misterioso, ammaliante, che cattura al primo ascolto, in questo nuovo lavoro del trombettista di Manchester Matthew Halsall. Seppur non originalissimo come proposta, nondimeno Salute To The Sun ha una sua estetica ben definita e con alcuni lati assai pregevoli. Prima di tutto l’uso delle dinamiche, non così frequente in ambito popular, un saper espandere la materia sonora, allargarla e restringerla provocando un moto ondoso a bassa intensità. E poi lo spazio, il respiro, una profonda estensione dei confini che porta i brani a solcare distese illimitate: si potrebbe star lì ad ascoltarli per ore e ore, senza mai stancarsi.  Forse è il frutto della Meditazione Trascendentale, della quale Halsall è un seguace, comunque è musica, questa di Salute To the Sun, che profonde spiritualità e serenità, accanto a quel fascino impalpabile, quasi sotterraneo e che spesso fa affidamento sulle eccelse qualità dei musicisti coinvolti. Halsall ha un suono limpido, chiaro, definito, pulito. A tratti ricorda Ian Carr, e quindi è pienamente nel solco davisiano, ma possiede un proprio suono, originale e brillante nelle improvvisazioni, costruttore infaticabile di racconti sonori, meditativo. Grande spazio è riservato al sassofonista e flautista di Leeds Matt Cliff, anch’esso limpido e pulito sia nell’esposizione tematica che nelle improvvisazioni. E fondamentale, nell’economia del suono, appare anche l’arpa di Maddie Herbert, che porta Salute To The Sun nell’alveo coltraniano, ovviamente più quello di Alice che di John. Ritmica impeccabile, agile, leggera e allo stesso tempo incisiva nel sorreggere e stimolare le storie dei solisti, nell’adagiare con calma e precisione la musica. Liviu Gheorghe al piano, Gavin Barras al basso e Alan Taylor alla batteria forniscono una cornice adeguata alle introspezioni sonore, amalgamandosi con cura e rendendo mai noiosa l’atmosfera, che pur potrebbe correrne il rischio. Quasi non è necessario elencare i brani perché il livello è omogeneo per tutto il disco (ma The Energy Of Life, a chiusura dell’album, merita una menzione speciale con quel suo irresistibile tema), a farne di fatto un libro sonoro sulla meditazione e sull’uso delle improvvisazioni modali, con quel tocco di orientale che ogni tanto sposta l’accento sull’etno jazz. Ma davvero siamo lontani da banalità e formule stantie, la freschezza e l’estrosità di Salute To The Sun è ineccepibile, tale da farne uno dei migliori dischi del 2020. E con ragione.   

 

Matthew Halsall, trumpet

Matt Cliff, saxophone, flute

Maddie Herbert, harp

Liviu Gheorghe, piano, kalimba, marimba

Gavin Barras, bass

Alan Taylor, drums

Jack McCarthy, percussion

Tom Harris, kalimba


pop

venerdì 25 marzo 2022

Lettere al Direttore (2)

 



Caro Direttore,

mi trovo di nuovo a scriverle sperando di non importunarla troppo. Immagino stia pensando di trovarsi di fronte ad una sorta di stalker, ma le assicuro che non intendo passare per quelle figure assai inquietanti che assillano quotidianamente qualsiasi persona abbia un minimo di notorietà. Insomma, vorrei solo fornirle di tanto in tanto spunti, riflessioni e quesiti che mi sembra possano aiutarla nel suo lavoro, o perlomeno possano suscitare interesse nei suoi lettori, tra i quali ovviamente ci sono anch’io.

L’altro giorno, mentre sfogliavo una delle riviste musicali che saltuariamente seguo, mi sono imbattuto in uno strano personaggio a me fino ad allora sconosciuto. Eric Chenaux, apprezzato chitarrista canadese, molto probabilmente ignoto alla grande massa, ma credo che anche lei non ne abbia mai sentito parlare, né tantomeno abbia avuto modo di ascoltarlo. Ebbene, caro Direttore, incuriosito dall’articolo sul musicista in questione, sono andato ad ascoltare la sua musica e ne sono rimasto assai colpito. Devo dirle, in tutta onestà, che comunque ho avuto difficoltà nel seguire i brani del suddetto chitarrista. trovandoli di complicata fruizione. Tuttavia, cosa assai rara, l’ascolto di Eric Chenaux mi ha portato a riflessioni bizzarre. Bizzarre perché, lo riconosco, assolutamente gratuite per certi versi, o comunque prive di particolare interesse. Ma, mi sono detto, forse sono riflessioni che possono suscitare una sua risposta, o magari incuriosirla per approfondire argomenti finora poco trattati. In ogni caso, la prego, non si faccia remore nel cestinare questa mia, nel caso la trovi assolutamente insulsa.

L’inconsueta musica di questo introverso e misterioso chitarrista sembra essere frutto di un particolare mix tra delicate e cantabili melodie e un tipo di improvvisazione dai caratteri assolutamente liberi, audaci.  In breve, l’ascolto procede in un continuo entrare ed uscire da consonanze, la delineazione di tratti melodici alternati a dissonanze, suoni morbidi ed effetti rumoristici, o meglio elettronicamente modificati in un senso profondo di ricerca. Insomma, se da un lato ci si sente appagati e rilassati da motivi soavi che confinano con territori pop, ballads dal vago sapore jazz, dall’altra si è continuamente sobbalzati verso terreni avventurosi, a volte anche irritanti, nondimeno con un loro particolare fascino. Tutto ciò mi ha portato a riflettere sullo stato assolutamente misero della nostra popular music, in particolare di quel pop e rock da classifica che giganteggia nei media occidentali. Eppure, basterebbe aggiungere, o mescolare, queste musiche prive di avventura con qualche sano e rivitalizzante inserto improvvisativo perché il tutto assuma un nuovo colore, nuovi e speziati sapori. Invece si è ormai bandita del tutto l’improvvisazione, relegata alle musiche di stretta derivazione afroamericana come il jazz, lasciando solo la continua ricerca del refrain cantabile, scontato, della canzoncina con i soliti accordi, o della finta provocazione estetica per vendere il prodotto. Sono banditi persino gli assoli di qualsiasi strumento, e il risultato è un piattume generale, a meno che non si vada alla ricerca di musiche di nicchia. Non crede, Direttore, che sia il caso di provare a rompere ogni tanto questa sensazione del già sentito, di incrinare queste musiche patinate che sorvolano le nostre orecchie e le nostre menti senza lasciare alcuna traccia? In fondo, improvvisare fa parte della nostra vita quotidiana, perché espungere quest’atto dalla musica?

Spero di non averla annoiata troppo.

Cordiali Saluti

Edmondo Fabbri, suo assiduo Lettore  

  

Lettere al Direttore (1)

 



Caro Direttore,

mi premetta di rivolgermi a lei in questo modo così confidenziale, anche se non ci conosciamo. O meglio, lei sicuramente non sa nulla di me, al contrario io credo di conoscere qualcosa di lei, perlomeno il suo pubblico pensiero, da suo assiduo lettore quale sono. Le scrivo in questi momenti certo drammatici del nostro tempo, con guerre e pandemie che tormentano i nostri animi (e i nostri corpi) e non le nascondo di avere un pizzico di nostalgia di epoche lontane, non tanto per la gioventù ormai perduta quanto per la nitidezza degli accadimenti passati, la possibilità di avere più certezze, maggiori convinzioni di quante ne abbia ora. Ma probabilmente è solo il corso degli anni che porta ad un continuo interrogarsi, mettere in dubbio, cercare argomenti, risposte e domande alle questioni in atto, provando a rintracciare le motivazioni e le ragioni altrui. 

