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lunedì 23 marzo 2020

Swingin' London

In tempi di Brexit (e di molto altro, purtroppo) non sarebbe proprio il caso di pubblicare questo post, ma tutto sommato male non fa. In realtà questo scritto è parte di un'ampia ricerca sulla scena di Canterbury, pubblicata in 4 puntate sulla rivista Prog Italia. Parzialmente rielaborato e corretto, mi sembrava comunque utile metterlo su questo blog. Buona lettura!


Swingin’ London

Il miracolo economico degli anni ‘50, soprattutto negli Stati Uniti, e poi anche in Gran Bretagna e nel resto d’Europa, produsse per la prima volta nella storia dell’occidente, una massa di adolescenti in grado di “consumare” oggetti e musiche per il loro tempo libero e quindi di affermarsi come area omogenea, ben distinta dai bisogni e dalle esigenze degli adulti. Questo trasformò l’industria musicale, che si ritrovò a disposizione un mercato diverso dal passato ma ricco di esigenze e affamato di novità.



La musica rock, spodestando in questo senso il jazz, “divenne il mezzo multiuso per esprimere desideri, istinti, sentimenti  e aspirazioni”[1] del mondo dei giovani. Le vendite dei dischi negli Stati Uniti, dal 1955 (anno di nascita del rock‘n’roll) al 1959, crebbero con percentuali altissime rispetto al passato[2] e mostrarono le potenzialità che la nuova musica giovane aveva per l’industria discografica. Industria che tuttavia, agli inizi degli anni ‘60, si trovò in difficoltà nel tentare di proporre cloni di Presley o personaggi non così dirompenti nell'immaginario giovanile come lo furono i primi cantanti rock‘n’roll. 



La registrazione del primo 45 giri nel 1962 da parte dei Beatles diede l’avvio ad una nuova grande rivoluzione nell’ambito della musica pop a livello internazionale. Per uno strano destino,  il testimone della ri-nascita del rock passò dagli Stati Uniti al vecchio impero britannico ormai in decadenza, ma capace di riportarsi al centro della scena mondiale con la sua produzione artistica. L’esplosione dei Beatles e, in generale della musica rock inglese, è preceduta da una forte attività artistica che segue i binari dell’imitazione e, allo stesso tempo, dell’autonomia[3].
L’esempio dei folk singer americani porta alla presa di coscienza del patrimonio popolare inglese, sia in una dimensione più propriamente folk che sotto l’aspetto politico e militante. Il grande successo, nell’immediato dopoguerra,  del jazz tradizionale “…lascia il posto allo skiffle, una sorta di versione proletaria del rhythm and blues che si poteva suonare anche senza conoscere la musica e con strumenti d’occasione”[4] ed è da qui che anche i Beatles passeranno.



Accanto alle imitazioni del rock‘n’roll americano  l’altro grande filone su cui si muove la musica inglese è il blues. “All'origine corrisponde al mito crescente dell’America”[5], ma agli inizi degli anni ’60 diventa un fenomeno tipicamente britannico (anzi, londinese), con una serie di gruppi e musicisti importanti per gli sviluppi futuri della scena musicale anglosassone. 
E il blues diventa un terreno comune dove suonano insieme i primi jazzisti inglesi e musicisti rock. Significativi, da questo punto di vista, sono i Bluesbrakers di John Mayall e la formazione di Alexis Korner, Blues Incorporated: qui “muovono i primi passi personaggi del calibro di Mick Jagger, Brian Jones, Keith Richards, Charlie Watts (i Rolling Stones!), ma anche importanti esponenti del jazz inglese quali John Surman, Dave Holland,”[6] e  Lol Coxhill. 
E’ importante sottolineare questa vicinanza e condivisione di esperienze tra jazzisti e rockers, perché poi questo elemento scomparirà nel corso degli anni e rimarrà presente solo nelle vicende dei musicisti di Canterbury.
Beat da una parte e rock blues dall'altra formano inizialmente quel grande fiume musicale che dà vita alla British Invasion dell’America e del mondo occidentale, che fa da colonna sonora ai sogni ed alle aspirazioni dell’universo giovanile europeo ed americano, che spinge migliaia di giovani  ad affrontare la carriera musicale, seguiti in questo da manager, etichette discografiche, impresari.



Il grosso impatto che ebbe la musica rock è solo un tassello della più ampia rivoluzione culturale che si ebbe, a livello mondiale, nel corso degli anni ’60. L’insofferenza dei giovani verso regole, comportamenti, leggi e istituzioni fu dirompente e dal mondo anglosassone s’innescò l’esplosione.
L’universo giovanile esplorò e rivoluzionò tutti i linguaggi artistici, trovando in alcune città, prima fra tutte Londra, la swingin’ London, la propria residenza eletta, il luogo dove poter sperimentare la “rivoluzione psichedelica”, dove produrre quegli elementi di una società diversa, più libera, più giusta, più creativa.
Il 1968, con la sua carica di gioia e di rivoluzione, spazzò vecchie consuetudini, antichi retaggi culturali, politiche reazionarie e impose al mondo intero l’idea che una rivoluzione, in alcuni casi solo culturale, in altri politica e sociale, fosse possibile. E il soggetto trainante fu quell'universo giovanile che diventò talmente importante da modificare profondamente e per lungo tempo gli assetti sociali, politici e culturali delle società occidentali e non solo.



Un tale sommovimento non poteva non toccare, in modo significativo ovviamente, tutte le espressioni artistiche e quindi anche la musica jazz. L’esplosione del free negli Stati Uniti consentì ai musicisti europei un approccio più originale al jazz e all'improvvisazione, ponendo un serio argine ai fenomeni di emulazione che tanto avevano connotato le prime esperienze jazz nel vecchio continente. E’ in Inghilterra, e soprattutto a Londra, che cominciano ad intrecciarsi diverse esperienze tra loro e che verranno a maturazione agli inizi degli anni ’70. 
La musica improvvisata dei vari Derek Bailey, Trevor Watts, Paul Rutheford, Evan Parker, il jazz degli esuli sudafricani McGregor, Pukwana, Dyani, Moholo, Feza, il rumorismo e l’avanguardia degli AMM di Cardew, Prevost e Rowe, il Ronnie Scott Club con i vari Westbrook, Surman, Holland e McLaughlin, la già citata fucina blues di Alexis Corner e, ovviamente, il rock psichedelico dei Soft Machine e dei Pink Floyd, un calderone creativo e unico che solo una città come la Londra degli anni ’60 poteva ospitare. “L’interesse per la pittura, la poesia, la narrativa, il teatro, il balletto e la scultura, rese più urgente liberare la creatività dai confini formali che separavano i generi musicali e le arti tra di loro; poter suonare insieme quando le distanze si ricoprono con poche fermate di metropolitana , agevolò molto lo scambio quotidiano”[7], e generò musiche “ibride”, nuove rispetto al passato, in un fuoco di passione e creazione che non avrà più eguali. 
Ma la grande onda creativa, al volgere degli anni ’70, comincia a ritrarsi, a “istituzionalizzarsi”, con la moltiplicazione di stili e la professionalizzazione del musicista rock, ora più attento alle vendite ed alle mode. Se da una parte, tra il  1970 e il 1971, escono Elastic Rock dei Nucleus di Ian Carr (sul filone jazz rock aperto dal Miles Davis di Bitches Brew),  Third dei Soft Machine, Septober Energy dei Centipede di Keith Tippett (una sorta di Woodstock da studio di registrazione, con la numerosa presenza di musicisti jazz e rock inglesi), Brotherood of Breath dei musicisti sudafricani esiliati a Londra, dall'altra l’inizio dei ’70 vede anche la morte di tre fra i più grandi e famosi esponenti della scena rock internazionale: Jimi Hendrix, Janis Joplin e Jim Morrison. E’ come una sorta di canto del cigno, la creatività e la/le fusione/i si ritirano nell'alveo sicuro della stabilizzazione e della normalizzazione. 



