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martedì 31 maggio 2022

Weird Tales. Memorie islandesi: Reptile

 


 

Parlare oggi di Islanda e rock non fa più scalpore, tuttalpiù può ingenerare un pizzico di curiosità, quel leggero gusto di esotismo. Chiaro che il nome di Bjork venga immediatamente associato al binomio, ma l’Islanda non è stata solo lei. Quando, a fine anni Ottanta, si scoperchiò il cratere musicale del paese dei ghiacci, insieme ai “famosi” Sugarcubes, dove militava la stessa Bjork, uscirono fuori una serie di band interessanti e particolari. Che, con dispiacere, vennero più o meno sommerse dal successo della cantante dallo sguardo profondo e dalla voce incandescente, lasciando poche tracce di quel piccolo movimento rock/new wave che scuoteva Reykjavík.

A parte il fenomeno Abba, la Scandinavia, fino agli anni Ottanta, era rimasta abbastanza marginale in quanto a formazioni rock e dintorni, pur producendo in ogni caso materiali di buona qualità. Ovvio che l’esplosione del Progressive rock abbia facilitato, come un po’ in tutta Europa, Italia compresa, l’affermarsi di vie nazionali al rock e Bo Hansson è stato uno degli esempi di maggior qualità da questo punto di vista. Il tastierista svedese produsse, negli anni Settanta, alcuni pregevoli album (su tutti Sagan Om Ringen, pubblicato dalla Charisma come Music Inspired by The Lord Of The Rings nel 1972), meritandosi la piccola e circoscritta fama tributatagli a suo tempo. Dalle stesse parti si muoveva anche il bassista e compositore finlandese Pekka Pohjola, membro della band Wigwam e autore di interessanti lavori solisti anche insieme a Mike Oldfield. Più interessanti, e anche leggermente più conosciuti, Samla Mammas Manna, gruppo svedese inserito nell’alveo Rock In Opposition insieme ai nostri Stormy Six e ai ben più noti (e ispiratori del movimento) Henry Cow. Fin qui, comunque, nulla che provenisse dalla terra del ghiaccio. Ma la rivoluzione punk, e le susseguenti ramificazioni dark/new wave, diedero spazio e spunti creativi anche alla piccola scena islandese, e alla metà degli anni Ottanta cominciarono ad emergere suoni e note da quell’estremo lembo d’Europa.

Gli Sugarcubes furono la scintilla che illuminò l’isola, riscuotendo un successo inaspettato in patria e all’estero. Il loro primo singolo Birthday, nel 1988, lancia nelle chart inglesi l’album Life’s Too Good, edito dall’etichetta One Little Indian (successivamente anche Chumbawamba, The Shamen e Skunk Anansie nel loro catalogo), un mix di suoni pop/new wave, elementi eterei e ruggiti infuocati, a metà tra B-52’s e Talking Heads con lontani echi di Siouxsie. Il successo, non solo in Albione ma anche dall’altra parte dell’oceano, li porta in tour negli USA alla fine del 1988 a raccogliere ulteriori consensi e a programmare quindi un successivo album. Ma i contrasti interni al gruppo, con la separazione di Bjork dal chitarrista Thor Eldon Johnson e probabilmente differenze di vedute, li conducono a pubblicare un secondo lavoro debole, meno incisivo e ispirato, a segnare inaspettatamente il rapido esaurirsi della formula vincente. A quel punto il gruppo implode e, tra varie edizioni di singoli ed Ep, arrivano al terzo album ormai da separati in casa. Stick Around For Joy, del 1992, raccoglie critiche migliori del suo predecessore, arrivano persino ad aprire lo Zoo Tv Tour degli U2 ma la strada è ormai segnata e il gruppo la chiude lì, giusto in tempo per permettere a Bjork, l’anno successivo, di lanciarsi nella sua trionfale carriera solista con Debut, del 1993.

Tuttavia, anche se finora abbiamo parlato di Sugarcubes/Bjork, l’attenzione di questa puntata di Weird Tales è rivolta ai dintorni, alle storie dimenticate (as usual!) e quindi, tornando alla separazione di Bjork dal chitarrista Thor, questo piccolo episodio ci porta ad una singolare biforcazione della nostra storia. Margaret “Magga” Ornolfsdottir, di professione tastierista, convola a nozze con il chitarrista degli Sugarcubes e si aggiunge al gruppo diventandone a tutti gli effetti un nuovo membro e quindi partecipando alle registrazioni del secondo e del terzo ed ultimo disco. Ma da dove proveniva Magga?

Tra le miriadi di gruppi e piccole formazioni che scuotono Reykjavík negli anni Ottanta, ce n’è una particolare, bizzarra, stravagante, meno legata all’estetica anglosassone e con vaghi riferimenti al suono etno/world, pur se declinato in modo assolutamente personale. Sono i Reptile, Risaeolan in islandese, formati da Halldòra Geirharosdòttir, alias Dòra Wonder, attrice, cantante e sassofonista, Margrèt Kristin Blondal, alias Magga Stina, voce, violino e marimba, Sigurour Guomundsson, alias Siggi, chitarra, banjo e voce, Ivar Ragnarsson, alias Ivar, basso e synth, e Toti Kristjànsson, alias Toti K, alla batteria. Ai quali va aggiunta, per l’appunto, Magga Ornolfsdottir, che però nel 1988 lascia il gruppo per entrare, come si diceva sopra, negli Sugarcubes.

Per nulla bloccati dall’abbandono i Reptile confezionano nel giugno del 1989 il loro esordio discografico, un Ep edito solo in Islanda, per poi giungere l’anno seguente al loro primo (ed unico ahimè) lp, Fame and Fossils, preceduto dal singolo Hope/Kebab, entrambi pubblicati dalla indie label inglese Workers Playtime. Il disco è un autentico gioiellino che sprizza vivacità da tutti i pori, sfrontato e irruento come una punk band ma con le radici nel folk europeo. I richiami agli Sugarcubes ovviamente sono molti, a cominciare dalle voci femminili fino ai riferimenti non troppo velati ai B-52’s. Ma, come già accennato, il tutto è speziato di etno/world, con violini, sax, banjo e marimba che svolazzano sull’Europa dell’est e furoreggiano insieme ad una impetuosa ritmica di stampo new wave, saltando velocemente da un brano all’altro, senza posa. Allah è un Oriente evocato, ossessivo e trasfigurato, mentre Ivar Bongo proviene dai Balcani acidi e stralunati, con Candyflos war, dalle atmosfere alla Sugarcubes, e l’ipnotico ed incisivo rock Gun Fun ad alzare la temperatura del disco. Suggestioni teatrali contrappuntate dal banjo in What are you up to?, filastrocche nostalgiche dalla Russia con Shdee Myenya mentre il finale, Boys will be boys, lascia spazio al pieno furore punk rock chiudendo un lavoro di assoluto valore, eterogeneo ma  con una sua caratterizzazione stilistica unitaria, frutto di molteplici influenze sintetizzate con grande senso artistico.  

Il gruppo ottiene riconoscimenti all’estero (sulla scia del successo degli Sugarcubes) e nell’estate del 1990 parte per una serie di concerti negli Stati Uniti, tra i quali uno alla Knitting Factory di New York, con David Byrne tra il pubblico. Poi un tour in Europa e progetti per il secondo disco che, purtroppo, non andranno in porto. Prima Dòra Wonder è costretta a lasciare il gruppo per continuare i suoi studi come attrice teatrale, sostituita da Hreinn Stephensen alla chitarra e alla fisarmonica, poi l’abbandono di Magga Stina, in attesa di un figlio e intenzionata a lasciare il mondo musicale, quindi lo scioglimento definitivo pur avendo iniziato a registrare il nuovo materiale con il batterista degli Swans Roli Mosimann. Queste registrazioni, insieme a vecchi brani e gran parte di Fame and Fossils, verranno poi pubblicate nel cd postumo Efta! dall’etichetta islandese Smekkleysa (la vecchia label degli Sugarcubes che promosse gran parte della scena rock alternativa dell’isola, tra i quali gli stessi Reptile).

Un gran peccato perché, a distanza di più di trent’anni, la musica dei Reptile è ancora validissima e per nulla segnata dal tempo, attuale, fresca e moderna. Forse troppo attuale, il che spiegherebbe, in parte, i motivi del loro poco successo, soprattutto rispetto ai concittadini Sugarcubes. Come molte altre volte nella storia della musica (e non solo), forse ci si è spinti troppo in anticipo sui tempi e lo si è pagato a caro prezzo.

Difficile trovare il Lp Fame and Fossils oppure il cd Efta!, e quindi questo è il link di Youtube per ascoltare il particolarissimo lavoro dei Reptile. In più, un paio di siti dove si parla del gruppo e dove è possibile avere qualche informazione in più sulla scena islandese degli anni Ottanta.  

