Premessa d'obbligo: l'attuale sistema di ripartizioni praticato da Spotify è disgustoso. Pochi centesimi elargiti agli artisti che sono responsabili dell'opera d'arte, in questo caso musicale, sono un insulto alla ragione e uno dei tratti più ingiusti di questo nuovo capitalismo delle piattaforme.
Andiamo avanti. Sono un abbonato a Spotify e lo utilizzo quotidianamente, ascoltando con cura vecchi album e novità, alla ricerca di musiche che in parte già conosco o apprezzo, oppure perlustrando territori a me ignoti, con curiosità e passione. Allo stesso tempo posso dire di non aver per nulla cessato di acquistare cd (anche lp), anzi: credo di aver aumentato la quantità di musica "solida" da quando frequento Spotify. E, per rincarare la dose, sono musicista e scrivo musica e di musica.
Come la mettiamo? Lo spunto per questa riflessione mi è venuto dall'editoriale di qualche mese fa del direttore della rivista musicale Blow Up che, nei suoi consueti accenti un po' provocatori, indica la piattaforma musicale svedese a nemico pubblico numero uno dei musicisti. L'accusa principale è quella di permettere al potenziale acquirente di musica di "provare" il suo futuro acquisto e quindi decidere, nel caso non fosse soddisfatto, di non comprarlo. Oppure il contrario ovviamente. Ciò sarebbe profondamente ingiusto perché si perderebbe uno degli elementi fondamentali del commercio, cioè il rischio. E inoltre non si darebbe più quella fiducia al giornalista/recensore che per tanto tempo ha rappresentato la guida agli acquisti per la stragrande maggioranza degli ascoltatori.
La questione, onestamente, mi sembra un po' più complessa e non aiuta certo paragonare il cd, prodotto sì commerciale ma anche (o soprattutto) materiale culturale, con il prodotto enogastronomico per eccellenza, la pizza, adducendo il fatto che nessuno si sognerebbe mai di volerla provare prima di acquistarne e poi mangiarne una. Così è più o meno come la mette Stefano Isidoro Bianchi.
Io credo che uno degli elementi importanti per il nostro ragionamento sia proprio quell'ambiguità che percorre tutto ciò che veicola cultura: musica, letteratura, mostre, cinema, serie tv, anche prodotti televisivi. Ciò che l'artista produce entra nel sistema capitalista in qualità di prodotto commerciale, ma mantiene forte la caratteristica di elemento culturale, di veicolo di idee, suoni, visioni, che arricchiscono l'essere umano e anzi ne diventano elemento fondamentale per la crescita sociale, soprattutto in questi tempi cupi, colmi di contraddizioni e difficili problematiche e perciò preda di semplificazioni populiste, di messaggi rassicuranti e semplici, quando la realtà semplice non è.
Al netto delle storture che una piattaforma digitale come Spotify crea, credo non sia banale affermare che essa stessa permette la fruizione di qualsiasi tipo di musica, consentendo all'ascoltatore la conoscenza o l'approfondimento di prodotti culturali a lui prima preclusi per evidente mancanza di potere d'acquisto. Non sono soltanto i giovani, ma anche i semplici stipendiati, a non potersi certo permettere l'acquisto di decine di cd al mese e poi libri, cinema, teatro, mostre. Questa impossibilità ovviamente limita la nostra fruizione culturale e di questi tempi a me sembra abbastanza grave, oltreché pericoloso. Mi si dirà che questa facilità nel fruire musica ha portato a quell'ascolto superficiale, approssimativo, compulsivo. Certo, può essere vero, ma non è detto sia sempre così. Penso che a questo debbano porre rimedio le istituzioni formative e, lo dico con piacere, le riviste culturali, i web magazines. Individuando nuove traiettorie, ponendo gli accenti su discorsi complessivi e critiche ragionate e stimolanti. Insomma, non si chiede più la recensione che riassume, spesso con confusione, lo stile e gli accostamenti di quel gruppo o di quel musicista. C'è bisogno di più riflessione, di più competenza, di maggiori collegamenti e di critiche sensate. Non è più il caso di scrivere che quel disco suona un po' jazz solo perché c'è un sassofono, oppure che ha sonorità hard rock perché c'è una chitarra distorta.
Ancora alcune cose. E' paradossale che mi si chieda di dovermi fidare delle scelte di uno o più giornalisti quando ormai ogni rivista pubblica tra le 200 e 300 recensioni dei gruppi e dei musicisti più vari, incasellandoli più o meno all'interno di etichette prestabilite. La crescita culturale deve avvenire a trecentosessanta gradi, non limitata ai generi usuali (tra l'altro in molti casi in via di superamento) o a quel determinato giornalista. Abbiamo bisogno di espandere i nostri confini, culturali e materiali, e all'interno di un sistema come il nostro, basato sul denaro, sul prodotto commerciale, questa esigenza viene fortemente limitata proprio dal mercato.