La crisi economica degli anni ’70, acuita dallo shock petrolifero del 1973, pone le basi per un costante e definitivo abbandono di un modello di sviluppo non più sostenibile da parte del capitalismo. La piena occupazione, il welfare esteso che proprio in Gran Bretagna avevano trovato uno sviluppo crescente, cominciano ad entrare in crisi e i sogni di rivoluzione si diradano lasciando  il posto alla rabbia e alla disperazione di una disoccupazione sempre più estesa (nel 1977 esplode il fenomeno punk, sempre a Londra) e di un allentamento delle tutele sociali da parte dello stato. 
Dal punto di vista musicale, negli anni ’70 “il rock perde quel suo imponente senso della marea montante, la sua creatività unidirezionale, per disperdersi in mille diversi campi. Se prima era un grande fiume , ora diventa un arcipelago”[8]. E’ un fenomeno che toccherà anche il jazz, emarginato nei suoi sviluppi free e avanguardisti, ma di crescente popolarità nella sua fusione con il rock.

In ogni caso il ruolo di Londra negli anni '60 e '70 nell'evoluzione, nel parziale depotenziamento e infine nella radicale mutazione dell'estetica delle musiche popolari e del loro intreccio costante con le dinamiche dell'universo giovanile è fondamentale,  propulsivo. 
“Riassumendo: un intreccio di circostanze plasmò a Londra un’intera generazione di musicisti; l’amore per i maestri americani, la passione per i toni insurrezionali del free, la fedeltà tutta inglese, indistruttibile, alla tradizione, al folk, il piacere di suonare blues, il divertimento adolescenziale del putiferio beat, la provocazione intellettuale suggerita dal gruppo Fluxus, le caleidoscopiche avventure nello spazio psichedelico e l’incontro ravvicinato con i fratelli sudafricani”[9].



 pop 


[1] E. Hobsbawm , “Gente non comune”, RCS Libri, Milano, 2000, pag. 361
[2] E. Hobsbawm , Ibid. pag. 360
[3] G. Castaldo, “La terra promessa”, Feltrinelli Editore, Milano, 1994, pag. 94.
[4] A. Carrera, “Musica e pubblico giovanile”, Feltrinelli Editore, Milano, 1980, pag. 83
[5] Ibidem, pag. 94
[6] G. Nanni, “Rock Progressivo Inglese”, Castelvecchi Editore, Roma, 1998, pag. 17
[7] C. Bonomi – G. Fucile, “ Elastic Jazz”, Auditorium Edizioni, Milano, 2005, pagg. 19-20
[8] G. Castaldo, “La terra promessa”, cit., pag. 202
[9] C. Bonomi – G. Fucile, “Elastic jazz”, cit., pag. 22

giovedì 19 marzo 2020

Weird Tales. Il Gioiello di Bennie Maupin!

Wayne Shorter, Joe Zawinul, Chick Corea, Larry Young, John McLaughlin, Dave Holland, Jack DeJohnette, Lenny White...e poi Harvey Brooks, Don Alias e Jumma Santos (alias Jim Riley). Questo è il personale che partecipò alle sessions di Bitches Brew di Miles Davis, uno dei dischi più importanti della musica occidentale, quel prodotto che può benissimo fregiarsi, senza scomporre nessuno, dell'appellativo di capolavoro. Ai più attenti sarà subito saltato agli occhi l'assenza di un musicista in questa lista: Bennie Maupin

La stragrande maggioranza dei nomi su elencati è come se fosse un who's who del jazz, una sorta di elenco di alcuni tra i più importanti musicisti della storia della musica afroamericana. Se si esclude Harvey Brooks, che jazzista non era e comunque, oltre ad aver registrato con Davis suonò anche con Dylan su Highway 61 Revisited e con i Doors di The Soft Parade, e il percussionista Jumma Santos, Bennie Maupin sembra l'unico a non aver avuto la stessa fortuna e carriera capitata agli altri. E' come se l'esplosione creativa propagatasi da quel doppio lp non lo avesse coinvolto pienamente, o in qualche modo lui se ne fosse ritratto, messo di lato dal fecondo vortice, anche commerciale va detto. 
Indubbiamente tutti i musicisti coinvolti in Bitches Brew avevano già una loro carriera, più o meno importante. Ma quel disco li portò alla ribalta negli anni successivi alla sua uscita (30 marzo 1970, Columbia), cambiandone persino le coordinate artistiche e incidendo profondamente sul prosieguo del loro percorso artistico. Tutti, eccetto forse il solo Bennie Maupin
E' vero, anche lui venne trascinato nel gorgo elettrico come componente, anche qui fondamentale, degli Head Hunters di Herbie Hancock e prima ancora, sempre a fianco di Hancock, nei dischi Mwandishi,  Crossings  e Sextant. Ma, per l'appunto, non sono suoi progetti, non sembra esserne volontariamente l'artefice, bensì un collaboratore, seppur importante, dell’ideatore di quei gruppi, cioè Hancock.

Multistrumentista, a suo agio con i sax tenore e soprano, con il flauto e con il clarinetto basso, Maupin è certamente distante dall'altro grande polistrumentista, Eric Dolphy. Dove il secondo è esuberante, angoloso, graffiante e irruento il primo è elegante, a volte soave, morbido e insinuante, si inserisce fra le pieghe dei suoni e costruisce con cura le sue improvvisazioni. Uno è passionale, l'altro è meditativo. Dolphy, pur nella sua breve carriera, ha collaborato con tantissimi musicisti, ha scritto pagine memorabili nella storia della musica afroamericana. Maupin è sicuramente un personaggio di secondo piano, meno incline alle collaborazioni, e con una produzione limitata pur se importante e significativa.
Dicevamo, a proposito dei musicisti di Bitches Brew, delle differenti e importanti carriere precedenti alla realizzazione del disco di Davis. Ecco, Maupin è tra i pochi a non avere alle spalle grosse collaborazioni. Saltuariamente con Horace Silver e Roy Haynes, nel 1967 è nel settetto di Marion Brown con il quale incide il bel disco Juba Lee (mentre nel 1970, sempre a nome di Brown, registrerà Afternoon Of A Georgia Faun, per la ECM), poi lavora abbastanza stabilmente con Lee Morgan registrando Caramba, il Live At Lighthouse e Taru, uscito nel 1980 ma registrato nel 1968. La collaborazione con Morgan lo porta anche a suonare con McCoy Tyner e a registrare Tender Moments, del 1968 e, a dimostrazione comunque delle qualità di Maupin, Together, del 1979, con una line up a dir poco stellare: Stanley Clarke, Jack DeJohnette, Freddie Hubbard, Hubert Laws, Bobby Hutcherson e il percussionista degli Head Hunters Bill Summers.