Vede Direttore, non che io non abbia convinzioni, anzi: ma in questi ultimi anni tento disperatamente di aderire appieno ad esse, cercandone ragioni profonde che me ne diano la legittimità, e non ci riesco. Anzi, sempre più provo forme di disagio di fronte alle scelte di campo nette, senza sconti. Non so, è come se rintracciassi nelle opinioni a me avverse piccole verità che riconosco legittime, con un senso di fondatezza. Credo, caro Direttore, che le sfumature e le dialettizzazioni siano molto più importanti ora che in passato. Ma questa nostra società sembra invece favorire le scelte di campo assolute e l’arruolamento nei rispettivi schieramenti. Chi tenta di argomentare viene sommerso dalle facili risposte, dai semplici commenti e dalle narrazioni spesso superficiali, ma alquanto efficaci da portare avanti. 

Una guerra non può non essere avversata, e ne ho avversate tante in passato. Eppure, mi sembra importante cercarne le ragioni, anche se folli o totalmente sbagliate. Trovo indispensabile tentare di capire le motivazioni, i perché di azioni che non condivido assolutamente, ma che penso non nascano da insensatezza o pazzia. E quant’anche possano sembrare tali, è importante trovarne comunque le possibili cause, almeno per evitare che si ripetano. Ciononostante, questi tentativi di ragionamento sembrano perdenti, arrendevoli di fronte alle tragedie della storia, e appaiono come futili distinguo per placare le mie diffidenze rispetto alle narrazioni di parte. Ma non trovo altra via che quella di soppesare, ragionare, comprendere, condannare certo, per provare a far tacere le armi, rimuovere dal consesso umano lo strumento della guerra che non porta certo soluzioni, semmai acuisce i mali, con lugubre corredo di morti innocenti. La finisco qui, per ora, sperando di non averle recato troppo disturbo. Se mi permette, come chiosa finale, vorrei dirle che ho anche nostalgia di quelle lettere al Direttore di tanti anni fa, di quell’epistolario che mostrava i sentimenti e le idee del semplice lettore di fronte ad una figura rispettabile come quella di un onesto e preparato direttore di un giornale. Rispetto alla cagnara dei commenti social, quella ponderatezza, quel bizzarro mix di pubblico e privato appaiono una sorta di luogo fantastico, certo di altri tempi. E di altri modi.

Cordiali Saluti

Edmondo Fabbri, il suo assiduo Lettore

giovedì 24 marzo 2022

Weird Tales. Henry Grimes e il suo The Call


 





Ci sono quei dischi che hanno un potere magnetico, ti incuriosiscono e ti affascinano al solo sentirne parlare, prodotti unici e colmi di un loro potere seduttivo misterioso. E in quanto a unicità, fascino, mistero, The Call, a nome Henry Grimes Trio, ne ha da vendere!

Iniziamo dalla casa discografica, la ESP dell’avvocato Bernard Stollman, folgorato dalle sonorità free dei vari Ornette ColemanAlbert AylerSun Ra, nei primi anni Sessanta in quel di New York. E che dà l’opportunità di registrare il primo disco a suo nome ad uno dei grandi protagonisti di quella stagione, il contrabbassista Henry Grimes. E qui passiamo alle vicende, senz’altro avventurose e avvolte dal mistero, di questo grande musicista ahimè morto poco tempo fa, possiamo dire per la seconda e definitivamente ultima volta.  La lista dei musicisti con i quali ha collaborato è impressionante per quantità e qualità: Anita O’DayBobby TimmonsLee MorganGerry Mulligan e Chet BakerArt FarmerBenny GoodmanTony ScottSonny RollinsThelonius MonkLee Konitz. E poi la svolta, agli inizi degli anni ’60: Cecil TaylorDon CherryAlbert AylerPharoah SandersArchie SheppSteve Lacy, fino a diventare IL contrabbassista free per eccellenza. Un monumento della musica afroamericana che però misteriosamente scompare dalle scene alla fine del decennio, per oltre trent’anni dato per morto salvo poi riapparire miracolosamente nel 2002, senza più il suo strumento e in condizioni disagiate ma con ancora una grande voglia di rimettersi in cammino, cosa che poi effettivamente avverrà.  Nella sua prima vita, nonostante le numerose collaborazioni e il suo talento Grimes ha a suo nome un solo album, proprio questo The Call, e ovviamente solo una casa discografica avventurosa e sperimentale come la ESP poteva dargli questa opportunità.

Ma le peculiarità di questo disco non finiscono qui. Curiosamente la carriera di Grimes ha più volte incrociato le note e  i suoni di uno strumento che nel secondo dopoguerra certo non era più così comune come un tempo: il clarinetto. Tra i musicisti con i quali il contrabbassista ha collaborato spiccano i nomi di Benny Goodman e di Tony Scott. E, sorprendentemente, di un altro clarinettista che fin qui abbiamo taciuto ma che è uno dei suoi compagni di avventura in The CallPerry Robinson.  

Figlio del compositore e folk singer Earl Robinson, cresciuto a New York in un ambiente liberal e naturalmente orientato verso le arti e la musica in particolare, Perry Robinson è uno dei rari clarinettisti “puri” degli anni ’60, cioè di coloro che hanno scelto e praticato il clarinetto come primo e unico strumento. Scelta assolutamente controcorrente, come abbiamo già ricordato, ma che non ha precluso al nostro una carriera interessante pur se di nicchia. Sicuramente poco conosciuto e non certo un virtuoso dello strumento, Robinson ha avuto il merito di trovarsi al momento giusto nel posto giusto. Suona con Archie Shepp in Mama Too Tight ma soprattutto partecipa a due grandi dischi dal respiro collettivo,  Liberation Music Orchestra di Charlie Haden e Escalator Over The Hill di Carla Bley. Non male per un clarinettista, che aggiunge alle sue frequentazioni album con Jeanne LeeAnnette Peacock, persino il gruppo rock alternativo The Fugs e operazioni soliste dedicate allo yoga kundalini e alla musica klezmer.  Oltre a, naturalmente, questo The Call con Henry Grimes. I due hanno un profondo rapporto di amicizia nato a metà anni ’50 durante una jam session e sugellato nel 1962 proprio con l’esordio come solista di Perry Robinson, con il suo Funk Dumpling.  Nel 1965, dopo il servizio militare, Robinson torna a New York e finisce per andare a vivere nel frizzante East Village proprio con Grimes e il terzo protagonista di questa nostra piccola storia, il batterista Tom Price. Amico di Robinson fin dai tempi di scuola e membro dell’ Uni Trio con lo stesso clarinettista e il bassista Bill Folwell (anche lui nella stessa scuola!), Tom Price è stato un allievo di Alan Dawson e, rispetto a Grimes e Robinson, non vanta grosse collaborazioni, a parte concerti con Jaki Byard e un bel disco a nome del sassofonista Frank Wright con lo stesso Grimes al contrabbasso, sempre edito dalla ESP. The Call nacque durante il periodo di convivenza dei tre musicisti, in una zona dove vivevano moltissimi jazzisti e si respirava una grande energia, qual era l’East Village a metà anni ’60. Ancora un particolare: talmente forte era il legame che li univa che trent’anni dopo, quando Henry Grimes riemerse dalla nebulosa nella quale era scomparso, si ritrovarono insieme a suonare.