 

 https://youtube.com/playlist?list=PLIIjrCWWumJk143G3A8TF_jF8ZK90I3wq

https://grapevine.is/icelandic-culture/music/2016/01/27/a-band-to-remember-the-superfun-reptile-returns/

http://www.paulkienitz.net/leftfield.html

 

pop

giovedì 24 marzo 2022

Weird Tales. Henry Grimes e il suo The Call


 





Ci sono quei dischi che hanno un potere magnetico, ti incuriosiscono e ti affascinano al solo sentirne parlare, prodotti unici e colmi di un loro potere seduttivo misterioso. E in quanto a unicità, fascino, mistero, The Call, a nome Henry Grimes Trio, ne ha da vendere!

Iniziamo dalla casa discografica, la ESP dell’avvocato Bernard Stollman, folgorato dalle sonorità free dei vari Ornette ColemanAlbert AylerSun Ra, nei primi anni Sessanta in quel di New York. E che dà l’opportunità di registrare il primo disco a suo nome ad uno dei grandi protagonisti di quella stagione, il contrabbassista Henry Grimes. E qui passiamo alle vicende, senz’altro avventurose e avvolte dal mistero, di questo grande musicista ahimè morto poco tempo fa, possiamo dire per la seconda e definitivamente ultima volta.  La lista dei musicisti con i quali ha collaborato è impressionante per quantità e qualità: Anita O’DayBobby TimmonsLee MorganGerry Mulligan e Chet BakerArt FarmerBenny GoodmanTony ScottSonny RollinsThelonius MonkLee Konitz. E poi la svolta, agli inizi degli anni ’60: Cecil TaylorDon CherryAlbert AylerPharoah SandersArchie SheppSteve Lacy, fino a diventare IL contrabbassista free per eccellenza. Un monumento della musica afroamericana che però misteriosamente scompare dalle scene alla fine del decennio, per oltre trent’anni dato per morto salvo poi riapparire miracolosamente nel 2002, senza più il suo strumento e in condizioni disagiate ma con ancora una grande voglia di rimettersi in cammino, cosa che poi effettivamente avverrà.  Nella sua prima vita, nonostante le numerose collaborazioni e il suo talento Grimes ha a suo nome un solo album, proprio questo The Call, e ovviamente solo una casa discografica avventurosa e sperimentale come la ESP poteva dargli questa opportunità.

Ma le peculiarità di questo disco non finiscono qui. Curiosamente la carriera di Grimes ha più volte incrociato le note e  i suoni di uno strumento che nel secondo dopoguerra certo non era più così comune come un tempo: il clarinetto. Tra i musicisti con i quali il contrabbassista ha collaborato spiccano i nomi di Benny Goodman e di Tony Scott. E, sorprendentemente, di un altro clarinettista che fin qui abbiamo taciuto ma che è uno dei suoi compagni di avventura in The CallPerry Robinson.  

Figlio del compositore e folk singer Earl Robinson, cresciuto a New York in un ambiente liberal e naturalmente orientato verso le arti e la musica in particolare, Perry Robinson è uno dei rari clarinettisti “puri” degli anni ’60, cioè di coloro che hanno scelto e praticato il clarinetto come primo e unico strumento. Scelta assolutamente controcorrente, come abbiamo già ricordato, ma che non ha precluso al nostro una carriera interessante pur se di nicchia. Sicuramente poco conosciuto e non certo un virtuoso dello strumento, Robinson ha avuto il merito di trovarsi al momento giusto nel posto giusto. Suona con Archie Shepp in Mama Too Tight ma soprattutto partecipa a due grandi dischi dal respiro collettivo,  Liberation Music Orchestra di Charlie Haden e Escalator Over The Hill di Carla Bley. Non male per un clarinettista, che aggiunge alle sue frequentazioni album con Jeanne LeeAnnette Peacock, persino il gruppo rock alternativo The Fugs e operazioni soliste dedicate allo yoga kundalini e alla musica klezmer.  Oltre a, naturalmente, questo The Call con Henry Grimes. I due hanno un profondo rapporto di amicizia nato a metà anni ’50 durante una jam session e sugellato nel 1962 proprio con l’esordio come solista di Perry Robinson, con il suo Funk Dumpling.  Nel 1965, dopo il servizio militare, Robinson torna a New York e finisce per andare a vivere nel frizzante East Village proprio con Grimes e il terzo protagonista di questa nostra piccola storia, il batterista Tom Price. Amico di Robinson fin dai tempi di scuola e membro dell’ Uni Trio con lo stesso clarinettista e il bassista Bill Folwell (anche lui nella stessa scuola!), Tom Price è stato un allievo di Alan Dawson e, rispetto a Grimes e Robinson, non vanta grosse collaborazioni, a parte concerti con Jaki Byard e un bel disco a nome del sassofonista Frank Wright con lo stesso Grimes al contrabbasso, sempre edito dalla ESP. The Call nacque durante il periodo di convivenza dei tre musicisti, in una zona dove vivevano moltissimi jazzisti e si respirava una grande energia, qual era l’East Village a metà anni ’60. Ancora un particolare: talmente forte era il legame che li univa che trent’anni dopo, quando Henry Grimes riemerse dalla nebulosa nella quale era scomparso, si ritrovarono insieme a suonare.

Il disco è un classico del free jazz di quegli anni. Batteria tumultuosa, contrabbasso irruento ma nitido e strumento a fiato libero di scorrazzare tra i flussi sonori impetuosi. Tre strumenti che dialogano da pari, a sovvertire di continuo i ruoli. Ma The Call ha alcune sue particolarità che lo rendono diverso, lo discostano in parte dai cliché del genere. Innanzitutto, come dicevamo, la presenza del clarinetto che da quelle parti si era visto raramente, a parte i bellissimi lavori di Jimmy Giuffre con Paul Bley e Steve Swallow. Ma lì le atmosfere erano pacate, a stretto contatto con suggestioni contemporanee, mentre The Call aderisce in pieno alla tipica estetica free. Tuttavia, il clarinetto di Robinson, dal suono nasale e angoloso, devia le sonorità in una landa fino ad allora poco frequentata, una sorta di veemenza morbida, talvolta gentile, persino giocosa. Il suono complessivo è coinvolgente e mostra un alto tasso di interplay, probabile effetto della convivenza, con un’essenzialità unica, senza rivoli infruttuosi o superflui. Oltre la metà dei brani è fra i tre e i quattro minuti, mentre For Django, di Henry Grimes, è una suite ariosa, che lascia spazio ai singoli strumenti ma che vede anche melodie all’unisono e atmosfere sospese, quasi di impronta classica, unite a momenti più nervosi e con un contrabbasso portentoso, dallo swing eccezionale. L’altra composizione di durata estesa è quella che dà il titolo al disco, The Call, scritta da Robinson, che la suonerà nel corso di tutta la sua carriera nei contesti più disparati. È una sorta di breve richiamo, composto anni prima, provando a suonare insieme ad un calabrone e cercando di imitare il suono di altri insetti.  Walk On, sempre dello stesso Robinson, ha striature bop, mentre Son Of Alfalfa, di Grimes, è il seguito di Farmer Alfalfa (un cartone animato che Grimes amava vedere, una specie di Braccio di Ferro!), sempre composta dal contrabbassista e pubblicata su Funk Dumpling, il disco d’esordio di Robinson.

In definitiva, The Call è un disco che avrebbe meritato certamente più fortuna, come l’avrebbero meritata i tre musicisti, non fosse altro per aver registrato questo meraviglioso album.  Dal quale emerge una musica che, pur essendo segnata profondamente dall’estetica del tempo, non ha perso bellezza e comunicatività, come solo i grandi dischi sanno avere. A fronte di un monumentale Henry Grimes, con il suo energico e allo stesso tempo limpido  e ancestrale contrabbasso, sia Robinson che Price contribuiscono alla riuscita dell’opera con performance probabilmente mai più raggiunte nel prosieguo della loro carriera. Dei tre l’unico ad essere rimasto in vita è il batterista, mentre Robinson ci ha lasciato nel 2018.  

“Henry was so beautiful, and we were so close. He was a genius on bass, and even with all his problems he was still able to play. He’s one of the unsung heroes of jazz”. Perry Robinson 


pop

Weird Tales. Il "modernismo" di Pee Wee Russell


 


Il clarinetto è stato uno strumento sfortunato in ambito jazzistico. Tra i protagonisti agli albori, addirittura strumento simbolo durante la swing era, con l’avvento del be bop diventa praticamente obsoleto, vecchio, fuori moda. Soppiantato dal sassofono, il clarinetto rimane in vita grazie a pochissimi musicisti, tra gli anni 40 e i settanta, quando c’è un timido riaffacciarsi sulle scene del jazz contemporaneo. Tony ScottBuddy De FrancoJimmy Giuffre, Pee Wee Russell e poi John Carter, sono tra i pochi jazzisti di un certo livello che suonano esclusivamente o, nel caso di Giuffre e Carter, alternandolo al sax, lo strumento che fu protagonista, insieme alla cornetta e al trombone, della nascita del jazz. Ma in questo breve elenco la figura di Pee Wee Russell emerge con un ulteriore anomalia rispetto agli altri suoi colleghi; è sempre stato considerato un musicista dixieland pur non avendo mai suonato, propriamente, dixieland. Sembra un paradosso ma effettivamente è proprio così.