Su indicazione di DeJohnette, con il quale Maupin aveva registrato The DeJohnette Complex (disco d'esordio del batterista) e successivamente Have You Heard? e Sorcery, e dopo averlo visto dal vivo con McCoy Tyner, Miles Davis chiama il sassofonista per le sessions di Bitches Brew. Maupin si aspettava di dover suonare il sassofono mentre, con sua grande sorpresa, Davis gli chiede di suonare esclusivamente il clarinetto basso (https://www.thelastmiles.com/interviews-bennie-maupin/). Intuizione notevole, a conferma della grande intelligenza e del formidabile intuito di Miles, che caratterizzerà profondamente la musica di quel disco. Non possiamo immaginare Bitches Brew senza quel suono scuro, profondo e inquietante del clarinetto basso di Maupin, un suono che impregna tutta la musica e la rende selvaggia, ancestrale.
George Grella Jr, nel suo bel libro Bitches Brew, edito dalla Minimum Fax lo scorso anno, scrive, a proposito del primo brano del lato B del secondo disco: "Miles Runs The Voodoo Down, inoltre, dimostra quanto Maupin fosse fondamentale per Bitches Brew. Il clarinettista fa ciò che Miles gli ha chiesto di fare, inventarsi qualcosa sotto la linea principale, e se la cava a meraviglia. L'estensione del suo strumento non interferisce con il contrabbasso, tanto cristallina e inventiva è l'esecuzione: è evidente che Maupin ascolta gli altri musicisti con un'attenzione che gli permette di farsi sentire senza pestare i piedi a nessuno. Spesso Holland coglie al volo le sue frasi e le ripete in una sorta di pas de deux improvvisato dietro il solista. Un sublime esempio di interazione di gruppo".

Maupin sarà con Davis anche in altri dischi: A Tribute To Jack Johnson, Big Fun e On The Corner. A riprova dell'importanza del musicista nel progetto elettro funk di Miles.
Il suono caratteristico e l'approccio attento e profondamente relazionale di Bennie Maupin diventa fondamentale anche per Hancock e per il suo sestetto, fondato sulla scia del successo di Bitches Brew e della sua estetica elettrica. Mwandishi, Crossings e Sextant, la trilogia "swahili", sono una sorta di preludio all'esplosione commerciale degli Head Hunters, dove Maupin è l'unico componente del precedente gruppo rimasto a fianco di Hancock.



A questo punto, diventato abbastanza noto e caratterizzatosi come polistrumentista efficace e artefice del suono fusion, jazz funk, che va ormai per la maggiore, Maupin decide che è giunto il momento di registrare il primo album a suo nome, The Jewel In The Lotus, pubblicato dalla ECM nel 1974.
E qui ci troviamo di fronte ad un lavoro sorprendente, unico e mai più eguagliato. Un piccolo gioiello (The Jewel per l'appunto) anomalo, che getta una luce differente su Bennie Maupin.
I musicisti coinvolti sono quasi tutti del giro Mwandishi/Head Hunters: ovviamente Hancock al piano acustico ed elettrico, Buster Williams al basso, Bill Summers alle percussioni, Billy Hart alla batteria. E poi, potremmo definirli così, due outsider: Frederick Waits, altro batterista, a fianco di McCoy Tyner, Andrew Hill, in Karma di Pharoah Sanders e con Marion Brown in Back To Paris del 1980, mentre alla tromba, in soli due brani, c'è Charles Sullivan, battitore libero a fianco di Kenny Baron, Sonny Fortune Yusef Lateef tra gli altri.


Chi si aspettava di ritrovare le sonorità elettriche, i groove e i ritmi funk caratteristici delle frequentazioni di Maupin rimane completamente spiazzato. E' un lavoro che parla al futuro, e quindi al nostro presente, che illumina per la sua creatività e compostezza allo stesso tempo. Soprattutto è un disco corale, dove il leader non sovrasta ma coordina e organizza l'intero lavoro, facendo emergere un suono collettivo, dove non conta il solista ma l'espressione comune e la relazionalità. 
Altra particolarità: le due batterie, su due canali differenti, e le percussioni non lavorano sul groove,  ma colorano incessantemente la musica, la contrappuntano, ne sottolineano alcuni passaggi, fanno spesso da tappeto sonoro. C'è uno spazio dilatato, disteso, un respiro ampio che avvolge l'ascoltatore. 

Ensenada, il primo brano del disco, ha un'atmosfera pastorale , con il flauto accompagnato dal piano acustico che disegna larghe melodie e batterie e percussioni a colorare e tinteggiare delicatamente il brano. Mappo è più misterioso, con un inizio orientaleggiante del flauto, nel mezzo un breve accenno di ritmo regolare e le batterie che lavorano quasi esclusivamente sui piatti, per poi lasciare spazio, nel finale, alle scorribande al piano di Hancock che inquietano il mood del brano, inscuriscono e ispessiscono la composizione in un crescendo maestoso e atonale, per poi concludersi con pochi accordi di piano e la melodia iniziale del flauto. 
Ci sono due brevi intermezzi, Past + Present = Future e Winds Of Change, poetici e rilassanti, poche note, linee orientali,  piano e flauto nel primo brano, il secondo solo fiati. 
Excursion è introdotta dalla voce di Maupin filtrata, mescolata a suoni scuri, con un ottavino in lontananza e il contrabbasso che emerge con poche note. Poi giungono clarinetto basso e piano in un crescendo angosciante, un magma sonoro con la tromba sordinata che scandisce poche note. Le strappate e poi le urla del clarinetto basso ci portano in un vortice scuro, fatto di grida e frammenti pianistici per poi, dolcemente, adagiarsi e concludere. 
L'inizio di The Jewel In The Lotus, la title track, con piano elettrico e sax soprano sembra riportarci alla trilogia "swahili", ma è un'illusione, il groove non arriva, si rimane in uno spazio etereo, distensivo, con batterie e percussioni ad avvolgere il brano. In Songs For Tracie Dixon Summers c'è spazio per un'affascinante introduzione di contrabbasso, in splendida solitudine, e poi l'arrivo del sax soprano che tratteggia una larga e commovente  melodia sostenuta dal piano e, al solito, un contrappunto di batterie e percussioni. 
Il finale del disco è affidato a Past Is Past, un clarinetto basso suonato sulle note alte ed un elegante  pianoforte acustico: una conclusione struggente ed evocativa per un lavoro incantevole. 


Dicevamo dell'anomalia e dell'unicità di questo disco perché, nel frattempo, Maupin suona e registra tutt'altro. E' presente in molti lavori di Eddie Henderson, trombettista nei Mwandishi di Hancock e autore di una fusion abbastanza commerciale. Lo stesso Maupin pubblica a suo nome, nel 1977 e nel 1978, per la Mercury, due dischi assai lontani dalle atmosfere e dalla bellezza di The Jewel In The Lotus. Slow Traffic To The Right e Moonscapes, entrambi prodotti da Pat Gleeson, al synth su Crossing e Sextant di Hancock, sono due classici lavori di elegante funk, sulla scia degli Head Hunters. Intriganti groove, atmosfere compassate, ritmi ballabili, tutto molto lontano dal "gioiello nel loto". 