Il disco è un classico del free jazz di quegli anni. Batteria tumultuosa, contrabbasso irruento ma nitido e strumento a fiato libero di scorrazzare tra i flussi sonori impetuosi. Tre strumenti che dialogano da pari, a sovvertire di continuo i ruoli. Ma The Call ha alcune sue particolarità che lo rendono diverso, lo discostano in parte dai cliché del genere. Innanzitutto, come dicevamo, la presenza del clarinetto che da quelle parti si era visto raramente, a parte i bellissimi lavori di Jimmy Giuffre con Paul Bley e Steve Swallow. Ma lì le atmosfere erano pacate, a stretto contatto con suggestioni contemporanee, mentre The Call aderisce in pieno alla tipica estetica free. Tuttavia, il clarinetto di Robinson, dal suono nasale e angoloso, devia le sonorità in una landa fino ad allora poco frequentata, una sorta di veemenza morbida, talvolta gentile, persino giocosa. Il suono complessivo è coinvolgente e mostra un alto tasso di interplay, probabile effetto della convivenza, con un’essenzialità unica, senza rivoli infruttuosi o superflui. Oltre la metà dei brani è fra i tre e i quattro minuti, mentre For Django, di Henry Grimes, è una suite ariosa, che lascia spazio ai singoli strumenti ma che vede anche melodie all’unisono e atmosfere sospese, quasi di impronta classica, unite a momenti più nervosi e con un contrabbasso portentoso, dallo swing eccezionale. L’altra composizione di durata estesa è quella che dà il titolo al disco, The Call, scritta da Robinson, che la suonerà nel corso di tutta la sua carriera nei contesti più disparati. È una sorta di breve richiamo, composto anni prima, provando a suonare insieme ad un calabrone e cercando di imitare il suono di altri insetti.  Walk On, sempre dello stesso Robinson, ha striature bop, mentre Son Of Alfalfa, di Grimes, è il seguito di Farmer Alfalfa (un cartone animato che Grimes amava vedere, una specie di Braccio di Ferro!), sempre composta dal contrabbassista e pubblicata su Funk Dumpling, il disco d’esordio di Robinson.

In definitiva, The Call è un disco che avrebbe meritato certamente più fortuna, come l’avrebbero meritata i tre musicisti, non fosse altro per aver registrato questo meraviglioso album.  Dal quale emerge una musica che, pur essendo segnata profondamente dall’estetica del tempo, non ha perso bellezza e comunicatività, come solo i grandi dischi sanno avere. A fronte di un monumentale Henry Grimes, con il suo energico e allo stesso tempo limpido  e ancestrale contrabbasso, sia Robinson che Price contribuiscono alla riuscita dell’opera con performance probabilmente mai più raggiunte nel prosieguo della loro carriera. Dei tre l’unico ad essere rimasto in vita è il batterista, mentre Robinson ci ha lasciato nel 2018.  

“Henry was so beautiful, and we were so close. He was a genius on bass, and even with all his problems he was still able to play. He’s one of the unsung heroes of jazz”. Perry Robinson 


pop

Weird Tales. Il "modernismo" di Pee Wee Russell


 


Il clarinetto è stato uno strumento sfortunato in ambito jazzistico. Tra i protagonisti agli albori, addirittura strumento simbolo durante la swing era, con l’avvento del be bop diventa praticamente obsoleto, vecchio, fuori moda. Soppiantato dal sassofono, il clarinetto rimane in vita grazie a pochissimi musicisti, tra gli anni 40 e i settanta, quando c’è un timido riaffacciarsi sulle scene del jazz contemporaneo. Tony ScottBuddy De FrancoJimmy Giuffre, Pee Wee Russell e poi John Carter, sono tra i pochi jazzisti di un certo livello che suonano esclusivamente o, nel caso di Giuffre e Carter, alternandolo al sax, lo strumento che fu protagonista, insieme alla cornetta e al trombone, della nascita del jazz. Ma in questo breve elenco la figura di Pee Wee Russell emerge con un ulteriore anomalia rispetto agli altri suoi colleghi; è sempre stato considerato un musicista dixieland pur non avendo mai suonato, propriamente, dixieland. Sembra un paradosso ma effettivamente è proprio così.

Andiamo con ordine.

Charles Ellsworth Russell nasce il 27 marzo 1906 a Maplewood, in Missouri, ma la sua famiglia è originaria di Muskogee, in Oklahoma ed è lì che cresce e inizia a suonare vari strumenti musicali, su impulso del padre. Violino, pianoforte e batteria finché, dopo aver assistito ad un concerto del clarinettista di New Orleans Alcide “Yellow” NunezPee Wee Russell opta definitivamente per il clarinetto. Nel 1920 la famiglia si trasferisce a St. Louis e qui inizia l’avventura musicale di Russell, accanto a musicisti del calibro di Bix Beiderbecke e Frankie Trumbauer, per poi spostarsi a New York e aggregarsi al trombettista Red Nichols e al chitarrista e bandleader Eddie Condon, con il quale suonerà e registrerà praticamente durante tutta la sua carriera.

Come dicevamo, Pee Wee Russell è sempre stato associato al dixieland, e i suoi compagni di palco sono quasi sempre stati in quell’ambito, anche se lo stile e l’approccio improvvisativo distano notevolmente dai cliché del genere, così come dall’estetica swing. Ma come suona Russell, perché è così particolare, così intrigante per certi versi?

“Non è un virtuoso e il suo suono è ansimante e stridulo, ma dimentichi quei difetti quando senti la beatitudine, la tristezza, la compassione e l’umiltà che sono lì nelle note che suona”. George Frazier, giornalista e critico jazz.

Queste definizioni racchiudono in gran parte il fascino di Pee Wee Russell, quel suo costruire le improvvisazioni con un accento “moderno”, dove il rumore, il soffio, le note storte e le spigolosità sono parte integrante della musica. Pee Wee improvvisa in modo bizzoso, con frequenti suoni disarticolati e improvvisi slanci melodici, inserendo elementi grotteschi e lavorando spesso sui toni bassi dello strumento. La scelta delle note a volte può sembrare errata ma la costruzione delle anomale melodie è così efficace da tratteggiare assoli imprevedibili e originali. Il bello è che anche la sua faccia e i suoi atteggiamenti sul palco corrispondono a quel suono, con un andamento goffo e un’espressione triste, quasi fosse una sorta di Buster Keaton del jazz.

Tuttavia, questa sua modernità non lo ha portato a frequentare altri ambienti e musicisti se non, appunto, il giro dixieland, probabilmente per una sua pigrizia, per i suoi problemi con l’alcool, o semplicemente per un’ingiusta sottovalutazione delle sue qualità. Ma agli inizi degli anni ’60 qualcosa cambia, le acque si smuovono.