Andiamo con ordine.

Charles Ellsworth Russell nasce il 27 marzo 1906 a Maplewood, in Missouri, ma la sua famiglia è originaria di Muskogee, in Oklahoma ed è lì che cresce e inizia a suonare vari strumenti musicali, su impulso del padre. Violino, pianoforte e batteria finché, dopo aver assistito ad un concerto del clarinettista di New Orleans Alcide “Yellow” NunezPee Wee Russell opta definitivamente per il clarinetto. Nel 1920 la famiglia si trasferisce a St. Louis e qui inizia l’avventura musicale di Russell, accanto a musicisti del calibro di Bix Beiderbecke e Frankie Trumbauer, per poi spostarsi a New York e aggregarsi al trombettista Red Nichols e al chitarrista e bandleader Eddie Condon, con il quale suonerà e registrerà praticamente durante tutta la sua carriera.

Come dicevamo, Pee Wee Russell è sempre stato associato al dixieland, e i suoi compagni di palco sono quasi sempre stati in quell’ambito, anche se lo stile e l’approccio improvvisativo distano notevolmente dai cliché del genere, così come dall’estetica swing. Ma come suona Russell, perché è così particolare, così intrigante per certi versi?

“Non è un virtuoso e il suo suono è ansimante e stridulo, ma dimentichi quei difetti quando senti la beatitudine, la tristezza, la compassione e l’umiltà che sono lì nelle note che suona”. George Frazier, giornalista e critico jazz.

Queste definizioni racchiudono in gran parte il fascino di Pee Wee Russell, quel suo costruire le improvvisazioni con un accento “moderno”, dove il rumore, il soffio, le note storte e le spigolosità sono parte integrante della musica. Pee Wee improvvisa in modo bizzoso, con frequenti suoni disarticolati e improvvisi slanci melodici, inserendo elementi grotteschi e lavorando spesso sui toni bassi dello strumento. La scelta delle note a volte può sembrare errata ma la costruzione delle anomale melodie è così efficace da tratteggiare assoli imprevedibili e originali. Il bello è che anche la sua faccia e i suoi atteggiamenti sul palco corrispondono a quel suono, con un andamento goffo e un’espressione triste, quasi fosse una sorta di Buster Keaton del jazz.

Tuttavia, questa sua modernità non lo ha portato a frequentare altri ambienti e musicisti se non, appunto, il giro dixieland, probabilmente per una sua pigrizia, per i suoi problemi con l’alcool, o semplicemente per un’ingiusta sottovalutazione delle sue qualità. Ma agli inizi degli anni ’60 qualcosa cambia, le acque si smuovono.

Dopo una crisi dovuta al suo cattivo stato di salute nella prima metà degli anni 50, sul finire della decade Pee Wee riprende a suonare con regolarità e con i giusti apprezzamenti, anche da parte della critica. Le prime avvisaglie del cambio di rotta sono un incredibile duo con Jimmy Giuffre e un disco registrato insieme all’altro grande clarinettista, Tony Scott (Tony Scott And The All Stars52nd St. Scene, registrato il 6 agosto del 1958). Inoltre, inizia a partecipare ad importanti festival jazz, suonando accanto a Coleman Hawkins e a Lester Young. E arriviamo così al febbraio del 1961 quando Russell incide il bellissimo Pee Wee Russell – Coleman Hawkins All Stars, insieme allo storico sassofonista e con, tra gli altri, Bob Brookmeyer al trombone a pistoni e Nat Pierce al piano e agli arrangiamenti, il tutto prodotto da Nat Hentoff. Questo nuovo interesse e rivalutazione del clarinettista attira l’attenzione del trombonista, arrangiatore e direttore di big band Marshall Brown, ansioso di accrescere la sua reputazione nel mondo jazz e intenzionato ad investire i suoi soldi su un progetto abbastanza audace: inserire in modo stabile Pee Wee Russell in un contesto moderno, vicino alle nuove tendenze del jazz degli anni 60. E quindi, insieme al contrabbassista Russell George e al batterista Ron LundbergBrown Russell allestiscono un quartetto pianoless (sulle orme del famoso gruppo di Gerry Mulligan e Chet Baker) con un repertorio da far spalancare gli occhi. Composizioni di John ColtraneThelonious MonkTadd Dameron e persino Ornette Coleman!

Pee Wee è interessato alla sfida e vuole finalmente mettersi alla prova con musicisti e brani lontani dal suo abituale giro, anche se la figura di Marshall Brown non lo convince del tutto, con quel fare da istruttore nei suoi confronti. Alle prime prove, agli inizi del 1962, assistono anche Kenny Davern e Roswell Rudd che spronano Russell a continuare questo esperimento, convinti che il contesto fosse finalmente quello giusto per un musicista come Pee Wee.  

Il 15 ottobre del 1962 il Pee Wee Russell Quartet with Marshall Brown debutta dal vivo a Toronto. E, com’era facile attendersi, il nuovo gruppo scontenta totalmente i suoi vecchi fans e non convince i “modernisti”, ancora restii ad accettare il nuovo corso del clarinettista. Il quale, tuttavia, nelle interviste più volte sostiene di non aver mai suonato dixieland, bensì solo e soltanto jazz. E quindi non c’è nessuna rivoluzione in corso, semplicemente un repertorio diverso. Che in effetti non è del tutto sbagliato.

New Groove, il disco del quartetto, esce per la Columbia Records nel maggio del 1963, dopo sedute di registrazione svolte con tensione e incomprensioni, tra la rigida disciplina di Brown e la rilassatezza e l’indolenza di Russell. Tra i brani presenti nell’lp c’è una Red Planet di Coltrane, la ‘Round Midnight di Monk e Good Bait di Tadd Dameron, più altri standard come Moten Swing o Chelsea Bridge. Il disco è ben arrangiato, con un suono complessivo elegante e corposo, una ritmica puntuale e precisa e un affabile impasto fra trombone a pistoni e clarinetto.  Pee Wee Russell finalmente improvvisa in un ambito a lui consono, e costruisce assoli inusuali, linee storte e note inattese sia su classici come Taps Miller di Count Basie che su brani “moderni” come Good Bait. Discreto e di supporto armonico nel tema di ‘Round Midnight, commovente nell’enunciazione di Chelsea Bridge, con quel soffio intenso e le vibrazioni di un suono che viene da lontano ma che colpisce per la sua contemporaneità ancora adesso. A suo agio in Red Planet, dove mostra la sua capacità di improvvisare con un linguaggio ricco di echi free, Russell è eccezionale nella sua Pee Wee Blues, con un solo di altissimo livello. A mancare, nel disco, è un contraltare all’altezza, perché va detto che il buon Marshall Brown fa il suo compitino ma nulla di più, ed è un peccato perché contrabbasso e batteria suonano egregiamente. Le recensioni sono buone, dal vivo il gruppo riceve consensi entusiasti, addirittura Pee Wee vince il critics’ poll di Down Beat come miglior clarinettista dell’anno, ma i pregiudizi sono duri a morire e il disco non vende, non quanto dovrebbe. Tuttavia, questo non ferma il nuovo corso di Russell e nel luglio del 1963 il clarinettista suona insieme a Thelonious Monk al Festival Jazz di Newport, suscitando clamore tra il pubblico e critiche positive tra i giornalisti.  Prima di questo concerto il quartetto con Marshall Brown conclude le registrazioni e vende alla Impulse il secondo album, Ask Me Now (che però verrà pubblicato solo nel 1965), con una track list di tutto rispetto: insieme a brani scritti dallo stesso Brown, e a classici come Prelude To A Kiss di Ellington o How About Me? di Irving Berlin, figurano Ask Me Now e Hackensak di MonkSome Other Blues di Coltrane e un’incredibile Turnaround di Ornette Coleman 

Tuttavia, le sedute di registrazione per il secondo disco hanno evidenziato ulteriormente il malessere di Pee Wee Russell nei confronti di Marshall Brown, quella sua eccessiva rigidità nel registrare e allo stesso tempo l’inconsistenza improvvisativa che, a detta di Russell, ha pregiudicato i due lavori fin lì conclusi. Tanto è vero che i due provano a cambiare line up, a modificare qualcosa per tentare di raddrizzare il gruppo. E allora, a settembre del 1963, in previsione di una settimana di concerti al Village Vanguard di New York, il quartetto viene ampliato con l’inserimento del pianista Bob HammerJack Six al posto di Russell George al contrabbasso e Ronnie Bedford alla batteria, che già aveva partecipato alle registrazioni di Ask Me Now in luogo di Lundberg. Ma ormai non c’è più nulla da fare, il progetto è al capolinea e queste saranno le ultime esibizioni del gruppo, che si scioglie subito dopo, molto prima della pubblicazione del secondo album. A conclusione dell’esperienza Pee Wee dirà che non ricordava di aver mai preso così tanti ordini dai tempi della scuola militare. E oltretutto, dal punto di vista economico, fu un completo fallimento.