Di lui non si hanno più molte notizie fino agli anni 2000. Riappare sulle scene con Penumbra, a capo di un ensemble con alla batteria Michael Stephans, al contrabbasso il polacco Darek Oleszkiewicz e alle percussioni Daryl Munyungo Jackson. Composizioni registrate nel 2003 e pubblicate dalla Cryptogramophone nel 2006, Penumbra è anch'esso disco particolare, lontanissimo dal periodo funk e con atmosfere e suggestioni per alcuni versi vicine al suo primo disco solista. Non c'è uno strumento armonico e la musica, scarna e primitiva, è ricca di ritmi sotterranei, di sapore afro, con i fiati di Maupin a disegnare anomale melodie ed eleganti improvvisazioni, una narrazione morbida e  ben costruita. 
Nel 2008, sempre per la stessa etichetta, esce a nome Bennie Maupin Quartet, Early Reflections. A capo di una formazione di musicisti polacchi, Michal Tokaj al piano, Michal Baranski al contrabbasso, Lukasz Zyta alla batteria e percussioni, e in soli due brani la voce di Hania Chowaniek-Rybka, Maupin pubblica un disco certamente meno interessante di Penumbra. Il suono è sempre caldo, soprattutto al clarinetto basso, le note cercate e suonate con cura, le improvvisazioni hanno il carattere di piccoli racconti, ma il tono generale è un po' banale, forse troppo soft e alla ricerca della magia del Gioiello. Che purtroppo non arriva, e forse è giusto che sia così, che quel disco rimanga un prezioso ed unico lavoro custodito nel fiore di Loto, affascinante per la sua forma e il suo profumo.

Om Mani Padme Hum. Tra i più diffusi mantra del buddhismo tibetano, viene tradotto come Il Gioiello Nel Fiore Di Loto, o meglio ancora Gioiello Del Loto. Uno dei significati più noti è la collocazione del Gioiello, simbolo di amore illimitato verso tutti gli esseri e profondo desiderio di liberarli dalla sofferenza, nel Loto, simbolo della coscienza umana.


pop

mercoledì 11 marzo 2020

Fantascienza e ambigue comuni!

Il rituffarmi con entusiasmo all'interno del mondo della fantascienza scritta, dopo molti anni di colpevole abbandono, mi ha portato a riflessioni bizzarre e curiose analogie. 
A parte le considerazioni sul genere come configurazione dell'immaginario, come esplorazione dei confini del possibile e quindi, di questi tempi, il suo mutarsi quasi completamente in distopia, vorrei invece condurre alcuni ragionamenti sul rapporto tra fantascienza e musica, rock e jazz in particolare.


Mi sono imbattuto in una serie di articoli, per lo più compilativi, con lunghe ed esaurienti liste di gruppi e solisti che per un motivo o per l'altro hanno avuto rapporti con la fantascienza, sia per quanto riguarda i testi che dal punto di vista più strettamente musicale. 
Onestamente, penso che nella stragrande maggioranza dei casi chiunque, in ambito musicale popolare contemporaneo, abbia prima o poi fatto riferimento a tematiche più o meno vicine alla fantascienza. D'altronde, secondo Antonio Caronia, uno dei massimi esperti in questo campo scomparso purtroppo nel 2013, la fantascienza nasce nel 1920 con le riviste pulp americane, grosso modo quando iniziano ad essere commercializzati su larga scala i dischi. Sono prodotti per così dire pop, ed hanno a lungo interagito nell'immaginario del ventesimo secolo. Il blues, il jazz, il rock hanno tratto ispirazione da un genere che più di altri, in ambito popolare, ha saputo "riflettere, rielaborare, restituirci, le contraddizioni della nostra vita, pubblica e privata, le aspirazioni, le tensioni, gli incubi che percorrono il tessuto sociale e le storie personali di ognuno di noi", (Antonio Caronia, Giuliano Spagnul, Introduzione a Nei Labirinti della Fantascienza, Mimesis Edizioni, Milano-Udine, 2012-2013).


David Bowie, Pink Floyd, Rush, i gruppi Progressive, King Crimson e Van Der Graaf Geenerator su tutti, ma anche Gary Numan e i Radiohead, i Beatles e i Rolling Stones di Their Satanic Majesties Request, Elton John con Rocket Man. E poi, per quanto riguarda il jazz....Fruttero e Lucentini, nell'antologia di racconti Il Quarto Libro della Fantascienza, da loro curata, mettono in parallelo la storia di due generi, jazz e fantascienza, entrambi nati negli anni 20 del secolo scorso, in America, di "origini popolari e nobili ascendenze". E nel momento stesso che l'Inghilterra rivoluziona il genere letterario con la cosiddetta new wave della rivista New Worlds diretta da James Ballard e Michael Moorcock anche la musica afroamericana si trova ad essere reinterpretata dai musicisti jazz europei, primi fra tutti gli inglesi (Claudio Bonomi, Gennaro Fucile. Elastic Jazz. Sketches of Britain, Edizioni Auditorium, Milano, 2005). Il Coltrane di Interstellar Space, Science Fiction di Ornette Coleman, i Weather Report di I Sing The Body Electric, ispirato ad un racconto di Ray Bradbury, i Nucleus di Solar Plexus....


Insomma, di esempi ce ne sarebbero a centinaia e questo vuole solo dire che fantascienza e musica popolare hanno avuto così tanti stretti legami da risultare  l'una ispirazione dell'altra e viceversa, probabilmente.
Ho evitato di nominare alcune formazioni che più di altre, secondo me, hanno avuto un atteggiamento differente, più di spessore per alcuni versi, rispetto ai tanti esempi che ho elencato sopra e ad altrettanti che non ho citato. Ma questi sono un po' il fulcro di questo post e quindi ci torno fra poco. Ora, più interessante a me sembra l'idea di identificare, certo sommariamente, alcuni criteri musicali che corrispondono, grosso modo, ad un suono "fantascientifico". O meglio, esiste effettivamente un'estetica musicale che possa essere ricondotta alla letteratura e alle caratteristiche della fantascienza?


E' estremamente complicato trovare punti in comune per esempio tra Bowie e i Rush, e tra questi e Coltrane, oppure i Radiohead con i Blue Oyster Cult. Insomma, a parte i riferimenti letterari, i rimandi ad autori e a storie della fantascienza, dal punto di vista strettamente musicale non sembra esserci molto in comune. Eppure credo che un certo tipo di approccio ed estetica musicale debba essere ricondotta all'immaginario della letteratura di genere. Le lunghe suite irrobustite dai suoni del synth, o dalle tastiere, possono benissimo ricollegarsi ai viaggi interspaziali comuni a molte storie della fantascienza del primo periodo. Così come una certa sperimentazione elettronica propria del Kraut Rock ha molto di futuro, e le lunghe improvvisazioni coltraniane portano l'ascoltatore in altri mondi, al pari degli inquietanti paesaggi sonori del Coleman di Science Fiction che prefigurano un avvenire oscuro e conturbante.