Dopo una crisi dovuta al suo cattivo stato di salute nella prima metà degli anni 50, sul finire della decade Pee Wee riprende a suonare con regolarità e con i giusti apprezzamenti, anche da parte della critica. Le prime avvisaglie del cambio di rotta sono un incredibile duo con Jimmy Giuffre e un disco registrato insieme all’altro grande clarinettista, Tony Scott (Tony Scott And The All Stars52nd St. Scene, registrato il 6 agosto del 1958). Inoltre, inizia a partecipare ad importanti festival jazz, suonando accanto a Coleman Hawkins e a Lester Young. E arriviamo così al febbraio del 1961 quando Russell incide il bellissimo Pee Wee Russell – Coleman Hawkins All Stars, insieme allo storico sassofonista e con, tra gli altri, Bob Brookmeyer al trombone a pistoni e Nat Pierce al piano e agli arrangiamenti, il tutto prodotto da Nat Hentoff. Questo nuovo interesse e rivalutazione del clarinettista attira l’attenzione del trombonista, arrangiatore e direttore di big band Marshall Brown, ansioso di accrescere la sua reputazione nel mondo jazz e intenzionato ad investire i suoi soldi su un progetto abbastanza audace: inserire in modo stabile Pee Wee Russell in un contesto moderno, vicino alle nuove tendenze del jazz degli anni 60. E quindi, insieme al contrabbassista Russell George e al batterista Ron LundbergBrown Russell allestiscono un quartetto pianoless (sulle orme del famoso gruppo di Gerry Mulligan e Chet Baker) con un repertorio da far spalancare gli occhi. Composizioni di John ColtraneThelonious MonkTadd Dameron e persino Ornette Coleman!

Pee Wee è interessato alla sfida e vuole finalmente mettersi alla prova con musicisti e brani lontani dal suo abituale giro, anche se la figura di Marshall Brown non lo convince del tutto, con quel fare da istruttore nei suoi confronti. Alle prime prove, agli inizi del 1962, assistono anche Kenny Davern e Roswell Rudd che spronano Russell a continuare questo esperimento, convinti che il contesto fosse finalmente quello giusto per un musicista come Pee Wee.  

Il 15 ottobre del 1962 il Pee Wee Russell Quartet with Marshall Brown debutta dal vivo a Toronto. E, com’era facile attendersi, il nuovo gruppo scontenta totalmente i suoi vecchi fans e non convince i “modernisti”, ancora restii ad accettare il nuovo corso del clarinettista. Il quale, tuttavia, nelle interviste più volte sostiene di non aver mai suonato dixieland, bensì solo e soltanto jazz. E quindi non c’è nessuna rivoluzione in corso, semplicemente un repertorio diverso. Che in effetti non è del tutto sbagliato.

New Groove, il disco del quartetto, esce per la Columbia Records nel maggio del 1963, dopo sedute di registrazione svolte con tensione e incomprensioni, tra la rigida disciplina di Brown e la rilassatezza e l’indolenza di Russell. Tra i brani presenti nell’lp c’è una Red Planet di Coltrane, la ‘Round Midnight di Monk e Good Bait di Tadd Dameron, più altri standard come Moten Swing o Chelsea Bridge. Il disco è ben arrangiato, con un suono complessivo elegante e corposo, una ritmica puntuale e precisa e un affabile impasto fra trombone a pistoni e clarinetto.  Pee Wee Russell finalmente improvvisa in un ambito a lui consono, e costruisce assoli inusuali, linee storte e note inattese sia su classici come Taps Miller di Count Basie che su brani “moderni” come Good Bait. Discreto e di supporto armonico nel tema di ‘Round Midnight, commovente nell’enunciazione di Chelsea Bridge, con quel soffio intenso e le vibrazioni di un suono che viene da lontano ma che colpisce per la sua contemporaneità ancora adesso. A suo agio in Red Planet, dove mostra la sua capacità di improvvisare con un linguaggio ricco di echi free, Russell è eccezionale nella sua Pee Wee Blues, con un solo di altissimo livello. A mancare, nel disco, è un contraltare all’altezza, perché va detto che il buon Marshall Brown fa il suo compitino ma nulla di più, ed è un peccato perché contrabbasso e batteria suonano egregiamente. Le recensioni sono buone, dal vivo il gruppo riceve consensi entusiasti, addirittura Pee Wee vince il critics’ poll di Down Beat come miglior clarinettista dell’anno, ma i pregiudizi sono duri a morire e il disco non vende, non quanto dovrebbe. Tuttavia, questo non ferma il nuovo corso di Russell e nel luglio del 1963 il clarinettista suona insieme a Thelonious Monk al Festival Jazz di Newport, suscitando clamore tra il pubblico e critiche positive tra i giornalisti.  Prima di questo concerto il quartetto con Marshall Brown conclude le registrazioni e vende alla Impulse il secondo album, Ask Me Now (che però verrà pubblicato solo nel 1965), con una track list di tutto rispetto: insieme a brani scritti dallo stesso Brown, e a classici come Prelude To A Kiss di Ellington o How About Me? di Irving Berlin, figurano Ask Me Now e Hackensak di MonkSome Other Blues di Coltrane e un’incredibile Turnaround di Ornette Coleman 

Tuttavia, le sedute di registrazione per il secondo disco hanno evidenziato ulteriormente il malessere di Pee Wee Russell nei confronti di Marshall Brown, quella sua eccessiva rigidità nel registrare e allo stesso tempo l’inconsistenza improvvisativa che, a detta di Russell, ha pregiudicato i due lavori fin lì conclusi. Tanto è vero che i due provano a cambiare line up, a modificare qualcosa per tentare di raddrizzare il gruppo. E allora, a settembre del 1963, in previsione di una settimana di concerti al Village Vanguard di New York, il quartetto viene ampliato con l’inserimento del pianista Bob HammerJack Six al posto di Russell George al contrabbasso e Ronnie Bedford alla batteria, che già aveva partecipato alle registrazioni di Ask Me Now in luogo di Lundberg. Ma ormai non c’è più nulla da fare, il progetto è al capolinea e queste saranno le ultime esibizioni del gruppo, che si scioglie subito dopo, molto prima della pubblicazione del secondo album. A conclusione dell’esperienza Pee Wee dirà che non ricordava di aver mai preso così tanti ordini dai tempi della scuola militare. E oltretutto, dal punto di vista economico, fu un completo fallimento.

Resta da commentare l’ultimo disco, quell’ Ask Me Now pubblicato addirittura dalla Impulse.  Anche questo lavoro è ben arrangiato, in modo abbastanza tradizionale ma con garbo ed eleganza. E complessivamente è leggermente superiore al lavoro d’esordio, sia per una prestazione migliore di Brown che per un’ottima scelta dei brani, tra i quali gli originali del trombonista certo non sfigurano. L’apertura è affidata al brano di Ornette Coleman, una Turnaround suonata come un blues d’altri tempi, il suono caldo e quelle note appena accennate di Russell che emozionano e incuriosiscono. In Some Other Blues, di John ColtranePee Wee alterna richiami dixie a passaggi moderni, a note strozzate, in un solo di rara creatività, mentre Ask Me Now di Monk ha tutto il calore e il sapore dell’ebano, della tradizione jazz. Licorice Stick, uno dei brani originali, dall’andamento monkiano, è significativo per l’alternanza dei soli, tra un Brown discreto, ordinato, e un Russell pieno di passaggi inusuali, avventurosi, come se il più giovane fosse lui invece del trombonista. Hackensack, sempre di Monk, è divertente, briosa, mentre lo standard Angel Eyes, privo di improvvisazione, è ben suonato da Marshall Brown, che qui fa intravedere le sue qualità di narratore tematico.