Resta da commentare l’ultimo disco, quell’ Ask Me Now pubblicato addirittura dalla Impulse.  Anche questo lavoro è ben arrangiato, in modo abbastanza tradizionale ma con garbo ed eleganza. E complessivamente è leggermente superiore al lavoro d’esordio, sia per una prestazione migliore di Brown che per un’ottima scelta dei brani, tra i quali gli originali del trombonista certo non sfigurano. L’apertura è affidata al brano di Ornette Coleman, una Turnaround suonata come un blues d’altri tempi, il suono caldo e quelle note appena accennate di Russell che emozionano e incuriosiscono. In Some Other Blues, di John ColtranePee Wee alterna richiami dixie a passaggi moderni, a note strozzate, in un solo di rara creatività, mentre Ask Me Now di Monk ha tutto il calore e il sapore dell’ebano, della tradizione jazz. Licorice Stick, uno dei brani originali, dall’andamento monkiano, è significativo per l’alternanza dei soli, tra un Brown discreto, ordinato, e un Russell pieno di passaggi inusuali, avventurosi, come se il più giovane fosse lui invece del trombonista. Hackensack, sempre di Monk, è divertente, briosa, mentre lo standard Angel Eyes, privo di improvvisazione, è ben suonato da Marshall Brown, che qui fa intravedere le sue qualità di narratore tematico.

Come dicevamo, il disco esce nel 1965, quando il gruppo già non esiste più e Pee Wee Russell è tornato ai suoi vecchi amori, al suo classico giro di musicisti dixieland, Jack TeagardenBud FreemanEddie Condon. C’è ancora spazio per concerti insieme al trombettista Henry “Red” Allen con una ritmica che vede Steve Kuhn al piano, Charlie Haden al contrabbasso e Marty Morell alla batteria e, nel 1967, un’insolita produzione di Bob ThielePee Wee insieme ad una big band con musiche dirette e arrangiate da Oliver Nelson. Purtroppo, nonostante la buona prova del clarinettista, l’esperimento non sembra del tutto riuscito anche perché il suono e lo stile di Russell non sono propriamente adatti alla forza e all’estetica di una big band.

Finisce così l’avventura “modernista” di Pee Wee Russell, e c’è un grande rammarico per quanto avrebbe potuto ancora dare se fosse stato più deciso nel continuare la svolta e magari avesse cambiato i partner. Ma così non è stato e, in ogni caso, pur in ambiti particolari, Charles Ellworth Russell ha continuato a regalarci ottima musica fino alla sua morte, avvenuta il 15 febbraio 1969.   

“Per trent’anni abbiamo tutti creduto che Russell facesse delle note sbagliate e lui ce lo ha lasciato credere; in realtà sapeva esattamente quello che suonava e noi abbiamo impiegato quasi trent’anni per capirlo!”

Coleman Hawkins


pop

venerdì 26 febbraio 2021

Weird Tales. Il giardino dei Trees: tra folk e psichedelia!

 

Il grande patrimonio folk anglo-scoto-irlandese è stato una delle caratteristiche forse meno evidenti dell’esplosione del rock inglese, spesso oscurato dal blues, dallo skiffle e dal rock’n’roll, musiche più chiaramente riconoscibili nella costruzione della British Invasion. Eppure, quelle centinaia di ballate che si sono trasmesse oralmente per tutta la Gran Bretagna e l’Irlanda, sconfinando anche negli Stati Uniti, sono state il substrato di tanta musica inglese, primi fra tutti i Beatles. È un patrimonio che è stato sottovalutato ma che con tutta evidenza rappresenta quell’elemento particolare, quell’ingrediente speciale che ha permesso la nascita e lo sviluppo del rock d’Albione. Tale è stata la forza di questo retaggio culturale da aver dato vita anche ad un vero e proprio genere musicale, il cosiddetto folk rock, che ha prodotto dei veri capolavori ed una serie di gruppi eccezionali. La triade Fairport Convention/Pentangle/Steeleye Span, con la Incredible String Band a fare da stralunato e sperimentale jolly, già di per se mostra la ricchezza e lo splendore di una musica ancorata si alla tradizione ma in grado di rinnovarsi e sperimentare nuove sonorità e nuovi approcci musicali. Il rock, il jazz e il blues hanno contribuito a dare una nuova luce alle ballate e alle canzoni tradizionali, dimostrando che un materiale, pur antico, può e deve avere sempre una nuova vita. 



Tra i numerosi gruppi e musicisti che hanno attraversato la gloriosa stagione del folk rock, tra il 1968 e il 1973, i Trees rivestono un ruolo particolare, lontani dal successo eppure autori di una miscela originale e significativa, con quel loro folk psichedelico, tra la California e le campagne inglesi. Bias Boshell, principale autore, bassista e tastierista, Barry Clarke, chitarra solista, David Costa, chitarra acustica e ritmica, Unwin Brown, batterista, e Celia Humphris, cantante, formano nella primavera del 1969 uno dei tanti gruppi che andrà ad arricchire il folto immaginario inglese, la nuova Arcadia, un paesaggio preindustriale, popolato da esseri fantastici e ricco di melodie e suoni naturali, con le foreste incontaminate e i bardi che narrano leggende d’altri tempi. Da questo punto di vista i Trees non sfuggono all’estetica folky del periodo, e gran parte della loro musica sarà tratta dal patrimonio folkloristico opportunamente riarrangiato, sulla falsa riga di ciò che facevano Fairport, Pentangle e tanti altri. Ma in loro c’è un approccio in parte diverso dagli altri gruppi folk rock. Potremmo quasi dire che l’esperimento Trees coniuga gli ultimi lasciti della rivoluzione pop di entrambe le sponde dell’oceano con il susseguente ripiegamento in ambito “fantasy”, di un immaginario lontano dalla contemporaneità e situato in un passato fiabesco. Da questo punto di vista non avremmo molta difficoltà a leggere come una tendenza comune e omogenea l’Arcadia folk con la Terra del Grigio e Rosa o le copertine di Roger Dean così come le atmosfere barocche dei Gentle Giant o la pastoralità di certi Genesis.

Tuttavia, nei Trees è possibile rintracciare consistenti elementi che contaminano e cambiano di segno le atmosfere e le musiche del repertorio tradizionale da loro arrangiato. Elementi potremmo dire progressivi, che di fatto rimandano spesso alla musica psichedelica, alle lunghe improvvisazioni e ad atmosfere dilatate.

L’esordio è su CBS, The Garden Of Jane Delawney, registrato all’inizio del 1970 e pubblicato il 24 aprile dello stesso anno.  La produzione è di David Howells e di Terry Cox (Caravan, Yes, Family e tanti altri) mentre la copertina è opera dello stesso David Costa, uno stupendo disegno in stile Magritte.  Metà dei brani sono tradizionali, ovviamente riarrangiati, mentre il resto sono a firma di Boshell e il primo brano del disco è opera di tutto il gruppo. L’album è caratterizzato da un alternarsi tra acustico ed elettrico, un aspetto comune a tante altre opere di folk rock. Spesso l’elemento elettrico, sporco, aggressivo, è riservato ad intermezzi che spezzano le composizioni e introducono, per l’appunto, altri territori, dove la chitarra elettrica è protagonista. Alcune volte questa operazione sembra un po’ meccanica, frutto di giustapposizioni, nondimeno il risultato è pregevole e affascinante. Il brano di apertura mostra già gli inequivocabili segni della musica dei Trees, a cavallo tra folk e psichedelia, una ballata attraversata in lungo e largo da una chitarra elettrica dal netto sapore West Coast, a tratti simile al Kaukonen lisergico, anche nel suono oltre che stilisticamente. L’eterea e delicata voce di Humphris, tipicamente folk, è contrappuntata dal solismo di Barry Clarke e rende questa Nothing Special un giusto mix tra energia rock e sapori pastorali. The Great Silkie e Lady Margaret sono esemplificativi del lavoro di arrangiamento che i Trees compiono sul materiale tradizionale. La prima è tratta dal repertorio delle isole Orcadi in Scozia e narra le vicende di un uomo che si trasforma in un animale acquatico soprannaturale. Qui la ballata dolce e appena segnata da leggeri tocchi elettrici si trasforma in una cavalcata psichedelica grazie ad un intermezzo dove le due chitarre soliste intrecciate ricordano atmosfere decisamente acid rock.  La seconda, ballata apparsa in Inghilterra intorno al diciassettesimo secolo e chiamata anche Lady Margaret And Sweet William, ha un inizio alla Fairport, tra chitarre acustiche ed elettriche pulite per poi, anch’essa, irrobustirsi e distorcersi, con una ritmica vivace ed incalzante. She Moved Thro’ The Fair, antica ballata irlandese del Donegal, registrata anche dai Fairport Convention nel loro secondo album, mostra un Bushell virtuosistico, con il suo strumento a disegnare continue linee melodiche, quasi una sorta di Jerry Garcia del basso, e poi un’improvvisazione collettiva coinvolgente ed affascinante, per uno dei migliori brani dell’album. E dai Fairport si passa ai Pentangle, perché Glasgerion altri non è che la Jack Orion del gruppo di Jansch e Renbourn. Una delle 305 tradizionali ballad raccolte da Francis James Child nella seconda metà del diciannovesimo secolo, Glasgerion venne modificata in Jack Orion (con il protagonista della storia che da suonatore d’arpa diventa violinista!) dal folk singer A.L. Lloyd negli anni 60 e quindi poi ulteriormente trasformata dai Pentangle nel loro stupendo Cruel Sister. Qui la versione dei Trees è leggermente più veloce, con cambi di tempo e un’elettrificazione moderata, un andamento tradizionale e una voce non sempre all’altezza, pur se ricca di fascino.  I brani originali di Bushell spaziano dal country rock di Road, con la voce del bassista ad alternarsi con quella della Humphris, alle atmosfere tipicamente folk di Epitaph, contraddistinto da una splendida chitarra arpeggiata, oppure alle suggestioni West Coast di Snail’s Lament, dove il canto della coppia Bushell Humpris ricorda gli impasti vocali dei primi Jefferson Airplane. Menzione speciale la merita la title track, scritta sempre da Bushell, un piccolo gioiello acustico, impreziosito dal dulcimer e con un atmosfera cupa, triste, il giardino di Miss Delawney colmo di sogni gotici e selvagge fantasie.