L'estendere i confini, immaginari e musicali, le sperimentazioni, elettroniche e non, l'evocazione di territori altri, inauditi, sono approcci che potremmo definire fantascientifici, ovviamente non prendendoci troppo sul serio. Certo è ancora un po' vaga la caratterizzazione, ma il tutto sembrerà più chiaro andando a prendere in esame coloro che più di altri hanno fatto del rapporto con la fantascienza la loro cifra stilistica, la loro impronta.
Sun Ra Arkestra, Hawkwind, Gong. Non sono i soli ad essere portatori di estetiche del futuro, ma sono quelli che, curiosamente, hanno caratteristiche in comune che sono rapportabili ad una forte aderenza all'immaginario sci-fi.
Iniziamo con il sottolineare la presenza, in tutte e tre le compagini, di lunghe suite, con innesti di synth e lunghe ripetizioni di frasi  e loop. Pur essendo gruppi estremamente differenti fra loro, soprattutto l'Arkestra rispetto agli altri due, non mi sembra di essere troppo lontano dal dire che queste lunghe fughe spaziali caratterizzano in grossa parte le loro composizioni. Talmente è presente ed è forte, sia come testi che come estetica generale, l'ambientazione fantascientifica che la musica non può non risentirne. Per quanto concerne Sun Ra, tutto ciò che lo riguarda è improntato ad altri mondi, ad una musica che proviene da altri universi. Gli Hawkwind hanno avuto come paroliere, e anche come performer, proprio lo scrittore Michael Moorcock, uno degli artefici della New Wave inglese, quella sorta di corrente che rivoluzionò la fantascienza negli anni '60. I Gong di Daevid Allen hanno viaggiato su teiere volanti partendo da un fantomatico pianeta popolato da stranissimi personaggi e raccontando vicende bizzarre e stralunate.


Sono similitudini a volte superficiali,  nondimeno rappresentano un tipo di approccio che determina particolari caratteristiche musicali. E non solo. In realtà, ciò che mi ha colpito di più nell'analizzare le storie di questi ensemble è  stato il modello partecipativo adottato. Le vicende di questi gruppi sono state caratterizzate da tentativi più o meno riusciti di vissuti collettivi, di costruzioni di comunità alternative. Qualcosa abbastanza raro nel mondo sia del rock che del jazz.
Le storie degli Hawkwind, dei Gong e dell'Arkestra di Sun Ra tentano invece di coniugare collettivamente musica e vita privata, all'interno di comuni dove mettere in pratica esperienze anticonformiste. Formazioni variabili e allargate, con frequenti cambi e la presenza di scrittori, artisti, intellettuali, performers vari, residenze collettive, intensa attività live e numerose uscite discografiche:  è come se avessero voluto testimoniare e riprodurre in Terra le vicende da loro ambientate nel cosmo.


Sun Ra è, nei fatti, il precursore di questo tipo di esperienze e il suo approccio, nei confronti dell' Arkestra (che ha avuto negli anni differenti nomi) è di tipo protettivo, accudente e con elementi dispotici. Le comuni di Dave Brock e di Daevid Allen sono invece figlie dei movimenti giovanili della fine degli anni '60 e degli anni '70. Una sorta di fuga dal mondo capitalista e una ricerca di mondi diversi. In questo caso da costruire sulla Terra. Ma tutte e tre le esperienze condividono la presenza di un leader, di una guida spirituale, musicale, anche filosofica potremmo dire. E se gli approcci differiscono nondimeno i leader esercitano, chi con tratti dispotici chi in maniera più soft o addirittura rifuggendo talvolta dalle proprie responsabilità, come nel caso di Allen, una specie di potere alieno, una volontà non solo artistica di costruire il gruppo, e la comunità, ma anche, come dicevo prima, filosofica e spirituale.
Tutte e tre le comuni vivono immerse in mondi fantascientifici, pienamente e, per certi versi, consapevolmente, consci di veicolare messaggi, musiche e storie di e da altri mondi. E' come se avessero trovato, nella letteratura sci-fi, la possibilità di manifestare le loro espressività artistiche e poi le avessero riversate all'interno della comunità. O forse il pensiero fortemente controcorrente ha trovato dimora in altri mondi, letterari e musicali, e le comuni sono state il mezzo per poter vivere con pienezza le loro concezioni, il loro spirito. In ogni caso le storie di questi tre gruppi, e dei loro leader, rappresentano, un serio e concreto rapporto con la fantascienza, oltre il lato prettamente musicale e testuale.




Da questo punto di vista la fantascienza conferma la sua enorme capacità nel rappresentare non solo le ambizioni, le nevrosi  e le paure della società contemporanea ma anche a trascendere la realtà e a delineare visioni utopiche e mondi alternativi.

Potrei anche finirla qui se, in questa strana riflessione, non si affacciasse un'altra comune, forse la più famosa, o comunque quella con il maggior numero di seguaci. E che con la fantascienza, anche se di lato, in maniera defilata, tutto sommato qualche contatto lo ha avuto. 
Parlo dei Grateful Dead e della loro stella scura, quel viaggio interspaziale compiuto con Dark Star che ha fatto sognare milioni di ascoltatori, dal vivo e a casa propria su disco. Anche loro con una guida spirituale, Jerry Garcia, e una visione collettiva artistica e di vita che trova legittimità nelle stelle, sulle Mountains Of The Moon, insieme a personaggi come Cosmic Charlie
E, visto che siamo dalle parti di San Francisco, un breve accenno va fatto anche per l'altra comune, quella dell'aeroplano Jefferson, della suora cromata Grace Slick e, soprattutto, della nave spaziale Starship. Il disco Blows Against The Empire, accreditato a Paul Kantner e Jefferson Starship, esplica in maniera chiara la visione di una fuga dalla Terra, ormai irriformabile, e la ricerca di un nuovo pianeta dove poter costruire un mondo nuovo, più giusto e solidale, senza sfruttamento e senza guerre.  

"Mi ci vollero degli anni per rendermi conto di aver scelto di lavorare in generi disprezzati e marginali come la fantascienza, la fantasy e la narrativa per adolescenti, esattamente perchè essi erano esclusi dal controllo della critica, dell'accademia, della tradizione letteraria, e consentivano all'artista di essere libero"
Ursula K. Le Guin


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lunedì 9 marzo 2020

Radio Gnome Invisible. La Trilogia del Pianeta Gong. Parte 5


La Cosmogonia del pianeta Gong





La trilogia di Radio Gnome Invisible, oltre ad avere un’omogeneità e un filo conduttore musicale, ha un contorno testuale e storie che, per quanto bizzarre e confuse, corrono attraverso i tre dischi. Ideatore del  mondo gonghiano è Daevid Allen, che costruisce intorno alla musica un universo fantastico fatto di simbolismi, stramberie psichedeliche, personaggi e avventure fiabesche. Il tutto sempre avvolto da grande ironia, elemento che accomuna un po’ tutta la scena di Canterbury. L’invenzione di un mondo fantasy associa i Gong agli altri grandi alfieri dello space rock, gli Hawkwind, e al loro mentore letterario, Michael Moorcock, scrittore di fantascienza e autore di molti testi del gruppo.
Ma per Daevid Allen la costruzione di questa cosmogonia è qualcosa di più di un’opera letteraria. Sembra quasi essere un involucro nel quale l’australiano vuole inserire la sua filosofia di vita, reinterpretarla e reindirizzarla alla luce delle coordinate del pianeta Gong. E’ come se avesse traslato le sue esperienze in un altro mondo che per lui è veramente presente, vivo, e non solo un artificio letterario. O forse, ipotesi altamente probabile, è soltanto un grande e spettacolare scherzo di un geniale folletto alle prese con la vita.