Come dicevamo, il disco esce nel 1965, quando il gruppo già non esiste più e Pee Wee Russell è tornato ai suoi vecchi amori, al suo classico giro di musicisti dixieland, Jack TeagardenBud FreemanEddie Condon. C’è ancora spazio per concerti insieme al trombettista Henry “Red” Allen con una ritmica che vede Steve Kuhn al piano, Charlie Haden al contrabbasso e Marty Morell alla batteria e, nel 1967, un’insolita produzione di Bob ThielePee Wee insieme ad una big band con musiche dirette e arrangiate da Oliver Nelson. Purtroppo, nonostante la buona prova del clarinettista, l’esperimento non sembra del tutto riuscito anche perché il suono e lo stile di Russell non sono propriamente adatti alla forza e all’estetica di una big band.

Finisce così l’avventura “modernista” di Pee Wee Russell, e c’è un grande rammarico per quanto avrebbe potuto ancora dare se fosse stato più deciso nel continuare la svolta e magari avesse cambiato i partner. Ma così non è stato e, in ogni caso, pur in ambiti particolari, Charles Ellworth Russell ha continuato a regalarci ottima musica fino alla sua morte, avvenuta il 15 febbraio 1969.   

“Per trent’anni abbiamo tutti creduto che Russell facesse delle note sbagliate e lui ce lo ha lasciato credere; in realtà sapeva esattamente quello che suonava e noi abbiamo impiegato quasi trent’anni per capirlo!”

Coleman Hawkins


pop

lunedì 21 marzo 2022

L'Europa tra jazz e improvvisazione libera






Anche questo scritto fa parte della serie di schede informative del laboratorio sulla Storia del Jazz, Percorsi Jazz. 


L’Europa tra jazz e improvvisazione libera

 

“Il jazz afferma di essere una forma d’arte. Tutta l’arte è espressione del tempo in cui ha origine, un riflesso dell’ambiente in cui viviamo. Ecco perché un musicista jazz europeo non dovrebbe mai suonare come un musicista nero a New York o Chicago”

Albert Mangelsdorff

 

Se l’arrivo del jazz in Europa data già dai primi anni Venti, in corrispondenza più o meno della nascita di questa musica sul continente nordamericano, è altresì vero che fino al secondo dopoguerra questa musica vivrà in ambiti ristretti e non avrà certo ampia diffusione all’interno delle società europee. In Francia, in Gran Bretagna e nella Germania di Weimar le musiche afroamericane avranno anche i loro momenti di successo, ma ovviamente stiamo parlando di settori sociali esclusivi, avanguardie, circoli artistici, intellettuali. Va comunque sottolineato che il jazz, in molti casi, ricevette maggiori attenzioni ed ebbe un trattamento migliore, da parte degli ambienti culturali europei, di quanto ne avesse avuto negli Stati Uniti. Il primo libro sulla musica jazz è di Hugues Panassiè (“Le Jazz Hot”), un francese amante della nuova musica afroamericana, e molti jazzisti, quando attraversarono l’oceano per esibirsi in Europa, troveranno un atteggiamento di assoluto rispetto, che invoglierà molti di loro a tornarci o, in alcuni casi, a stabilirsi definitivamente.

Ostacolo alla piena diffusione del jazz in Europa furono l’instaurarsi delle dittature fasciste e naziste, in Italia e Germania, e delle ripercussioni che tali regimi provocarono sul resto dei paesi del continente, così come il consolidarsi del regime staliniano soffocò, anche qui, le sperimentazioni artistiche e il favore che il jazz, nei primi anni dopo la rivoluzione, aveva riscosso in Russia. A parte qualche influenza sulle musiche da ballo, del jazz non rimarrà molto fino alla Seconda Guerra Mondiale, con l’arrivo delle truppe americane e dei loro Vdisc, dischi espressamente registrati dalle big band per l’esercito statunitense. Se questo vale per Italia e Germania, per quanto riguarda Francia e Gran Bretagna, la penetrazione del jazz sarà più costante e duratura, nonostante appunto crisi economica e venti di guerra. Django Reinhardt, chitarrista di origine rom, e il violinista Stephan Grappelli, saranno popolari anche nella Francia del maresciallo Petain e persino tra alcuni gerarchi nazisti, mentre il fascino del jazz tradizionale, quello di New Orleans, manterrà solide radici in tutto il Regno Unito, dando vita ad un grande circuito di jazz tradizionale che si svilupperà ancor di più dopo la Guerra.