Il primo album dei Trees non ottiene il successo sperato, pur essendo inequivocabilmente un ottimo disco, ma il gruppo va avanti, suona regolarmente, anche se soprattutto nei circuiti universitari, ed ha il sostegno di importanti dj come John Peel e Pete Drummond (che più tardi sposerà proprio la cantante Celia Humphris). E quindi a fine anno arriva un nuovo album, On The Shore, registrato nell’ottobre del 1970 e pubblicato sempre dalla CBS, con una stupenda copertina frutto del lavoro di Storm Thorgesen, dello studio Hipgnosis.



Questo secondo, e ahimè ultimo lavoro ufficiale dei Trees, è sicuramente più organico, il materiale è ben amalgamato e fluido, la voce della Humphris più intraprendente e i suoni, soprattutto della chitarra elettrica, maggiormente definiti e originali. Ma in generale il gruppo appare più maturo e sicuro delle proprie scelte stilistiche così da dare a On The Shore la peculiarità di piccolo capolavoro discografico, purtroppo misconosciuto. Prodotto sempre da Tony Cox (che appare anche al basso in Sally Free And Easy), il disco si apre con Soldiers Three, una ballata composta da Thomas Ravenscroft nel sedicesimo secolo e ideale introduzione al nuovo lp, con le voci di Bushell e Humphris perfettamente combinate e un intermezzo acustico a spezzare l’andamento energico del brano. Murdoch e While The Iron Is Hot sono gli originali di Bushell, che mostra ancora una volta la sua grande capacità di scrivere sia vibranti e serrati scenari come nel primo caso, oppure struggenti melodie, splendidamente arricchite dagli archi, con al loro interno intermezzi classicamente rock, come nel secondo. Little Sadie, un traditional americano, è un simpatico country rock con la voce di Humphris perfettamente calata nel mondo di Nashville, mentre Geordie, una delle tante antiche ballate raccolte da Francis James Child, è delicata, rilassante, punteggiata da una chitarra elettrica discreta e dal solismo appena accennato. Ma il cuore pulsante di On The Shore è rappresentato dal tradizionale Streets Of Derry, con le chitarre elettriche che dialogano nel lungo finale e il basso di Bushell a sostegno delle improvvisazioni, una lunga suite psichedelica di grande fascino. E da Sally Free   And Easy, del folk singer Cyril Tawney, registrata dal vivo in studio al termine di una lunga giornata e provata solo mezz’ora prima, introdotta da un suggestivo pianoforte che poi lascia spazio alle chitarre acustiche ed alla voce limpida e intensa della Humphris. Sono 10 minuti di un incredibile crescendo con tutti gli strumenti che si rincorrono tra loro a delineare un paesaggio sonoro dilatato, vivido, di una luce sognante. In questi due brani i Trees mostrano la loro straordinaria abilità nell’amalgamare linguaggi differenti e creare un folk psichedelico di grande spessore e qualità. Resta da dire ancora dell’originale Fool, scritto da Bushell e Costa, dalle movenze ipnotiche e decisamente rock, l’acquerello acustico dal sapore medievale Adam’s Toon, scritto dal compositore e poeta francese Adam de la Halle vissuto nel tredicesimo secolo, e la tradizionale Polly On The Shore (conosciuta anche come The Valiant Sailor, popolare sea song apparsa  per la prima volta intorno al 1744 e dagli accenti antimilitaristi) a chiudere, con un’altra suite a forti tinte psichedeliche, un disco semplicemente irresistibile e coinvolgente.


 


 

Nel 1971 il gruppo si scioglie, per poi riformarsi brevemente l’anno successivo con Barry Lions al posto di Bias Boshell e Alun Eden alla batteria in luogo di Unwin Brown, con l’aggiunta al violino di Chuck Fleming. Nulla di ufficiale registrato, a parte un bootleg edito in Italia dalla Hablabel nel 1989 con materiale dal vivo e una copertina certamente non all’altezza dei due precedenti album. Purtroppo, anche la musica non è un granché, lontana dal fascino di On The Shore e The Garden Of Jane Delawney, un onesto folk con velate tinte rockeggianti, per di più di scadente qualità sonora.

Resta un mistero lo scioglimento dopo due dischi di assoluto valore, anche se probabilmente le vendite insufficienti e le recensioni non tutte positive hanno contribuito in maniera consistente alla fine del gruppo, lasciando ad un ultimo vano tentativo con una seconda line up la ricerca di quel successo che altre band dello stesso genere musicale avevano avuto in quel periodo. Successo che arrivò in parte, e postumo purtroppo, nel 2006 grazie al duo soul americano Gnarls Barkley che campionò, per la title track del loro disco St. Elsewhere, la versione dei Trees del traditional Geordie, vendendo milioni di copie.



Lo scorso anno, sorprendentemente, è arrivato un elegante cofanetto di quattro cd, corredato da booklet con foto e storia/storie del gruppo, che comprende i due album, un terzo cd di outtakes e remix e il quarto con delle session live alla BBC, più brani dal vivo suonati al Cafè Oto di Londra nel 2018 da una fantomatica On The Shore Band con i soli David Costa e Bias Boshell della formazione originaria. Un piccolo regalo che non fa che aumentare i rimpianti per una band che avrebbe avuto ancora molto da dire.

A noi rimangono musiche eccezionali che acquistano sempre più fascino nel corso degli anni, frutto di stagioni forse irripetibili e che fanno dei Trees certamente uno dei migliori gruppi non solo di folk rock ma della musica popular.

pop

giovedì 7 gennaio 2021

Weird Tales. Twink, the pink drummer

Le avventure di un batterista underground tra psichedelia e punk

 

Le vicende della musica rock inglese hanno spesso nascosto o messo da parte i personaggi che non rientravano nella trattazione classica, quelli che esulavano dai generi o se ne mantenevano ai margini. Nel racconto emerge sempre un susseguirsi di eventi che sembra stritolare le personalità contrastanti e fluttuanti. Eppure, il nostro Twink (all’anagrafe John Charles Edward Adler), magistrale batterista, cantante, attore, si è trovato nel corso della storia al posto giusto e nel momento giusto, niente da dire su questo. Nella Swingin’ London e nella Londra del punk, all’Ufo club come a Ladbroke Grove o tra le fila della Chiswick Records, la prima indie label britannica.  È stato l’ultimo hippy e allo stesso tempo un punk ante litteram, ma tutto questo invece che portargli gloria ha finito per lasciarlo ai margini, forse volutamente.



Batterista dei Tomorrow, mitico gruppo psichedelico con lo Steve Howe dei futuri Yes nelle fila, artefici di due fra i più popolari singoli della Londra Underground del 1967, My White Bycicle e Revolution, e di un omonimo Lp, Twink poi approda in un’altra grande band della Londra alternativa, i Pretty Things. Ma prima di approdare nel gruppo di Phil May e Dick Taylor forma un duo con l’ex bassista dei Tomorrow John “Junior” Wood chiamato The Aquarian Age e registra un singolo, 10.000 Words In A Cardboard Box/Good Wizard Meets Naughty Wizard, che poi ritroveremo più avanti nella nostra storia. Ma, come dicevamo, Twink, ormai già famoso nei circuiti alternativi, prende il posto di Skip Alan dietro i tamburi dei Pretty Things e registra con loro uno dei capolavori del rock inglese. S.F. Sorrow, pubblicato nel dicembre 1968, è il disco della svolta psichedelica del gruppo basato sulla storia drammatica del protagonista Sebastian F. Sorrow.  Primo concept album che anticipa il Tommy degli Who, purtroppo per il gruppo non riscuote il successo sperato e questo provoca l’abbandono temporaneo del chitarrista Dick Taylor nel giugno del 1969. A questo punto Twink, pur essendo formalmente ancora un membro dei Pretty Things, inizia a pensare in proprio e registra alcuni demo insieme al suo vecchio amico John “Junior” Wood e a Steve “Peregrin” Took dei Tyrannosaurus Rex di Marc Bolan. La Sire, un’etichetta discografica americana che aveva pubblicato il disco dei Tomorrow negli States, gli offre la possibilità di registrare un album a suo nome e lui, ovviamente, accetta. Il periodo certo non è lo stesso di qualche anno prima, quando una Londra effervescente era il luogo di residenza privilegiato della sperimentazione in tutte le arti, atmosfere vibranti cariche di creatività e ribellione. La psichedelia è ormai defluita nelle retrovie e una certa aria di riflusso pervade sia la società che ovviamente la musica. Nonostante questo Twink si imbarca in un progetto che tenta, con successo va detto, di tenere in vita quel mix di stravaganza, improvvisazione e visionarietà tipico della musica psichedelica e inizia le registrazioni del suo primo disco solista, Think Pink.