L’australiano fa risalire alla Pasqua del 1966 la sua prima visione del pianeta Gong che, già nei precedenti lavori prima della trilogia, inizia a lanciare timidi segnali di apparizione. Su Camembert Electrique compare per la prima volta la dea lunare Selene e su Magick Brother, in Gong Song, viene introdotta approssimativamente la mitologia del pianeta e dei suoi Pot Head Pixies.
Ma ovviamente con Flying Teapot abbiamo il vero inizio della storia. 
Radio Gnome è una sorta di radio pirata telepatica che trasmette da una teiera volante proveniente dal pianeta Gong. Questa teiera atterra in Tibet sul tappeto di preghiera di Lawrence l’alieno il quale, leggermente turbato, improvvisa una danza con i suoi tamburi. 
La teiera è colma di folletti chiamati Pot Head Pixies che rimangono affascinati dal loro primo incontro con un terrestre. Il grande yogi Banana Ananda porta in salvo i Pot Head Pixies e li presenta alla banda. Poi arrivano i Grandi Saggi, detti Dottori dell’Ottava che diffondono subliminali  e segrete saggezze attraverso la macchina di cristallo. Solo Zero The Hero poteva essere in grado di interpretare quei messaggi e canta per i folletti una canzone d’amore e devozione. Ma i Pot Head Pixies non vogliono essere adorati e portano Zero attraverso la terra di Scat e i campi magnetici di Bad De Grasse (il soprannome di Didier Malherbe), dove Zero vede una teiera volante e incontra la strega Yoni che seduce tutti con un flusso incantato. Poi canta la sua canzone I Am Your Pussy, con un dingo che le offre fish and chips.



Questa è la storia che appare all’interno della copertina di Flying Teapot e che presenta alcuni protagonisti  della trilogia. Zero The Hero è il personaggio principale, che abbandona la sua vita ordinaria grazie ad una visione in Charing Cross Road a Londra e decide di fondare il culto di Cock Pot Pixie, il primo Pot Head Pixie a sbarcare sulla Terra. Lo yogi Banana Ananda, lo yogi della birra che vive in una caverna in Tibet. 
I Pot Head Pixies, gli abitanti del pianeta Gong che viaggiano all’interno di una teiera volante.  Yoni, la buona strega che serve la divinità lunare Selene. I Dottori Dell’Ottava, i saggi protettori del pianeta Gong. A questi personaggi vanno aggiunti un allevatore di maiali egittologo, Mista T. Being, e un venditore ambulante di teiere antiche dal nome Fred The Fish. Costui vende un orecchino magico, in grado di captare i segnali del pianeta Gong irradiati da Radio Gnome, all’allevatore e insieme si recano in Tibet dallo yogi Banana Ananda.
La storia continua su Angel’s Egg e vede Zero The Hero fluttuare nello spazio dopo aver bevuto una pozione magica. Sul pianeta Gong conosce una prostituta che lo presenta alla dea lunare Selene mentre i Pot Head Pixies gli spiegano come riescono a volare sulle teiere volanti. Zero viene portato al Tempio Invisibile del pianeta Gong dove ci sono i 32 Dottori Dell’Ottava e gli viene rivelato un grande piano. Zero dovrà organizzare sulla Terra un grande banchetto di freaks e a ciascuno di loro verrà dato un terzo occhio dal Dottore Dell’Ottava della Terra, Switch Doctor, il quale vive presso l’Invisible Opera Company Of Tibet. Il terzo occhio è proprio Angel’s Egg, un mandala che sarà il simbolo dei Gong e che prefigura l’avvento di una Nuova Era sulla Terra.



Con You termina la saga di Radio Gnome Invisible. Zero fa ritorno sulla Terra e chiede a Hiram il capomastro come costruire il proprio Tempio Invisibile. Poi organizza il banchetto di freaks sull’isola di Everywhere e lo Switch Doctor fornisce il terzo occhio a tutti gli invitati eccetto proprio Zero che si è lasciato sedurre dalla Torta Di Frutta di Banana Ananda e per questo è costretto a ruotare sul ciclo della nascita e della morte avvicinandosi lentamente all’Angels Egg, il terzo occhio.

Questo universo fantasy, ricco di messaggi e stravaganze assortite, viene declinato attraverso i brani dei tre dischi in un fluire spontaneo, gioioso, quasi a voler mostrare all’ascoltatore la naturalezza e la veridicità delle avventure di Zero e del pianeta Gong. E’ un’impalcatura che, al contrario di molti altri concept album, alleggerisce ed esalta la musica, usando spesso l’ironia, il capriccio e il nonsense.
Ci sarà  lo spazio anche per un quarto e un quinto capitolo della saga.  Shapeshifter, pubblicato nel 1992, e Zero To Infinity, del 2000, con formazioni rimaneggiate ma ancora una sana e ironica visione della musica e del pianeta Gong. Come ha scritto il Daily Telegraph dopo la morte di Daevid Allen, avvenuta il 13 marzo 2015, “Allen si è divertito ad essere il giullare dell’hippie rock e non ha mai perso il suo entusiasmo per il potere trascendente dell’esperienza psichedelica. Una volta ha osservato: la psichedelia per me è un codice per quella profonda esperienza spirituale in cui esiste un legame diretto con gli dei. Il fatto che non abbia mai raggiunto la ricchezza e la fama di molti suoi contemporanei non lo riguardava”. 




Fonti
Daevid Allen, Gong Dreaming 1, GAS Publishing 1994
Aymeric Leroy, L’ècole De Canterbury, Le Mot Et Le Rest, 2016
Graham Bennett, Soft Machine, SAF Publishing, 2005
Michele Coralli, Swingin’ Canterbury, Tuttle Edizioni, 2007
Giancarlo Nanni, Rock Progressivo Inglese, Castelvecchi, 1998
Al Aprile Luca Mayer, La Musica Rock-Progressiva Europea, Gammalibri, 1980
Luigi Bontempi, I Racconti Di Canterbury, Nautilus, 2007
  



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giovedì 5 marzo 2020

Radio Gnome Invisible. La Trilogia del Pianeta Gong. Parte 4


You




Registrato dalla stessa formazione di Angel’s Egg con l’aggiunta di Mireille Bauer e Benoit Moerlen al vibrafono (fratello minore di Pierre) nel secondo brano, prodotto sempre da Simon Heyworth e dai Gong stessi, You si apre con Thoughts For Naught
Un inizio contraddistinto da una classica melodia etnica del flauto accompagnata dalle declamazioni di Allen che, di fatto, introduce A P.H.P.’s Advice, come detto in precedenza un vecchio brano risalente a Camembert Electrique che ne mantiene l’estetica cabarettistica con intermezzi zappiani. Il terzo brano, Magick Mother Invocation, è un evocativo soffio spaziale di Gilli sopra un bordone di voce e synth che si conclude con l’incisivo riff di Master Builder. Suonato dal basso e doppiato da voce e flauto, con Blake che illumina l’atmosfera, il riff è poi preso anche dalla chitarra in corrispondenza del solo di sax. Soliti stop e ripartenze e Hillage che trasforma la composizione in una lunga cavalcata psichedelica. 
A Sprinkling Of Clouds inizia con Tim Blake e le sue oscillazioni cosmiche, un breve solo di Mike e quindi l’incredibile riff di basso con quel suo metro ritmico così particolare: 5 5 5 9. Sopra questo ritmo assolutamente irregolare si staglia un bell’assolo di Blake seguito dalla chitarra di Hillage che riporta il brano su un regolare 4/4 e all’intervento del sax intrecciato ai flauti. Perfect Mistery è un tipico brano alla Daevid Allen, andamento barcollante, voce rafforzata dal sax e intermezzi di vibrafono e Gilli. Una delle poche canzoni di You