Il peso degli USA, non solo economico ma anche culturale, condizionerà l’Europa occidentale dopo il 1945, dando vita al modello politico e sociale delle democrazie occidentali, in netta contrapposizione con il blocco sovietico, e questo comporterà, fino al 1989, una netta divisione del continente che solo marginalmente verrà scalfita dai movimenti artistici. Il jazz sarà un elemento fondamentale della penetrazione culturale americana e diverrà velocemente una musica di riferimento non solo per i musicisti professionisti e dilettanti, ma anche per laghi settori della popolazione europea. Il ballo fece da traino ai ritmi delle big band e, anche se in patria il movimento era in netta crisi travolto dall’esplosione del be bop, lo swing sarà sinonimo di jazz nell’Europa degli anni Cinquanta. Ma presto le nuove tendenze presero piede anche nel vecchio continente, grazie ancora una volta ai numerosi concerti di musicisti americani in Scandinavia, Francia, Gran Bretagna, Olanda, Belgio, Germania e la stessa Italia. Questo comportò un consistente sviluppo del jazz europeo, con musicisti di assoluto valore, valga l’esempio degli svedesi Lars Gullin e Arne Dohnerus, oppure degli inglesi Ronnie Scott e Stan Tracey o del contrabbassista danese Niels-Henning Orsted Pedersen, che pur posizionandosi su un terreno di emulazione degli stilemi afroamericani, tra bop e cool, grazie alle loro capacità avranno la concreta possibilità di suonare accanto ai musicisti americani. Tuttavia, nonostante difficoltà e ritardi, tra revival del jazz tradizionale, emulazioni e musica di intrattenimento, l’esplosione del free jazz negli Stati Uniti non tardò molto ad avere ripercussioni anche in Europa. Il nuovo linguaggio permise a tutta una schiera di giovani jazzisti europei di poter approcciare finalmente la materia in modo originale e non seguendo semplicemente le tracce dei musicisti americani. Quell’approccio libero, creativo, fu la scintilla per far esplodere definitivamente la scena europea, questa volta su posizioni innovative, dando vita ad un movimento che travalicò le frontiere pur mantenendo alcune specificità nazionali. Un primo elemento di distinzione fu, in molti casi, la contaminazione con la musica colta, con le pratiche aleatorie e improvvisative dei compositori americani quali Cage, Feldman, Wolff, soprattutto in Gran Bretagna ma anche in Italia. Giorgio Gaslini e la sua musica totale, o il Gruppo Romano Free Jazz, sono mirabili esempi di creazione di un nuovo linguaggio che al suo interno contiene spunti, suggestioni ed elementi di ambedue i mondi sonori, quello accademico e quello jazz. Ma anche le esperienze inglesi del Joseph Holbrooke Trio, oppure dello Spontaneous Music Ensemble intrattengono forti contatti e pratiche con l’aleatorietà e l’improvvisazione colta. Lo stesso si può dire per la scena tedesca, mentre per quanto riguarda i Paesi Bassi, qui c’è un uso più irriverente e giocoso degli stilemi jazz intrecciati all’improvvisazione libera, con sviluppi alquanto originali. Altre caratteristiche sono le pratiche collettive, la formazione di orchestre più o meno stabili e transnazionali come la Globe Unity Orchestra di Schlippenbach, l’Instant Composer Pool di Misha Mengelberg, gli ensemble di Mike Westbrook e la London Jazz Composers’Orchestra, il Willem Breuker Kollektif. Ma anche Centipede, doppio album registrato da ben cinquanta musicisti inglesi, tra jazz, rock e improvvisazione libera, le etichette indipendenti come la Incus di Derek Bailey ed Evan Parker, oppure la tedesca FMP, i concerti autogestiti e i circuiti alternativi. E certo non potevano mancare i contatti con il nuovo rock, soprattutto in Inghilterra, così come forte fu l’influenza dei musicisti sudafricani che aprirono il jazz inglese alla ritmicità, agli intrecci tematici. Altrettanto importante fu il rapporto con le musiche tradizionali, sia in Italia (ad esempio Mario Schiano e il suo bel disco “Sud”), che in Scandinavia, dove peraltro operò con successo anche George Russell, influenzando profondamente la scena di quei luoghi. Ma va detto che molti musicisti americani si stabilirono, in quegli anni, spesso in Europa, dando nuova linfa ma anche ricevendone altrettanta, alla scena europea. Steve Lacy, Don Cherry, l’Art Ensemble Of Chicago, (Albert Ayler ed Eric Dolphy ebbero importanti collaborazioni con musicisti europei) furono tra i molti che seguirono l’esempio del vecchio Sidney Bechet, stabilitosi definitivamente in Francia nel Secondo dopoguerra.

In conclusione, il jazz europeo si inserì all’interno di quel vasto movimento, politico, sociale e culturale, che negli anni Sessanta rivoluzionò le società del vecchio continente e ne fu una delle espressioni artistiche di maggior rilievo. L’esperienza del free jazz ha permesso la nascita di un linguaggio comune europeo improntato alle pratiche di improvvisazione libera, quel territorio che prende spunti e insegnamenti sia dal mondo delle musiche afroamericane che da quello della musica contemporanea. E quest’approccio ha consentito l’emancipazione del jazz europeo dall’estetica americana, pur non negandone certamente le influenze, ma riuscendo a declinare la propria creatività con un linguaggio personale, ricco e composito, variegato ma allo stesso tempo con un substrato comune, valicando confini e cortine di ferro, ed arrivando effettivamente ad unificare, sotto la bandiera dell’arte libera, l’Europa.

 

pop

venerdì 18 marzo 2022

Disorder at the Border

 



Questo breve scritto fa parte di una serie di schede compilate per un laboratorio sulla storia del jazz, Percorsi Jazz. 



DISORDER AT THE BORDER

 

Il mito della frontiera, dello spostamento dei confini sempre più in là, fino alla conquista dell’intero continente, è stata una delle narrazioni più evidenti ed importanti delle vicende americane. E per quanto riguarda le arti, e il jazz in particolare, la ricerca e il superamento dei limiti hanno fatto da elemento propulsore delle dinamiche artistiche, in stretto rapporto con le vicende storiche e sociali. In circa un secolo di storia il jazz ha promosso una serie di trasformazioni tali da rivoluzionare in maniera profonda l’ascolto e la pratica musicale in tutto il mondo. Ovviamente questo è in stretta relazione con l’emergere e lo stabilizzarsi degli Stati Uniti come prima potenza mondiale, sia dal punto di vista economico che militare. E le evoluzioni tecnologiche, la radio e i dischi, hanno certo favorito l’espansione della musica jazz in tutto l’occidente, e non solo.

L’intreccio con le vicende storiche non è certamente circoscritto ad una dinamica di causa effetto, o posto in maniera meccanica, ma va interpretato e connesso dialetticamente. Come per tutte le arti, le vicende storico sociali, politiche ed economiche sono traslate, anticipate o interpretate dall’espressione artistica. La musica, in questo caso il jazz, è agente di storia, strumento di narrazione storica e fonte per la ricerca e siamo noi a dover interrogare la produzione artistica per rintracciare ed analizzare i rapporti che intercorrono tra essa e le vicende storiche. Agente di storia in quanto è presente ai mutamenti e, all’interno di essi, costruisce, delinea e organizza identità e partecipazione. Strumento di narrazione storica perché è in grado di narrare il passato, la storia e le storie delle vicende umane. Ed è, da ultimo, un materiale per la ricerca storica, una fonte certo difficile da maneggiare, stratificata e complessa[1].

Da questo punto di vista possiamo rintracciare, all’interno della storia del jazz che va dagli anni della Seconda guerra mondiale fino al 1959, anno di registrazione del disco Free Jazz a nome di Ornette Coleman, una tensione, un movimento spasmodico verso il superamento di confini, regole e comportamenti in ambito jazzistico. Il tutto strettamente intrecciato all’evoluzione storica degli Stati Uniti, alle sue contraddizioni interne e al suo ruolo esterno.

Il coinvolgimento degli USA nella Seconda guerra mondiale, nel dicembre del 1941 dopo l’attacco di Pearl Harbour, trova una nazione e una società ancora alle prese, seppur parzialmente, con la crisi economica innescata dal crollo di Wall Street del 1929. Il New Deal Roosveltiano aveva certo permesso un miglioramento generale delle condizioni di vita della popolazione ma la disoccupazione toccava, ancora nel 1940, il 14,5 per cento della popolazione, più di 8 milioni, e 5,6 milioni nel 1941[2]. La partecipazione in guerra riportò la piena occupazione e nuovi e grandi profitti per il sistema industriale americano, con conseguente rafforzamento del capitalismo americano anche in prospettiva mondiale[3]. L’entrata in guerra comportò uno stravolgimento dell’assetto sociale con il coinvolgimento, nella produzione e nel conflitto, di ampie fasce di popolazione fin lì escluse o emarginate. Le donne e gli afroamericani, ma anche gli operai, ora centrali nello sforzo della nazione per vincere la guerra, assunsero un ruolo importante che comportò un aumento di conflittualità e di richiesta di diritti. Si combatteva in nome di ideali progressisti e di uguaglianza all’esterno ma ovviamente quegli stessi principi dovevano essere messi in atto anche all’interno del paese. 