L’elenco dei musicisti che collaborano alla realizzazione del disco è significativo e anticipa anche gli sviluppi futuri della carriera di Twink. Accanto a Wood e Took ci sono membri dei Pretty Things come Phil May, il chitarrista Vic Unitt, il bassista Wally Allen e il tastierista John Povey. E poi il chitarrista Paul “Blackie” Rundolph, il bassista Duncan “Sandy” Sanderson e l’attivista e agitatore culturale Mick Farren, tutti membri dei Deviants, un gruppo garage rock dalle sonorità sperimentali e protopunk, una sorta di Fugs londinesi.

L’apertura è affidata a The Coming Of The Other One, caratterizzata da voci trattate, chitarre e sitar in sottofondo, in un paesaggio psichedelico vicino a Syd Barrett e con frammenti di un poema di Nostradamus sul Giorno del Giudizio. Il secondo brano è quella Ten Thousand Words In A Cardboard Box del singolo degli Aquarian Age, qui in una versione più psichedelica, con la chitarra di Paul Rudolph che attraversa tutto il brano e nel finale erompe in un assolo acido, allucinogeno, incalzato dalla movimentata ed agile ritmica di Twink e Junior Wood. Dawn Of Magic è un bordone ipnotico e surreale, un mantra colorato, mentre la successiva Tiptoe On The Highest Hill (già nel repertorio degli Aquarian Age) è, probabilmente, l’apice del disco. Una commovente e sognante ballad, con la strabiliante chitarra di Rudolph al contrario, che può benissimo dirsi l’essenza della musica psichedelica. Chiude la prima facciata Fluid, un inizio sexy con una voce femminile in estasi e un lungo e piacevole crescendo fino all’esplosione finale caratterizzata dagli accordi di una chitarra estremamente distorta e l’altra impegnata in brevi ricami psichedelici, con i piatti e le rullate di Twink ad esaltare il tutto.  

La seconda facciata del disco si apre con Mexican Grass War, musica free form elaborata collettivamente in studio, caratterizzata da tamburi di guerra e voci confuse, con la chitarra distorta che trafigge il brano fino ad un parossistico finale. Rock An’ Roll The Joint è una sorta di hard rock blues, dalle parti di Hendrix, mentre Suicide è in puro stile Tomorrow/Pretty Things di S.F.Sorrow, chitarre acustiche, stop and go e la solita atmosfera sognante e fluida. Three Little Piggies vede insieme Syd Barrett e Daevid Allen, una buffa filastrocca tipicamente sixties, un divertissement psichedelico. Chiude il disco The Sparrow Is A Sign, anch’essa composta in studio ma con un contributo particolare di Steve Took, ed è un anomalo e disorientante rock attraversato, al solito, da una grande lavoro di chitarra di Paul Rudolph.



Twink e i suoi compagni, con Think Pink, elaborano un piccolo capolavoro, certo nei suoni leggermente datato ma assolutamente ancora fresco nell’approccio e nello sviluppo di un linguaggio espansivo e sperimentale. Un disco di autentica musica psichedelica, una miscela di pop, rock e improvvisazione free form, con atmosfere dilatate e suoni eterei, melodie sognanti e stravaganze sonore.

Si tratta di quei lavori unici per certi versi, eccentrici e irripetibili che spesso sono poco conosciuti o apprezzati. Potrebbe essere fatto un parallelo con The End Of The Game di Peter Green, tra l’altro uscito nello stesso anno, il 1970, per come viene affrontata la materia musicale, e per il ruolo che riveste l’improvvisazione nella composizione delle musiche, anche se ovviamente il lavoro di Peter Green è innervato completamente di blues.

Come detto Think Pink, con la splendida copertina dello studio Hipgnosis, esce nel 1970 non prima di essere stato rimixato dallo stesso Twink, insieme a Steve Took, perché insoddisfatto del lavoro fatto da Mick Farren, che rivestiva per l’appunto il ruolo di produttore e arrangiatore. Nonostante questi contrasti con il leader dei Deviants, Twink è intenzionato a costituire una nuova band proprio con Mick e Steve Took, una specie di supergruppo composto da ex Pretty Things, Tyrannosaurus Rex e Deviants per l’appunto. È proprio per quest’entusiasmo riguardo il nuovo progetto che il disco solista di Twink praticamente non avrà promozione e verrà dimenticato dallo stesso autore, che lo considererà come una sorta di primo album della nuova formazione, i Pink Fairies.



Dopo un disastroso concerto a Manchester la nuova band finalmente si stabilizza con i vecchi membri dei Deviants Paul Rudolph, Duncan Sunderson, Russell Hunter (una line up con doppia batteria!) ma senza Mick Farren e Steve Took.  Il nome deriva da un locale chiamato Pink Fairies Motorcycle Club And All-Star Rock’n’Roll Band e ricorda la prima band di Twink, quei Fairies con i quali aveva registrato tre singoli intorno alla metà degli anni 60 e che si erano sciolti nel 1967.

A questo punto va avviata una riflessione, certamente breve in questo ambito, su quella corrente sotterranea che ha attraversato i sixties e la prima metà degli anni Settanta e che dalla scena psichedelica londinese, l’Ufo club e il 14 Hour Technicolor Dream, arriva dritta al punk. Una serie di musicisti e musiche che rimangono lontane dallo star system e dalle evoluzioni prog, restando fedeli a quell’approccio spontaneo verso la musica, anche scanzonato. Un intreccio di grezzo e sporco rock‘n’roll con suggestioni e sonorità psichedeliche, dilatate. E che si contrappone all’esasperato virtuosismo, all’esibizionismo delle rock star, in un’ottica ancora legata agli ambienti della controcultura attiva e militante, all’underground alternativo che sommuove la società. Questi musicisti, i Pink Fairies ma anche gli  Hawkwind (collaboreranno spesso insieme e daranno vita, ad un certo punto, ad un gruppo dal nome PinkWind), i Deviants di Mick Farren, Steve Cook, Larry Wallis e altri meno noti sono l’anello di congiunzione tra la controcultura dei sixties e la rivoluzione punk, e terranno in vita l’approccio libertario e hippy alla musica e agli eventi intorno ad essa, come festival, concerti e produzione di dischi. 



Da questo punto di vista il disco d’esordio dei Pink Fairies, Never Never Land, è significativo. Il brano d’apertura, quella Do It uscita anche come singolo (The Snake/ Do It, gennaio 1971, Polydor), è un graffiante inno alla rivolta e il titolo è ripreso dal libro di Jerry Rubin, l’attivista e politico radicale americano amico di Abbie Hoffman (Do It! Scenarios Of The Revolution, uscito nel 1970 e con l’introduzione di Eldridge Cleaver, esponente delle Pantere Nere). Twink ripubblicherà Do It nel febbraio del 1978, in piena era punk, per la Chiswick Records (Do It ‘77/Psychedelic Punkeroo/Enter The Diamonds  12”Ep a nome Twink And The Fairies) e verrà ripreso anche da Henry Rollins, l’ex frontmen dello storico gruppo punk californiano Black Flag, con la sua band nel 1988. Ma tutto il disco è un perfetto alternarsi di energici brani rock e composizioni dilatate, ancorate alla matrice psichedelica. Basterà citare, oltre a Do It, gli ultimi due brani di Never Never Land: la potente ed estesa Uncle Harry’s Last Freakout, cavallo di battaglia del gruppo dal vivo, un mix di grezzo e ruvido rock e lunghi assoli che espandono la composizione in una sorta di viaggio spaziale, mentre il finale è uno splendido brano proprio di Twink, The Dream Is Just Beginning, delicato ed etereo, che ricorda certe atmosfere del David Crosby di If I Could Only Remember My Name.



