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giovedì 7 aprile 2022

Il caro nemico Spotify



Premessa d'obbligo: l'attuale sistema di ripartizioni praticato da Spotify è disgustoso. Pochi centesimi elargiti agli artisti che sono responsabili dell'opera d'arte, in questo caso musicale, sono un insulto alla ragione e uno dei tratti più ingiusti di questo nuovo capitalismo delle piattaforme. 

Andiamo avanti. Sono un abbonato a Spotify e lo utilizzo quotidianamente, ascoltando con cura vecchi album e novità, alla ricerca di musiche che in parte già conosco o apprezzo, oppure perlustrando territori a me ignoti, con curiosità e passione. Allo stesso tempo posso dire di non aver per nulla cessato di acquistare cd (anche lp), anzi: credo di aver aumentato la quantità di musica "solida" da quando frequento Spotify. E, per rincarare la dose, sono musicista e scrivo musica e di musica. 

Come la mettiamo? Lo spunto per questa riflessione mi è venuto dall'editoriale di qualche mese fa del direttore della rivista musicale Blow Up che, nei suoi consueti accenti un po' provocatori, indica la piattaforma musicale svedese a nemico pubblico numero uno dei musicisti. L'accusa principale è quella di permettere al potenziale acquirente di musica di "provare" il suo futuro acquisto e quindi decidere, nel caso non fosse soddisfatto, di non comprarlo. Oppure il contrario ovviamente. Ciò sarebbe profondamente ingiusto perché si perderebbe uno degli elementi fondamentali del commercio, cioè il rischio. E inoltre non si darebbe più quella fiducia al giornalista/recensore che per tanto tempo ha rappresentato la guida agli acquisti per la stragrande maggioranza degli ascoltatori. 

La questione, onestamente, mi sembra un po' più complessa e non aiuta certo paragonare il cd, prodotto sì commerciale ma anche (o soprattutto) materiale culturale, con il prodotto enogastronomico per eccellenza, la pizza, adducendo il fatto che nessuno si sognerebbe mai di volerla provare prima di acquistarne e poi mangiarne una. Così è più o meno come la mette Stefano Isidoro Bianchi.  

Io credo che uno degli elementi importanti per il nostro ragionamento sia proprio quell'ambiguità che percorre tutto ciò che veicola cultura: musica, letteratura, mostre, cinema, serie tv, anche prodotti televisivi. Ciò che l'artista produce entra nel sistema capitalista in qualità di prodotto commerciale, ma mantiene forte la caratteristica di elemento culturale, di veicolo di idee, suoni, visioni, che arricchiscono l'essere umano e anzi ne diventano elemento fondamentale per la crescita sociale, soprattutto in questi tempi cupi, colmi di contraddizioni e difficili problematiche e perciò preda di semplificazioni populiste, di messaggi rassicuranti e semplici, quando la realtà semplice non è.  

Al netto delle storture che una piattaforma digitale come Spotify crea, credo non sia banale affermare che essa stessa permette la fruizione di qualsiasi tipo di musica, consentendo all'ascoltatore la conoscenza o l'approfondimento di prodotti culturali a lui prima preclusi per evidente mancanza di potere d'acquisto. Non sono soltanto i giovani, ma anche i semplici stipendiati, a non potersi certo permettere l'acquisto di decine di cd al mese e poi libri, cinema, teatro, mostre. Questa impossibilità ovviamente limita la nostra fruizione culturale e di questi tempi a me sembra abbastanza grave, oltreché pericoloso. Mi si dirà che questa facilità nel fruire musica ha portato a quell'ascolto superficiale, approssimativo, compulsivo. Certo, può essere vero, ma non è detto sia sempre così. Penso che a questo debbano porre rimedio le istituzioni formative e, lo dico con piacere, le riviste culturali, i web magazines. Individuando nuove traiettorie, ponendo gli accenti su discorsi complessivi e critiche ragionate e stimolanti. Insomma, non si chiede più la recensione che riassume, spesso con confusione, lo stile e gli accostamenti di quel gruppo o di  quel musicista. C'è bisogno di più riflessione, di più competenza, di maggiori collegamenti e di critiche sensate. Non è più il caso di scrivere che quel disco suona un po' jazz solo perché c'è un sassofono, oppure che ha sonorità hard rock perché c'è una chitarra distorta. 

Ancora alcune cose. E' paradossale che mi si chieda di dovermi fidare delle scelte di uno o più giornalisti quando ormai ogni rivista pubblica tra le 200 e 300 recensioni dei gruppi e dei musicisti più vari, incasellandoli più o meno all'interno di etichette prestabilite. La crescita culturale deve avvenire a trecentosessanta gradi, non limitata ai generi usuali (tra l'altro in molti casi in via di superamento) o a quel determinato giornalista. Abbiamo bisogno di espandere i nostri confini, culturali e materiali, e all'interno di un sistema come il nostro, basato sul denaro, sul prodotto commerciale, questa esigenza viene fortemente limitata proprio dal mercato.  

Ma come la mettiamo con i musicisti? Ovviamente è necessaria una battaglia nei confronti di Spotify affinché i compensi siano maggiori, cercando di alleviare questo tipo di sfruttamento culturale. Ma non facciamoci illusioni. Si potrà fare ben poco. Allora è indispensabile trovare altre soluzioni. Il fatto che la musica "solida" abbia perso quell'importanza che ha avuto per circa un secolo, non è detto che sia un male. E, vista la crescita degli acquisti di lp, non sono certo così definitive le tendenze. Ma, come musicisti, dovremmo prendere atto di modificazioni e cambiamenti avvenuti. La possibilità di produrre materiale culturale è nettamente maggiore rispetto al passato e anche se questo provoca un affollamento di produzioni con conseguente abbassamento della qualità generale, nondimeno credo che alla fine sia una tendenza positiva. Questa enorme quantità di materiale prodotto e le possibilità di fruirne con più facilità ha finito con il dare maggior peso all'evento live. E questo non è certo un male. Pessima invece è la possibilità che viene offerta ai musicisti  (e non solo, ovviamente) su questo versante, soprattutto in Italia. 

Quindi, una battaglia che il settore cultura nel suo complesso dovrebbe portare avanti con convinzione e con forza è quella di avere fondi stabili, sovvenzioni, luoghi e spazi dove poter produrre e fornire cultura. Insomma circuiti fecondi che permettano all'artista di esibirsi e al pubblico di assistere, spostando l'accento dal prodotto "solido" all'evento, alla performance, allo spettacolo dal vivo, al dibattito e alle presentazioni. Solo così potremmo aggirare, o eludere in parte, lo sfruttamento delle piattaforme e dare un diverso senso e significato alla produzione culturale. 

Ovviamente, la mia posizione non è granitica e continuo a riflettere e a cercare di immaginare un sistema diverso, che non guardi solo al passato. 


pop 


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