Il protagonismo delle masse popolari, e all’interno di esse della comunità afroamericana, ebbe riscontro anche nel campo delle arti, in particolare in ambito jazzistico. La guerra mise in crisi le grandi orchestre votate all’intrattenimento e al ballo, che tanto avevano spopolato negli anni ’30. Ma anche lo stesso ruolo del musicista, visto spesso come semplice esecutore, stava cambiando. La spinta a forzare i limiti sia della società che dal punto di vista artistico iniziò a manifestarsi in un momento cruciale come quello della Seconda guerra mondiale. Al successo della cinquantaduesima strada di New York, ricca di locali famosi con orchestre e star dello spettacolo, si andava contrapponendo in maniera sotterranea la Harlem dei Minton’s Playhouse e Monroe’s Uptown, piccoli locali dove si svolgevano jam session furiose e si sperimentavano nuovi linguaggi. L’iniziativa era nelle mani e nelle note dei musicisti neri, ora certamente in sintonia con il nuovo ruolo della loro comunità nella società americana. La mobilitazione della nazione americana in nome della libertà nella guerra contro il nazifascismo riportava a galla la questione razziale, e con essa un nuovo protagonismo degli afroamericani che si intrecciava alle rivendicazioni delle masse popolari bianche, impegnate nello sforzo bellico sia al fronte esterno che in quello interno. La crescita degli iscritti ai sindacati comportò anche la loro parziale apertura ai lavoratori neri, e un generale movimento di conquista di maggiori diritti serpeggiava in tutto il paese.

Il Be Bop, anche se in un momento particolarmente difficile, è segnale inequivocabile di maggiore dinamismo, di rottura di schemi preesistenti. La struttura dell’orchestra, con ruoli predeterminati, un leader, solisti per poche battute e in generale macchina per divertirsi, viene lentamente sradicata a favore di una musica che non è più d’intrattenimento ma è musica d’arte. I piccoli combo diventano i protagonisti e con loro una musica veloce, angolosa, irrequieta, lontana dalle atmosfere patinate dello swing. Ovviamente non si arriva a questo all’improvviso, ma la tendenza inizia a manifestarsi già a fine anni Trenta grazie ad alcuni musicisti che saranno poi fondamentali per la nascita e l’affermazione del Bop. Charlie Christian, chitarrista dell’orchestra di Benny Goodman, è uno di loro, così come ovviamente Charlie Parker nell’orchestra di Jay MacShann e Dizzy Gillespie, che grazie anche al sostegno di uno dei grandi del jazz come Coleman Hawkins, ha la possibilità di mettersi in mostra a fianco, per l’appunto, di uno dei padri dal jazz. In Disorder at the border (brano di Hawkins registrato nel 1944 https://youtu.be/IqEjHzusYUo) si può notare l’estrema differenza solistica e la ricerca, fatta da Dizzy, di infrangere alcune regole fin lì acquisite, come in una specie di moto ondoso che sempre più avanza.

Per quanto, dal punto di vista armonico, la rivoluzione bop non sia così profonda, richiamandosi in parte ad acquisizioni già avvenute in ambito classico, grazie a Debussy, Hindemith e Schoenberg, nondimeno all’interno del quadro jazzistico sono mutazioni che pesano, che incidono. Una caratteristica fondamentale delle innovazioni boppistiche è la diversa concezione ritmica rispetto allo swing. Una batteria che accentua momenti importanti all’interno del brano e non più limitata al solo 4/4 per ballare. In generale un diverso approccio ritmico più intraprendente, meno legato al sostegno e più in primo piano. Questa irruenza ritmica è una sorta di flusso che tende ad infrangere le regole, traslando nel jazz quel nuovo protagonismo delle masse popolari americane, tutte, impegnate sia nello sforzo bellico che nella ricerca di una società diversa, tese a rompere le dinamiche pre-guerra.

Un altro aspetto del rinnovamento e della tensione verso la rottura e lo spostamento dei confini, musicali e no, è la volontà di avere un nuovo repertorio o, in alcuni casi, di riscrivere totalmente vecchi brani e rimodularli sulle nuove concezioni armonico stilistiche. C’è da sottolineare, comunque, il solo parziale lavoro di rinnovamento della forma. Anzi, da questo punto di vista, è come se si segnasse una sorta di passo indietro rispetto alle elaborazioni fatte soprattutto sul repertorio delle grandi orchestre, Ellington su tutti. C’è una semplificazione, tema assoli tema, che da un lato permette lo sviluppo e la maggiore importanza del solo, ma dall’altra impoverisce, per l’appunto, il discorso formale, le modifiche e gli sviluppi sui temi che successivamente verranno ripresi in parte dal Cool jazz.

Il protagonismo musicale e sociale si arresta nella seconda metà degli anni ’40, in pratica dopo la fine della Seconda guerra mondiale. La morte di Roosevelt e l’elezione a presidente del suo vice, Truman, nell’aprile del 1945 sposta gli assi della politica interna ed esterna degli USA. Il nuovo presidente è certamente più attento alle richieste degli industriali del nord e dei proprietari terrieri del sud, modificando di fatto il ruolo egemonico avuto sin lì dei settori popolari. Da questo punto di vista, l’avvio della guerra fredda avrà un duplice scopo: da una parte contrastare a livello mondiale l’URSS e, dopo la vittoria di Mao nel 1949, la Cina, ma dall’altra mettere a tacere le richieste e le rivendicazioni salariali dei sindacati all’interno e congelare ogni movimento con il terrore del comunismo.  

L’assenza di conflitti e la normalizzazione della società americana, portata avanti sia dai democratici (o almeno una grossa parte del partito) che dai repubblicani, determina anche cambiamenti nel mondo del jazz. La rivoluzione bop viene anch’essa normalizzata, come depotenziata. Se ne assumono alcune conquiste inserendole però in un contesto più rispettabile. I comportamenti provocatori, le sperimentazioni e l’irruenza tipici dei primi boppers vengono messi in crisi dalla soffocante politica di caccia ai comunisti e ai loro fiancheggiatori. E così un’orchestra valida e intraprendente come quella del bianco Woody Herman raccoglie e porta avanti i frutti della rivoluzione bop incanalandola in differenti ambiti, meno sovversivi se così vogliamo dire. Ma l’attestarsi sulla difensiva, il ritiro e poi la stasi delle masse popolari è come se si riflettesse anche nel jazz, con l’emergere di un tipo di musica più rilassata, ben arrangiata e priva di grosse asprezze. Il Cool jazz, preso atto delle sperimentazioni del Bop, ne sussume le conseguenze e le rielabora in forma differente. Complice anche il passaggio propulsivo dai musicisti neri a, in gran parte, quelli bianchi. E anche lo spostamento dell’iniziativa dalla costa est, New York in particolare, alla costa ovest, dove c’era Hollywood e le atmosfere erano certamente meno tese.