Ma come la mettiamo con i musicisti? Ovviamente è necessaria una battaglia nei confronti di Spotify affinché i compensi siano maggiori, cercando di alleviare questo tipo di sfruttamento culturale. Ma non facciamoci illusioni. Si potrà fare ben poco. Allora è indispensabile trovare altre soluzioni. Il fatto che la musica "solida" abbia perso quell'importanza che ha avuto per circa un secolo, non è detto che sia un male. E, vista la crescita degli acquisti di lp, non sono certo così definitive le tendenze. Ma, come musicisti, dovremmo prendere atto di modificazioni e cambiamenti avvenuti. La possibilità di produrre materiale culturale è nettamente maggiore rispetto al passato e anche se questo provoca un affollamento di produzioni con conseguente abbassamento della qualità generale, nondimeno credo che alla fine sia una tendenza positiva. Questa enorme quantità di materiale prodotto e le possibilità di fruirne con più facilità ha finito con il dare maggior peso all'evento live. E questo non è certo un male. Pessima invece è la possibilità che viene offerta ai musicisti (e non solo, ovviamente) su questo versante, soprattutto in Italia.
Quindi, una battaglia che il settore cultura nel suo complesso dovrebbe portare avanti con convinzione e con forza è quella di avere fondi stabili, sovvenzioni, luoghi e spazi dove poter produrre e fornire cultura. Insomma circuiti fecondi che permettano all'artista di esibirsi e al pubblico di assistere, spostando l'accento dal prodotto "solido" all'evento, alla performance, allo spettacolo dal vivo, al dibattito e alle presentazioni. Solo così potremmo aggirare, o eludere in parte, lo sfruttamento delle piattaforme e dare un diverso senso e significato alla produzione culturale.
Ovviamente, la mia posizione non è granitica e continuo a riflettere e a cercare di immaginare un sistema diverso, che non guardi solo al passato.
pop
Provo a dare un contributo pur non essendo un esperto che produce musica o arte e poco la compra eppure mi riguarda perché tutti i viventi e tanto più gli umani sono messaggio, creatività, eloquenza. Oltre all'istinto di sopravvivenza sono questi gli aspetti che ci connotano; esattamente da qui si manifesta e si legge il mondo.
RispondiEliminaUna complessità nella quale certo le mie parole (messaggio) contano meno di un infinitesimo però continuo in quanto comunque, volendo o meno, non facciamo che esprimerci, sempre. Tante cose negli ultimi decenni sono cambiate e, appunto, siccome nei fatti del pianeta Terra c’è un reciproco incessante travaso nei modi della comunicazione pure la “questione Spotify” va inquadrata in questi mutamenti. La cesoia, il discrimine, è l’opera d’arte nell'epoca della riproducibilità tecnica come spiega nel saggio imprescindibile Walter Benjamin negli anni Trenta.
Fotografia e poi film, grammofono e poi disco, mutano il mondo già a inizio XX secolo, sostenuti da elettricità radiofonia e telefono. Poi, dagli anni ’50 sulla spinta della guerre mondiali finite (mai smesse localmente o per procura e… chissà ora) s’impenna la società dei giovani, quella di vacanze e viaggi, quella dei consumi e quindi di commerci e finanza e, decisamente, quella delle comunicazioni. Il tutto sulle ali della demografia che sale quasi esponenziale: si era 2,5 miliardi nel 1950; 3,5 nel 1968; 5 nel 1987 e nel 2022 abbiamo toccato gli 8 miliardi - salvo disastri ambientali o nucleari nel 2050 saremo, saranno temo, 10 miliardi.
Da quel 1950 insomma, metà del secolo scorso, oltre che assai aumentati siamo “tecnicamente cambiati” e molti cambiamenti incidono con tendenza logaritmica.
La tecnica ci è sempre servita per affrontare sostenere e perfino voler primeggiare sulla natura. Il fuoco, la leva e la ruota sono alcuni di quei primi lieviti perenni che affiancati al linguaggio e ai numeri una volta immessi fermentano inarrestabili. Un’evoluzione non sempre giusta o positiva, non è la sede per tentare tali difficili pareri, eppure indubitabile e che certo investe anche ogni arte: messaggio dei messaggi.
Arrivando alla questione un paio di aspetti andrebbero accennati. La faccenda, diciamo, delle royalty, dei diritti d’autore, è basilare anche se non è detto debba essere legata solo a singoli oggetti artistici o autori, nel senso che si potrebbe pensare a investimenti stabili a fondo “perduto”, come avviene con la ricerca scientifica (e quella intellettuale). Riconoscere, gratificare, stimolare anche la ricerca artistica, in un pianeta sempre in divenire, significa dargli voce. È strano ma nel terribile aggrovigliatissimo frastuono umano senza arte si brancola muti e ciechi; e pure per arrivare a tale consapevolezza va intrapreso un percorso.
RispondiEliminaLa musica si continua a fare, anzi con maggiore facilità come giustamente è detto in questo blog, ma perché fino a 30 anni fa tutti ascoltavamo i grandi e gli emergenti di rock, pop e del cantautorato? Come mai anche i Miles Davis e i Louis Armstrong li sentivamo tutti e oggi non più, sebbene certo ce ne saranno di nuovi?