Il disco uscirà per la Polydor nel maggio del 1971 con una copertina dall’aspetto fantasy, curiosamente molto vicina all’estetica prog ma anche alla mitologia del pianeta Gong. A questo punto i percorsi e le traiettorie si fanno estremamente confuse, tra abbandoni, ritorni, nuovi innesti, collaborazioni, fughe in Marocco (Twink), discografie frammentarie. Giova ricordare, per quanto riguarda Twink, l’effimero progetto con Syd Barrett e l’ex bassista dei Delivery Jack Monck, il trio Stars, che purtroppo, a parte qualche esibizione dal vivo, non riuscì a registrare nulla per le precarie condizioni di Barrett. Ma anche la partecipazione alle registrazioni di quel bizzarro e folle esperimento di Mick Farren, il suo disco solista Mona-The Carnivorous Circle (registrato nel dicembre 1969 e pubblicato nel marzo del 1970), intreccio tra spoken word e stralunato rock, con interviste agli Hell’s Angels e la preziosa presenza di Steve Took.  Poi, nel 1975 una reunion con i Pink Fairies in un bel live alla Roundhouse (Live At The Roundhouse, edito nel 1982 dalla Big Beat). 



Tra innumerevoli partecipazioni e collaborazioni si arriva al 1977, in piena era punk e qui troviamo il nostro Adler, in qualità di cantante, tra le fila dei Rings, insieme ad Alan Lee Shaw e Rod Latter degli Adverts. Con questo gruppo registra uno dei primi singoli punk, I Wanna Be Free, sempre per la Chiswick Records. Ma il gruppo si scioglie e la carriera di John Charles Adler, da questo punto in poi, si fa confusa e il suo Acid Punk, come lui aveva definito la sua musica, non avrà seguito. La storia prosegue sempre più sotterranea, tra registrazioni clandestine e apparizioni come attore in diverse serie televisive inglesi, finché nel 2013 Fabio Porretti e Marco Conti, i Technicolour Dream, uno dei primi gruppi italiani neo psichedelici degli anni 80, tramite Facebook contattano Twink, nel frattempo convertitosi alla religione islamica e con il nuovo nome Mohammed Abdullah. Con lui, e con l’ex chitarrista dei Blossom Toes Brian Godding, registrano You Reached The Stars (al Gulliver Master di Roma e missaggio agli Abbey Road Studios di Londra) seguito poi da Think Pink II, con la partecipazione di John Povey dei Pretty Things (mixato da John Wood!) e da Sympathy For The Beast, sempre con Povey. Tre dischi che riportano in superficie quelle sonorità psichedeliche fatte di melodie estatiche e atmosfere dilatate nel tempo e nello spazio. Come si può facilmente notare, il nostro non ha certo perso la voglia di suonare e di rimanere nell’underground, fedele alla sua storia e alla sua estetica di hippy senza tempo.   E c’è ancora spazio per il terzo e quarto capitolo del suo capolavoro, un Think Pink III assolutamente barrettiano, elettroacustico e sognante, mentre il Think Pink IV accarezza il cosmo e lo space rock tra Hawkwind e Gong, senza far mancare l’energia delle chitarre distorte alla maniera punk. Ancora tanta musica, ancora quella voce evocativa che si perde nei meandri dello spazio, quel suono sconfinato, etereo, incantato.



Riannodando i fili possiamo notare come questo musicista, ai più sconosciuto, sia stato presente in alcuni album di culto della storia del rock, Tomorrow dell’omonimo gruppo, S.F. Sorrow dei Pretty Things e Never Never Land dei Pink Fairies, e in più abbia scritto pagine memorabili a suo nome, come per l’appunto Think Pink. Ma Twink rappresenta quel mondo che ha avuto il suo momento di gloria nella Londra della seconda metà degli anni 60, dove psichedelia, improvvisazione, pop, rock, blues e sperimentazioni varie ribollivano in un unico calderone, dando vita a musiche affatto straordinarie. Un periodo irripetibile che John Charles Adler, insieme a pochi altri, ha tentato di tenere vivo fino all’avvento del punk, trovando in questa ennesima rivoluzione musicale, seppur parzialmente, alcune caratteristiche che lo hanno sempre contraddistinto, prima fra tutte la voglia di suonare liberi, senza far troppo caso alla tecnica o al virtuosismo.  



 

Discografia selezionata

Tomorrow, Tomorrow, Parlophone Records/Sire, 1968

Pretty Things, S.F. Sorrow, Columbia, 1968

Twink, Think Pink, Sire, 1970

Pink Fairies, Never Never Land, Polydor, 1971

Pink Fairies, Live At The Roundhouse, Big Beat, 1982

Pink Fairies, Kill ’Em And Eat ’Em, Demon Records, 1987

Twink And The Technicolour Dream, You Reached For The Stars, Sunbeam Records, 2013

Twink And The Technicolour Dream, Think Pink II, Sunbeam Records, 2015

Twink, Think Pink III, thinkpink50th.com, 2018

Twink, Moths & Locusts, Think Pink IV, Noiseagonymayhem Records, 2019



pop

 

 

 

giovedì 19 marzo 2020

Weird Tales. Il Gioiello di Bennie Maupin!

Wayne Shorter, Joe Zawinul, Chick Corea, Larry Young, John McLaughlin, Dave Holland, Jack DeJohnette, Lenny White...e poi Harvey Brooks, Don Alias e Jumma Santos (alias Jim Riley). Questo è il personale che partecipò alle sessions di Bitches Brew di Miles Davis, uno dei dischi più importanti della musica occidentale, quel prodotto che può benissimo fregiarsi, senza scomporre nessuno, dell'appellativo di capolavoro. Ai più attenti sarà subito saltato agli occhi l'assenza di un musicista in questa lista: Bennie Maupin

La stragrande maggioranza dei nomi su elencati è come se fosse un who's who del jazz, una sorta di elenco di alcuni tra i più importanti musicisti della storia della musica afroamericana. Se si esclude Harvey Brooks, che jazzista non era e comunque, oltre ad aver registrato con Davis suonò anche con Dylan su Highway 61 Revisited e con i Doors di The Soft Parade, e il percussionista Jumma Santos, Bennie Maupin sembra l'unico a non aver avuto la stessa fortuna e carriera capitata agli altri. E' come se l'esplosione creativa propagatasi da quel doppio lp non lo avesse coinvolto pienamente, o in qualche modo lui se ne fosse ritratto, messo di lato dal fecondo vortice, anche commerciale va detto. 
Indubbiamente tutti i musicisti coinvolti in Bitches Brew avevano già una loro carriera, più o meno importante. Ma quel disco li portò alla ribalta negli anni successivi alla sua uscita (30 marzo 1970, Columbia), cambiandone persino le coordinate artistiche e incidendo profondamente sul prosieguo del loro percorso artistico. Tutti, eccetto forse il solo Bennie Maupin
E' vero, anche lui venne trascinato nel gorgo elettrico come componente, anche qui fondamentale, degli Head Hunters di Herbie Hancock e prima ancora, sempre a fianco di Hancock, nei dischi Mwandishi,  Crossings  e Sextant. Ma, per l'appunto, non sono suoi progetti, non sembra esserne volontariamente l'artefice, bensì un collaboratore, seppur importante, dell’ideatore di quei gruppi, cioè Hancock.

Multistrumentista, a suo agio con i sax tenore e soprano, con il flauto e con il clarinetto basso, Maupin è certamente distante dall'altro grande polistrumentista, Eric Dolphy. Dove il secondo è esuberante, angoloso, graffiante e irruento il primo è elegante, a volte soave, morbido e insinuante, si inserisce fra le pieghe dei suoni e costruisce con cura le sue improvvisazioni. Uno è passionale, l'altro è meditativo. Dolphy, pur nella sua breve carriera, ha collaborato con tantissimi musicisti, ha scritto pagine memorabili nella storia della musica afroamericana. Maupin è sicuramente un personaggio di secondo piano, meno incline alle collaborazioni, e con una produzione limitata pur se importante e significativa.
Dicevamo, a proposito dei musicisti di Bitches Brew, delle differenti e importanti carriere precedenti alla realizzazione del disco di Davis. Ecco, Maupin è tra i pochi a non avere alle spalle grosse collaborazioni. Saltuariamente con Horace Silver e Roy Haynes, nel 1967 è nel settetto di Marion Brown con il quale incide il bel disco Juba Lee (mentre nel 1970, sempre a nome di Brown, registrerà Afternoon Of A Georgia Faun, per la ECM), poi lavora abbastanza stabilmente con Lee Morgan registrando Caramba, il Live At Lighthouse e Taru, uscito nel 1980 ma registrato nel 1968. La collaborazione con Morgan lo porta anche a suonare con McCoy Tyner e a registrare Tender Moments, del 1968 e, a dimostrazione comunque delle qualità di Maupin, Together, del 1979, con una line up a dir poco stellare: Stanley Clarke, Jack DeJohnette, Freddie Hubbard, Hubert Laws, Bobby Hutcherson e il percussionista degli Head Hunters Bill Summers.