Nondimeno le sperimentazioni Cool, portate avanti agli inizi da Miles Davis, Gil Evans, Gerry Mulligan, John Lewis, tra gli altri, mostrano quanto profondo sia il sommovimento provocato dalla rivoluzione bop, e ne conferma, come dicevo sopra, alcune conquiste, prima fra tutte la trasformazione del jazz da musica di consumo a forma d’arte. E, ovviamente, anche le innovazioni stilistiche, dalla pronuncia alla differente concezione ritmica, all’uso di scale e accordi particolari. Ma l’esuberanza nera è come messa in sordina, vincolata a forme di sperimentazione che certamente molto devono al materiale armonico/teorico occidentale e bianco. Da questo punto di vista, pur perdendo di irruenza e spontaneità, le musiche di estrazione cool sono però contraddistinte da un profondo lavoro sulla forma e sulla struttura tematica, così come sulla sperimentazione armonica. Soggiace nelle atmosfere e nello spirito di questa musica, pur di stretta derivazione bop, come un senso di levigatezza e introspezione, un mettersi di lato rispetto all’evoluzione della società americana, quasi a non voler troppo disturbare o non essere disturbati. La prima metà degli anni ’50 è, per gli USA, il trionfo, perlomeno declamato e omaggiato dal cinema e dalla televisione, della classe media, delle villette unifamiliari nelle aree residenziali suburbane delle città. Questo sviluppo, segnato dalle dinamiche repressive maccartiste, comporta un’ulteriore emarginazione delle masse afroamericane, così come dei settori liberal o alternativi, fuori dalla cortina di consenso e assurti a nemici interni nella guerra contro l’URSS. Non è certo un giudizio di valore che viene dato a questo jazz così elaborato e patinato, di alto livello, bensì solo una sottolineatura dei legami che la musica afroamericana, in questo caso, ha avuto con le dinamiche politico sociali ed economiche statunitensi.

Non bisogna tuttavia generalizzare troppo, dare un segno univoco a quegli anni, renderli di un solo colore. Non tutti erano classe media e l’altra faccia dei suburbs erano i ghetti neri delle grandi città, la condizione di estremo sfruttamento della classe operaia, o perlomeno di una sua fascia, quella più povera ovviamente. E gli eventi, sia storici che artistici, non hanno inizi o termini precisi, netti, bensì innovazioni e tendenze anticipatrici si muovono sotterraneamente per poi uscire in maniera dirompente o meno allo scoperto. E quindi insieme agli esperimenti di Giuffre, al contrappuntismo[4] di Mulligan o al “progressismo” di Stan Kenton, convivono i laboratori sperimentali di Charles Mingus così come resiste l’orchestra di Ellington, senza parlare dei cosiddetti reduci bopper della prima ora come Davis (peraltro già protagonista con la nascita del Cool) o Monk. Tuttavia, c’è una data precisa che può essere presa a misura del cambiamento di rotta delle dinamiche sociali e politiche, oltreché artistiche, che avviene negli USA: il primo dicembre 1955, a Montgomery in Alabama, profondo sud, viene arrestata l’attivista afroamericana Rosa Parks per essersi rifiutata di cedere il suo posto in autobus ad un bianco. È come un segnale che accende la rivolta e le rivolte, soprattutto innesca di nuovo e con maggior forza il protagonismo delle masse afroamericane. Le lotte per i diritti civili e la fine del segregazionismo coinvolgono anche settori ampi della società americana bianca e poi si fonderanno con i movimenti contro la guerra in Vietnam agli inizi degli anni ’60. Dal punto di vista artistico e musicale in generale, questa effervescenza sociale e politica non può non avere ricadute ed effetti. Nel 1954 Art Blakey e Horace Silver fondano i Jazz Messenger, alfieri di quello che viene definito Hard Bop, nient’altro che una versione più nera, più funk del Be Bop, con una forte componente blues e uno sviluppo del solismo ad alti livelli. Clifford Brown, Sonny Rollins, Jackie McLean, Hank Mobley, Cannonball Adderley, Lee Morgan, ma anche la rinascita di Miles Davis, che avviene proprio nel 1955, con il suo quintetto insieme a John Coltrane o allo stesso Sonny Rollins, insomma un fiorire di grandi solisti che segnano la storia del jazz e che sviluppano la loro arte proprio in questo periodo, con evidenti connessioni alle dinamiche in atto nella società americana.

La corsa quasi spasmodica a rompere consuetudini, regole, confini, procede di pari passo con le conquiste sociali e politiche soprattutto degli afroamericani, un’esplosione creativa che probabilmente non avrà più eguali. È l’ampliamento della fase improvvisativa, a scapito per alcuni versi dell’elaborazione tematica, a far esplodere l’edificio armonico, orami percepito come gabbia, come costrizione. Le nuove concezioni e i nuovi approcci di Ornette Coleman e Cecil Taylor liberano completamente l’improvvisazione dalla progressione armonica dandole finalmente la libertà creativa totale, basata sull’ispirazione del/dei musicista/i e senza alcun vincolo. È come se ora l’afroamericano (ma non solo, pensiamo per esempio al trio di Jimmy Giuffre con Paul Bley e Steve Swallow) fosse fuori dalle regole che, seppur modificate e piegate alla propria espressività, erano state espressione della storia e della cultura bianca e occidentale, quelle leggi e formule armonico/teoriche che avevano comunque segnato il jazz, la sua storia. Se l’esperienza Cool, fatta di sperimentazioni colte e avanguardistiche, aveva infranto le forme provenienti dal mondo pop e traslate nel jazz, l’Hard Bop sfocia nell’affrancamento della fase improvvisativa dalla schiavitù dell’armonia, lasciando al tema la funzione di ispirazione, di guida. Va detto che questi due approcci troveranno molti punti di contatto, per esempio nelle elaborazioni della cosiddetta Third Stream, una corrente musicale che tentava di coniugare il mondo colto e classico occidentale/europeo con il jazz. Nondimeno l’arrivo di Ornette Coleman porta a compimento una spinta insita alla musica jazz all’infrangere il corpus di regole e leggi dell’armonia occidentale, una folle corsa alla piena espressività di un popolo che fin lì era stato ancora soggetto al predominio bianco. Non che non lo sarà più, ma quelle conquiste musicali, a fianco delle conquiste sociali e politiche pagate a caro prezzo, saranno fondamentali per il prosieguo della storia culturale e sociale afroamericana. Un’ultima annotazione: anche lo stesso Davis, con il suo jazz modale, rappresenta, con un altro approccio, quel desiderio di emancipare l’improvvisazione, di permettere al solista di comporre istantaneamente senza dover porre attenzione alla progressione armonica. È uno sviluppo assolutamente fertile che sarà forte fonte di ispirazione per tanta musica, non solo jazz. E avrà una sua importante declinazione nella fase elettrica del trombettista, dove Davis porrà al centro della sua musica il ritmo black a sostegno di una piena libertà, persino dal tema. Ma questo è un altro discorso!

 

pop


[1] Marco Pieroni, Il nostro concerto. La storia contemporanea tra musica leggera e canzone popolare, 2001, R.C.S. Libri, Milano

[2] Bruno Cartosio, Stati Uniti contemporanei. Dalla guerra civile a oggi, 2002, Giunti, Firenze

[3] Richard Boyer – Herbert Morais, Storia del movimento operaio negli Stati Uniti, 2012, Casa Editrice Odoya, Bologna

[4] Stefano Zenni “Storia del jazz. Una prospettiva globale” Viterbo, 2012, Stampa Alternativa, pag.329

Recensioni. Kevin Ayers and The Whole World "Shooting at the Moon"

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