The Isle Of Everywhere è un po’ l’emblema di questo disco ed è anche il brano dove vengono raggiunti una serie di compromessi per soddisfare le diverse volontà dei membri del gruppo, in particolare la ritmica e Didier Malherbe. Si comincia con un giro di basso molto funky, il soffio spaziale della Smyth e un 4/4 che ogni 4 battute sale di una terza minore. Il ritmo si trasforma in un 7/8 con il sax di Malherbe che subentra a Gilli Smyth e che finalmente può fraseggiare in modo jazzistico grazie alle  progressioni armoniche di terze minori ascendenti. Il brano continua alternando 4/4 a 7/8 e lasciando spazio all’assolo di Hillage. Una lunga composizione dal classico sapore jazz rock che evidenzia nettamente il ridimensionamento di Daevid Allen, qui decisamente assente sia in termini musicali che compositivi.
 Il disco si conclude con You Never Blow Yr Trip Forever, anch’esso lungo ma certamente più vicino alle atmosfere di Angel’s Egg, con un equilibrio tra parti cantate e parti strumentali. Un iniziale funky su tempi dispari con i buffi interventi di Allen sfocia in un bordone contraddistinto dal canto di Daevid e un bell’assolo di flauto.  Si continua con una cavalcata tipicamente Gong sempre contraddistinta da un alternarsi di tempi irregolari e regolari alla quale segue uno strano intermezzo suonato molto piano sempre con la voce di Allen in risalto. Il brano si conclude con il flauto che improvvisa melodie orientaleggianti intrecciate ad un loop vocale.



Il capitolo finale della trilogia sancisce l’evoluzione dei Gong verso territori più inclini alle mode di quel tempo, lunghi brani jazz rock con assoli, pur conservando in modo consistente comunque una originalità ed un approccio altro alla musica, frutto della creatività del loro leader che, soprattutto nell’ultimo brano, ancora illumina il percorso musicale del gruppo.
E’ in ogni caso un disco che è pienamente parte di questa trilogia caratterizzata da un’architettura musicale di indubbio valore, da una serie di idee musicali e letterarie assolutamente originali e che saranno di esempio per moltissimi musicisti. Pur considerato il disco meno riuscito You ha in sé affascinanti e inebrianti musiche che concludono degnamente la cosmogonia del pianeta Gong.

Prima della pubblicazione ufficiale di You c’è tempo per i consueti cambi di formazione. Moerlen lascia di nuovo il gruppo per suonare con Les Percussions De Strasbourg e viene sostituito per poco tempo da Chris Cutler, batterista degli Henry Cow. La classica line up dei Gong, questa volta escluso Allen, registra il primo lavoro solista di Hillage, Fish Rising, mentre Laurie Allan torna a far parte del gruppo e sostituisce Cutler. Il 30 ottobre, alla frontiera franco tedesca, Laurie Allan è sorpreso dalla polizia con sostanze stupefacenti e gli viene impedito il ritorno in Francia. Il successivo batterista sarà Bill Bruford seguito poi, agli inizi del 1975, dall’ex Nice e Refugee Brian Davison. Ma ormai la situazione sta rapidamente degenerando. A Tim Blake viene chiesto di lasciare il gruppo e non viene sostituito. Ad aprile 1975 Daevid e Gilli, stanchi e bisognosi di una pausa, lasciano il gruppo che, sotto la guida di Hillage continua comunque l’attività live. 
Torna saltuariamente anche Tim Blake, partecipa per alcune date  il tastierista ex Hatfield And The North Dave Stewart e, abbandonati da Brian Davison, i Gong, sotto la spinta della Virgin, riaccolgono in qualità di batterista e nuovo leader Pierre Moerlen. Da qui inizia un’altra storia, forse meno affascinante della prima ma comunque ricca di soddisfazioni artistiche e, in parte, anche commerciali, con il gruppo pienamente inserito nel filone jazz rock.

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lunedì 2 marzo 2020

Radio Gnome Invisible. La Trilogia del Pianeta Gong. Parte 3


Angel’s Egg




E veniamo finalmente ad Angel’s Egg, secondo capitolo di Radio Gnome Invisible, pubblicato dalla Virgin il 7 dicembre 1973 e, a detta di molti, il capolavoro dei Gong.
Innanzitutto  per la prima volta Daevid è riuscito a radunare intorno a sé un autentico gruppo, stabile e ben preparato, in grado di creare un universo sonoro attraverso le sue composizioni, modificandole, sviluppandole e arrangiandole con maestria e virtuosismo. Alla chitarra troviamo Steve Hillage, Didier Malherbe sassofoni e flauto, Tim Blake synth, Mike Howlett basso, Pierre Morlen batteria, marimba e vibrafono, Gilli Smyth voce e soffio spaziale.  
Angel’s Egg si apre con Other Side Of The Sky, a firma Blake e Allen, e subito si intuisce l’amalgama raggiunto dalla formazione, la sicurezza di avere un suo particolare suono e un approccio diremmo progressivo ai brani e alla musica in generale. Un inizio misterioso caratterizzato dal synth di Blake sul quale si adagiano il soffio spaziale di Smyth ed un incisivo sax di Malherbe. Siamo  un po’ dalle parti della Kosmische Musik rafforzata da elementi Rileyani. Una serie di Ohm evocativi, un richiamo al sound canterburiano e poi un lampo che squarcia l’universo, la chitarra di Hillage che tanto era mancata su Flying Teapot. Gli elementi principali della maturità Gong sono già tutti presenti. 
Il brano successivo, Sold To The Highest Buddha, questa volta a firma Howlett e Allen, ha un andamento alla Camebert Electrique, quel particolare suono di basso batteria e chitarra abbastanza incisivo, sempre inframezzato da elementi zappiani e con un sax che attraversa e commenta l’intero brano. Poi improvvisi stop caratterizzati dal synth di Blake e la chitarra di Hillage che risponde alla voce di Allen, quasi contrappuntandola. La ritmica agile e precisa apre poi in un mondo jazz rock, vicino ai Softs o ai Nucleus


Castle In The Clouds è il trionfo di Hillage, con quei suoni di chitarra lunghi, taglienti, cosmici, che diventeranno la sua cifra stilistica. Smyth e lo stesso Hillage firmano la bizzarra Prostitute Poem, con un inizio sognante ed etereo che poi si trasforma in un provocante valzer anni ‘20, contrassegnato dalle consuete aperture orientali con il sax in primo piano. Il finale della prima facciata è anticipato da un breve divertissement alleniano, un buffo canto corale con atmosfera da saloon che introduce una delle più belle composizioni dello stesso Daevid: Selene. E’ un’affascinante melodia, distesa e riposante, illuminata da passaggi cromatici di Hillage e chiusa da vari lamenti di Allen.

