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mercoledì 16 dicembre 2020

Sguardi di fine anno

Com'è ormai consuetudine, anche per la fine di questo doloroso anno si stanno elaborando le varie classifiche ed elenchi di best of, seppur condizionati da tutto quello che è successo. Per quanto riguarda il mondo della musica, o meglio, delle musiche di ricerca, quelle lontane dal mainstream, possiamo dire di aver avuto per le nostre orecchie materiali di ottimo livello. Ma, in questo caso, vorrei più gettare uno sguardo generale,  tratteggiare o suggerire tendenze e orientamenti, che elaborare classifiche. 



Partiamo da una breve riflessione: la crisi acuta del rock, sia quello da classifica che quello più di nicchia, avanzato. Non voglio parlare di morte, come qualche critico famoso ha fatto tempo fa, ma in ogni caso ci troviamo di fronte un'assenza di prodotti significativi, ad una  vera e propria stasi creativa che dura ormai da molto tempo. Credo che il problema risieda nella fine della spinta propulsiva del rock, nella sua emarginazione dai linguaggi giovanili di protesta, nel non essere più espressione del disagio, o di provocazione artistica. E' come se si fosse spezzato il contatto con il terreno che permetteva a questo tipo di musica un continuo rigenerarsi perchè in stretto collegamento con il proprio pubblico di riferimento, le masse giovanili soprattutto. Ora sembra invece preda di un pubblico adulto, se non anziano, che predilige il fenomeno retromania, anche perchè oggettivamente questa musica ormai produce poco. Scalzato dalle musiche più propriamente nere (rap, funk, trap) oppure sommerso e sovrastato dal mercato, dagli pseudo talent, o semplicemente abbandonato a favore di musiche che prediligono l'importanza del testo, della parola, il rock sembra lentamente avviarsi ad essere una musica che guarda al passato, oppure ad annacquarsi, sbiadirsi nel calderone pop, senza più quella carica sovversiva che ne aveva fatto uno dei linguaggi di riferimento dell'espressività giovanile. 



Ma è vero che alcuni stilemi e sonorità rock hanno varcato i confini e li ritroviamo presenti, contaminati con molti altri generi e approcci musicali. Voglio dire: sembra che una certa sensibilità, un tipo di suono e di modalità abbiano deciso di intrecciarsi con l'improvvisazione tout court  (ma anche con sensibili accenti minimalisti) dando vita a sonorità e progetti significativi e sicuramente originali. Anzi, la speranza per il rock credo arrivi proprio da quei musicisti che viaggiano tra musiche differenti senza alcun problema, arricchendo il loro linguaggio e proponendo progetti particolari. Chrys Forsyth, Ryley Walker, Horse Lords, Sunwatchers, 75 Dollars Bill mi sembrano, tra gli altri, proposte assolutamente convincenti che delineano, seppur non sempre chiaramente e con successo, un futuro per le musiche di stretta derivazione rock. 