Su indicazione di DeJohnette, con il quale Maupin aveva registrato The DeJohnette Complex (disco d'esordio del batterista) e successivamente Have You Heard? e Sorcery, e dopo averlo visto dal vivo con McCoy Tyner, Miles Davis chiama il sassofonista per le sessions di Bitches Brew. Maupin si aspettava di dover suonare il sassofono mentre, con sua grande sorpresa, Davis gli chiede di suonare esclusivamente il clarinetto basso (https://www.thelastmiles.com/interviews-bennie-maupin/). Intuizione notevole, a conferma della grande intelligenza e del formidabile intuito di Miles, che caratterizzerà profondamente la musica di quel disco. Non possiamo immaginare Bitches Brew senza quel suono scuro, profondo e inquietante del clarinetto basso di Maupin, un suono che impregna tutta la musica e la rende selvaggia, ancestrale.
George Grella Jr, nel suo bel libro Bitches Brew, edito dalla Minimum Fax lo scorso anno, scrive, a proposito del primo brano del lato B del secondo disco: "Miles Runs The Voodoo Down, inoltre, dimostra quanto Maupin fosse fondamentale per Bitches Brew. Il clarinettista fa ciò che Miles gli ha chiesto di fare, inventarsi qualcosa sotto la linea principale, e se la cava a meraviglia. L'estensione del suo strumento non interferisce con il contrabbasso, tanto cristallina e inventiva è l'esecuzione: è evidente che Maupin ascolta gli altri musicisti con un'attenzione che gli permette di farsi sentire senza pestare i piedi a nessuno. Spesso Holland coglie al volo le sue frasi e le ripete in una sorta di pas de deux improvvisato dietro il solista. Un sublime esempio di interazione di gruppo".

Maupin sarà con Davis anche in altri dischi: A Tribute To Jack Johnson, Big Fun e On The Corner. A riprova dell'importanza del musicista nel progetto elettro funk di Miles.
Il suono caratteristico e l'approccio attento e profondamente relazionale di Bennie Maupin diventa fondamentale anche per Hancock e per il suo sestetto, fondato sulla scia del successo di Bitches Brew e della sua estetica elettrica. Mwandishi, Crossings e Sextant, la trilogia "swahili", sono una sorta di preludio all'esplosione commerciale degli Head Hunters, dove Maupin è l'unico componente del precedente gruppo rimasto a fianco di Hancock.



A questo punto, diventato abbastanza noto e caratterizzatosi come polistrumentista efficace e artefice del suono fusion, jazz funk, che va ormai per la maggiore, Maupin decide che è giunto il momento di registrare il primo album a suo nome, The Jewel In The Lotus, pubblicato dalla ECM nel 1974.
E qui ci troviamo di fronte ad un lavoro sorprendente, unico e mai più eguagliato. Un piccolo gioiello (The Jewel per l'appunto) anomalo, che getta una luce differente su Bennie Maupin.
I musicisti coinvolti sono quasi tutti del giro Mwandishi/Head Hunters: ovviamente Hancock al piano acustico ed elettrico, Buster Williams al basso, Bill Summers alle percussioni, Billy Hart alla batteria. E poi, potremmo definirli così, due outsider: Frederick Waits, altro batterista, a fianco di McCoy Tyner, Andrew Hill, in Karma di Pharoah Sanders e con Marion Brown in Back To Paris del 1980, mentre alla tromba, in soli due brani, c'è Charles Sullivan, battitore libero a fianco di Kenny Baron, Sonny Fortune Yusef Lateef tra gli altri.


Chi si aspettava di ritrovare le sonorità elettriche, i groove e i ritmi funk caratteristici delle frequentazioni di Maupin rimane completamente spiazzato. E' un lavoro che parla al futuro, e quindi al nostro presente, che illumina per la sua creatività e compostezza allo stesso tempo. Soprattutto è un disco corale, dove il leader non sovrasta ma coordina e organizza l'intero lavoro, facendo emergere un suono collettivo, dove non conta il solista ma l'espressione comune e la relazionalità. 
Altra particolarità: le due batterie, su due canali differenti, e le percussioni non lavorano sul groove,  ma colorano incessantemente la musica, la contrappuntano, ne sottolineano alcuni passaggi, fanno spesso da tappeto sonoro. C'è uno spazio dilatato, disteso, un respiro ampio che avvolge l'ascoltatore. 

Ensenada, il primo brano del disco, ha un'atmosfera pastorale , con il flauto accompagnato dal piano acustico che disegna larghe melodie e batterie e percussioni a colorare e tinteggiare delicatamente il brano. Mappo è più misterioso, con un inizio orientaleggiante del flauto, nel mezzo un breve accenno di ritmo regolare e le batterie che lavorano quasi esclusivamente sui piatti, per poi lasciare spazio, nel finale, alle scorribande al piano di Hancock che inquietano il mood del brano, inscuriscono e ispessiscono la composizione in un crescendo maestoso e atonale, per poi concludersi con pochi accordi di piano e la melodia iniziale del flauto. 
Ci sono due brevi intermezzi, Past + Present = Future e Winds Of Change, poetici e rilassanti, poche note, linee orientali,  piano e flauto nel primo brano, il secondo solo fiati. 
Excursion è introdotta dalla voce di Maupin filtrata, mescolata a suoni scuri, con un ottavino in lontananza e il contrabbasso che emerge con poche note. Poi giungono clarinetto basso e piano in un crescendo angosciante, un magma sonoro con la tromba sordinata che scandisce poche note. Le strappate e poi le urla del clarinetto basso ci portano in un vortice scuro, fatto di grida e frammenti pianistici per poi, dolcemente, adagiarsi e concludere. 
L'inizio di The Jewel In The Lotus, la title track, con piano elettrico e sax soprano sembra riportarci alla trilogia "swahili", ma è un'illusione, il groove non arriva, si rimane in uno spazio etereo, distensivo, con batterie e percussioni ad avvolgere il brano. In Songs For Tracie Dixon Summers c'è spazio per un'affascinante introduzione di contrabbasso, in splendida solitudine, e poi l'arrivo del sax soprano che tratteggia una larga e commovente  melodia sostenuta dal piano e, al solito, un contrappunto di batterie e percussioni. 
Il finale del disco è affidato a Past Is Past, un clarinetto basso suonato sulle note alte ed un elegante  pianoforte acustico: una conclusione struggente ed evocativa per un lavoro incantevole. 


Dicevamo dell'anomalia e dell'unicità di questo disco perché, nel frattempo, Maupin suona e registra tutt'altro. E' presente in molti lavori di Eddie Henderson, trombettista nei Mwandishi di Hancock e autore di una fusion abbastanza commerciale. Lo stesso Maupin pubblica a suo nome, nel 1977 e nel 1978, per la Mercury, due dischi assai lontani dalle atmosfere e dalla bellezza di The Jewel In The Lotus. Slow Traffic To The Right e Moonscapes, entrambi prodotti da Pat Gleeson, al synth su Crossing e Sextant di Hancock, sono due classici lavori di elegante funk, sulla scia degli Head Hunters. Intriganti groove, atmosfere compassate, ritmi ballabili, tutto molto lontano dal "gioiello nel loto". 

Di lui non si hanno più molte notizie fino agli anni 2000. Riappare sulle scene con Penumbra, a capo di un ensemble con alla batteria Michael Stephans, al contrabbasso il polacco Darek Oleszkiewicz e alle percussioni Daryl Munyungo Jackson. Composizioni registrate nel 2003 e pubblicate dalla Cryptogramophone nel 2006, Penumbra è anch'esso disco particolare, lontanissimo dal periodo funk e con atmosfere e suggestioni per alcuni versi vicine al suo primo disco solista. Non c'è uno strumento armonico e la musica, scarna e primitiva, è ricca di ritmi sotterranei, di sapore afro, con i fiati di Maupin a disegnare anomale melodie ed eleganti improvvisazioni, una narrazione morbida e  ben costruita. 
Nel 2008, sempre per la stessa etichetta, esce a nome Bennie Maupin Quartet, Early Reflections. A capo di una formazione di musicisti polacchi, Michal Tokaj al piano, Michal Baranski al contrabbasso, Lukasz Zyta alla batteria e percussioni, e in soli due brani la voce di Hania Chowaniek-Rybka, Maupin pubblica un disco certamente meno interessante di Penumbra. Il suono è sempre caldo, soprattutto al clarinetto basso, le note cercate e suonate con cura, le improvvisazioni hanno il carattere di piccoli racconti, ma il tono generale è un po' banale, forse troppo soft e alla ricerca della magia del Gioiello. Che purtroppo non arriva, e forse è giusto che sia così, che quel disco rimanga un prezioso ed unico lavoro custodito nel fiore di Loto, affascinante per la sua forma e il suo profumo.

Om Mani Padme Hum. Tra i più diffusi mantra del buddhismo tibetano, viene tradotto come Il Gioiello Nel Fiore Di Loto, o meglio ancora Gioiello Del Loto. Uno dei significati più noti è la collocazione del Gioiello, simbolo di amore illimitato verso tutti gli esseri e profondo desiderio di liberarli dalla sofferenza, nel Loto, simbolo della coscienza umana.


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