L’apertura della seconda facciata è affidata al flauto di Malherbe, alla sua Flute Salad contornata di etnicismi, circondati e doppiati da effetti e synth. Oily Way, dello stesso Malherbe e di Allen, è il solito gioco cromatico che introduce un ritmo incalzante, una batteria jazz rock con intermezzi di soffi spaziali e un ritornello irresistibile cantato da Gilli Smyth, al quale seguono stop, riprese e abbellimenti cromatici. 
Possiamo dire che ci troviamo nel cuore di questo lavoro, nella parte forse più suggestiva e meglio riuscita di Angel’s Egg. Oily Way sfocia in Outer Temple, di Blake e Hillage, una sorta di intermezzo floydiano con un crescendo ed un breve e veloce passaggio jazz che culmina in Inner Temple, dove un Malherbe lirico e intrigante caratterizza la prima parte della composizione di Allen e dello stesso sassofonista. I cambi d’accordo ogni due battute ne fanno poi uno splendido brano modale, con un synth conturbante. In Perculations c’è spazio per il percussionismo di Moerlen, coadiuvato dalla sua compagna Mirelle Bauer, sempre con un occhio all’Art Ensemble Of Chicago e alle loro suite tribali. La marimba introduce Love Is How You Make It, a firma del batterista e di Allen, song  barrettiana che mostra un Moerlen virtuosistico al vibrafono e che si conclude in un crescendo zappiano. I Never Glid Before, di Hillage, è uno dei cavalli di battaglia del gruppo, una cavalcata tratteggiata dal sax alternato agli intermezzi vocali di Allen. Poi, all’improvviso, il lampo della chitarra di Hillage, un assolo sognante e di grande abilità. Il finale in accelerando è dalle parti di We Did It Again dei Soft Machine o Stop This Train (Again Doing It), dal primo disco solista di Kevin Ayers.  


Il disco si conclude con un altro brano di Malherbe, Eat That Phonebook Coda, classico gioco circolare gonghiano con voce e sax all’unisono, intermezzi alla Softs e un finale lento e cabarettistico. Nella versione cd c’è un’idea per una hit single di Daevid Allen, Ooby-Scooby Doomsday Of The D-Day  Dj’s Got the D.D.T. Blues, registrato al Manor il 18 giugno 1973. Un iniziale marcia che poi si trasforma in un classico divertissement molto vicino a Frank Zappa

Angel’s Egg è un disco ben assortito, vario e ricco di idee ben amalgamate e orchestrate, con individualità inserite in un contesto organizzato e ben saldo, sicuro del proprio universo musicale conquistato con inaspettata rapidità. Il secondo capitolo dalla saga è il gioiello perfetto che configura ulteriori scorribande cosmiche e un futuro quantomeno beneaugurante. 
A questo punto Allen inizia subito a lavorare per il terzo capitolo della saga ma, come sempre è accaduto nella storia dei Gong, ritornano temporanei abbandoni e cambi di formazione. Tutto sommato la line up riesce ad essere abbastanza stabile e, per la prima volta, il disco successivo sarà registrato dalla stessa formazione di Angel’s Egg. Comunque, poco prima di una lunga serie di concerti programmati insieme a Kevin Coyne, nell’ottobre del 1973 Pierre Moerlen lascia il gruppo per andare in tour con Les Percussions De Strasbourg e viene rimpiazzato da Rob Tait, mentre Diane Stewart-Bond prende il posto di Gilli Smyth in attesa del secondo figlio. Ma per Daevid Allen Moerlen è fondamentale e quindi, nell’approssimarsi dei lavori per il nuovo disco, con i Gong in concerto a Strasburgo il primo marzo del 1974, l’australiano convince il batterista a tornare. Miquette Giraudy, la compagna di Steve Hillage, prende il posto di Stewart-Bond, in attesa del ritorno di Gilli Smyth

Risolti finalmente i problemi di formazione e tornati a quella che può benissimo definirsi la line up più stabile della propria storia, i Gong si apprestano a lavorare concretamente per il nuovo disco. Su proposta di Hillage decidono di organizzare alcune session per improvvisare collettivamente e poi organizzare il materiale. 
Si trasferiscono a Witney, non lontano dal Manor, e agli inizi di aprile, dopo una decina di giorni di prove, tre dei brani più importanti del nuovo disco sono già pronti: OM Riff che diventa Master Builder, Cycle Gliss che diventa The Isle Of Everywhere e infine A Sprinkling Of Clouds. In più ci sono alcuni contributi  individuali come Perfect Mistery, un vecchio brano degli inizi dei Gong, e A P.H.P.’s Advice, da un pezzo per sole percussioni di Moerlen.  Secondo Mike Howlett “il metodo di composizione adottato per questo disco era piuttosto speciale e non appena un’idea veniva proposta da qualcuno poi veniva assorbita dal collettivo e restituita in una forma molto differente”. Sempre secondo il bassista i riff di basso di A Sprinkling Of Clouds e The Isle Of Everywhere erano ovviamente suoi, mentre quello di Master Builder di Steve Hillage.


Per Tim Blake “il risultato è la prova che alcuni dei migliori pezzi dei Gong nascono dalle nostre differenze. Cycle Glass (The Isle Of Everywhere nel disco) è un perfetto esempio. Didier, come jazzista, si lamentava dell’assenza di cambiamenti armonici in OM Riff (Master Builder nel disco) che Steve e io avevamo sviluppato, mentre Mike e Pierre l’assenza di tempi irregolari, dispari. Così insieme abbiamo creato questo ciclo di moduli ritmici che si susseguono in un movimento a spirale, salendo ad ogni ripetizione di una terza minore, e così via fino alla chiusura del ciclo”.

Da questo punto di vista quindi il bilancio sembra essere positivo, ma non per Daevid. Il nuovo approccio favorisce ed esalta la parte strumentale, rendendo marginale il suo apporto proprio in virtù delle sue non eccelse capacità tecniche e di fatto marginalizzando l’elemento testuale e cantato. 
Uno spostamento, dunque, a favore delle fughe strumentali che altera il magico equilibrio che si era raggiunto con Angel’s Egg, tra virtuosismo e pura creatività, tra canzoni, seppur aliene,  elaborazioni orchestrali e improvvisazioni. 
La cosmogonia di Allen, stretta tra una sezione ritmica di grande precisione e ricca di groove, unita a solisti di grande abilità, con la forte presenza delle ammalianti sonorità del synth, viene posta in secondo piano a favore di uno space rock molto vicino al progressive e al jazz rock.  Mike Howlett non è d’accordo: “l’equilibrio raggiunto su You tra sequenze cantate e strumentali era buono. E’ stato un disco di comunicazioni non verbali”.
Va anche detto che queste nuove, lunghe e dilatate  composizioni, dall’andamento asimmetrico e ricche di momenti solistici divengono parte centrale delle esibizioni live dei Gong, di fatto anticipando le evoluzioni future del gruppo.



Ad aggiungere tensioni all’interno della formazione ci fu anche il problema dell’uso di sostanze stupefacenti. La polizia fece irruzione nella dimora dei Gong a Witney e sequestrò sostanze proibite. Questo fatto accelerò la discussione che si era avviata all’interno del gruppo sulla legittimità o meno dell’uso di droghe. “All’inizio fumare erba e prendere acidi era per noi un passo politico. L’idea di creare un nuovo sistema, dove la gelosia e la cupidigia non avrebbero avuto il loro posto e per raggiungere questo obiettivo dovevamo aprire le nostre menti e andare avanti. Le droghe avrebbero dovuto aiutarci a raggiungere questo obiettivo”, così racconta Gilli Smyth. Dopo aver vietato le sigarette e l’alcol, secondo Gilli sia lei che Daevid e Steve Hillage si erano ormai convinti di dover fare lo stesso con le altre droghe.
Comunque, nella prima parte di maggio Daevid scrive i testi del terzo capitolo dalla saga, in luglio vengono effettuate le registrazioni al Manor e finalmente il 4 ottobre 1974 la Virgin pubblica You.

Recensioni. Kevin Ayers and The Whole World "Shooting at the Moon"

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