Comunque le elaborazioni più interessanti e suggestive arrivano dall'inesauribile patrimonio black. Come sempre è successo storicamente, l'effervescenza sociale e politica delle masse nere, impegnate in prima fila nelle lotte contro razzismo e discriminazioni, sta producendo un rigoglio di proposte artistiche di altissimo livello, da una parte e dall'altra dell'oceano. L'intreccio tra soul, funk, rap, jazz, blues e pop sembra essere un elemento comune a molti progetti e lavori usciti in questo 2020, facendo della blackness la cifra stilistica dominante, perlomeno per alcuni dischi di qualità elevata. C'è come un'urgenza comunicativa che porta gruppi e solisti a elaborare e rielaborare tutto il patrimonio culturale di origine afroamericana e a modellarlo e declinarlo con estrema raffinatezza e compiutezza. Alla base sembra esserci il ritmo, le linee di basso e la vocalità, le parole, la spiritualità. E' una necessità espressiva che in molti casi sembra proprio esplodere, come per esempio nel caso dalla rapper e performer Moor Mother, oppure insinuarsi tra le pieghe delle note e dei suoni, come nel caso dello storico sassofonista Idris Ackamoor e i suoi Pyramids, o ancora trasformarsi in inni o vere e proprie pop songs, come nei Sault o nei Mourning (A) BLKstar, riannodare i fili con Amiri Baraka e il free come nel caso degli Irreversible Entanglements o lasciar de/cantare e fluire uno dei grandi ispiratori della blackness, quel Gil Scott Heron rivisitato (ma non troppo) da Macaya McCraven. La parola viene declinata e fusa con i mille rivoli sonori africani, a produrre quell'eclettismo musicale che indubbiamente affascina e seduce, mostrandosi allo stesso tempo espressione e ispirazione di movimenti e anime in agitazione. Da questo punto di vista va anche sottolineato il protagonismo femminile (Moor Mother, Jyoti), anche qui espressione diretta dei movimenti delle donne, in particolar modo delle afroamericane, che è rilevante non soltanto a livello musicale ma anche teorico e artistico in generale. 



Ancora un altro aspetto: il rinnovato collettivismo, la volontà di far emergere il gruppo, l'ensemble a scapito dei/del solisti/solismo. Sault, The HeliocentricsMourning (A) BLKstar, Irreversible Entanglements, sono gruppi e/o collettivi che danno forza e privilegiano l'elaborazione collegiale, l'insieme a scapito del singolo. E anche i casi di Shabaka & The Ancestors, Idris Ackamoor & The Pyramids, oppure la vecchia (ma sempre validissima) Arkestra di Sun Ra, mostrano comunque la volontà e la necessità di avere al proprio fianco una comunità, un pensiero collettivo e uno sguardo d'insieme sulla realtà, sociale e artistica. 

Insieme a queste tendenze "black" non va certo dimenticato quell'approccio più propriamente sperimentale e legato alle vecchie avanguardie. In questo campo mi sembra si vada affermando una tessitura compositiva estesa, come fosse in continua espansione, senza limiti e inclusiva, anche qui, di linguaggi differenti, seppur a prevalenza jazz. Tim Berne e i suoi Snakeoil rappresentano al meglio questi aspetti, delineando spesso ambiti metropolitani, distopie e scenari complessi. Ma va certamente sottolineata anche l'opera multiforme di Rob Mazurek, in particolar modo quella con la sua Exploding Star Orchestra (e anche qui va notato il fatto che, seppur l'accento è spostato sul solista e leader, nondimeno rimane fondamentale l'apporto del gruppo o dell'orchestra), dai toni contemporanei, attraversati da groove e contraddistinti da temi intrecciati dai sapori afro, con un approccio collettivo e uno slancio efficace verso estetiche del futuro. Per ultimo vorrei segnalare Nels Cline che,  con i suoi Singers, attua questa attitudine compositiva dai confini illimitati con sonorità fortemente rock, dando ulteriori suggerimenti e suggestioni ad un genere che, come dicevo all'inizio, attraversa una profonda crisi. 

A conclusione di queste brevi riflessioni, una citazione sul fiorente e ricco mercato delle ristampe che talvolta rasenta la pura operazione commerciale ma in molti altri casi riesuma opere lodevoli, spesso dimenticate, o ci porta a conoscenza di outtakes e inediti che contribuiscono ad impreziosire quel disco o quella raccolta. Tra le tante ristampe mi sento di segnalarne due, abbastanza particolari. The End Of The Game di Peter Green, splendido disco di un blues trasfigurato e conturbante, e il cofanetto di 4 cd del gruppo folk rock inglese dei Trees, con la ristampa dei due dischi pubblicati nel 1970 e altre preziose perle fin qui inedite: un tuffo nei suoni folk modificati, alterati dalle sonorità psichedeliche, con accenti visionari e le delicate melodie delle ballad inglesi provenienti da lontani mondi incantati.

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