Perché soprattutto è cambiata la tecnica di fruizione, ora è un’esperienza parcellizzata e personalizzata, ognuno ha sue modalità e orari, prima si ascoltava solo dalle radio e dalle Tv. Mi rivolgo evidentemente alle novità o alle proposte rare in quanto già dischi e audiocassette davano diversificazione d’ascolto. A proposito e per inciso, spesso anche gli ascolti radiofonici erano assaggi quasi alla Spotify: un solo brano preso da un album, pezzi sfumati e spezzoni in sottofondo, in sigle o in jingle. Differente d’altronde ora è anche produzione e distribuzione ed è chiaro che le grandi major e i grossi network non puntano alla ricerca della qualità ma alla quantità. Ecco che entra in gioco l’aumento demografico, la facilità tecnologica e la globalizzazione. Le leggi di mercato vanno verso altissimi ascolti e click, così se aumentano le persone che sentono sempre le stesse musiche “sicure” agli investitori va benissimo. Maggiori utenze, raggiunte e fidelizzate in mille modi anche scadenti e facili, fossero barzellette, gossip, prediche, cagnolini, sport, tragedie o scontri di pensiero (un parolone), diventano maggiori pubblicità, brand, lobby, sponsor, soldi. Sulla musica invece non conviene rischiare e nemmeno spingere sulla critica e l’educazione musicale, tant’è che musicologi ed esperti sono diluiti nel mare magnum liberalizzato e non remunerato dei like, dei voti e delle recensioni fai da te. Conviene investire soldi ed energie solo per musica che viene da canali collaudati e ben preparati; per i filoni di ricerca, tendenza o underground ci sono meandri di vettori come appunto MFlow, Pandora, Apple, Amazon e appunto Spotify, che comunque lavorano su numeri giganteschi di utenti. Queste aziende hanno una bibbia intitolata quantità: un’enorme banca dati di materiali per uno smisurato bacino di clienti che danno utili pure versando pochi centesimi. I costi fiscali e operativi di siffatte aziende, alquanto immateriali, sono contenuti e soprattutto ben prevedibili e per rafforzarsi possono immettere un campionario di servizi personalizzati: play-list, cronologie, formati di acquisizione, link di rating, di correlazione, d’informazione e quant'altro. È inevitabile l’aggancio a un tema che mi risulta caro all'analisi di Pop, la falsa relazione col “tu” a dare valore al singolo individuo, distinto dalla massa e perciò speciale e importante. Proprio i guru della pubblicità e del marketing che convogliano sulla moltitudine tutto, proprio tutto, dal prodotto al voto, dalle armi ai sentimenti, dai social all'ambiente per fare consenso, cioè non solo soldi ma anche potere, ti dicono che si rivolgono e sono interessati a te, e magari noi, inseriti tra quei miliardi di “te”, ci crediamo pure.
Tuttavia bisogna pure dar conto di alcune migliorie della tecnica globalizzata. Ci parliamo o ci vediamo in video in tutto il mondo in qualunque momento a costi irrisori. Ci scambiamo documenti file e programmi, anche per fare arte, in modo quasi gratis e istantaneo. Possiamo disporre di cataloghi, archivi, testi, traduzioni, mappe immagini e informazioni. Ci arriva merce anche di nicchia in poche ore ed è molto più agevole per noi stessi spostarci. Va detto poi che in molte zone del mondo, specie fuori dalla vecchia Europa, è cresciuta la possibilità d’accesso a queste e altre risorse. Insomma, sono entrati nell'odierno lucente circo miliardi di persone da luoghi popolatissimi come l’Est asiatico o le megalopoli d’America latina, così come da ogni parte sparuta e finora emarginata.
RispondiEliminaTali aumentate prossimità ovviamente hanno inflazionato la conoscenza e ne è derivata una svalutazione produttiva (insieme alla menzionata disgregazione ricettiva) per la quale sono davvero necessarie guide critiche, sapienziali, che esistono ma anch’esse stanno in un insieme troppo liberalizzato oltre che sbiadito e pertanto sono celate.
Perciò la parte più importante del blog al quale rispondo è proprio la conclusione, laddove si insiste sul bisogno di fondi e strutture (e scuole, in senso greco del termine) stabili. Aggiungerei con ausilio della stessa tecnica, ormai terreno inevitabile per ogni confronto. In sinergia con sovvenzioni a istituzioni fisiche in presenza per le performance live e di laboratorio, fare condivisioni e partecipazioni su App e on-line per una sorta di duttile sindacato di artisti, insegnanti e artigiani della musica. Un rinnovato FUS che funga anche da riferimento e aspirazione per chi è interessato alle creatività musicali. Ovvio che simili soggetti se benfatti, corposi, addirittura internazionali, possono arrivare a condizionare pure piattaforme alla Spotify. Questi ultimi sono soggetti economici saldi perché pronti ad adattarsi se non riescono a influenzare. Adesso le aziende più ricche al mondo non producono auto grano o petrolio ma sono le Big-Tech; le onde di mercato le inventano oppure le cavalcano, non le subiscono.
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RispondiEliminaÈ urgente, concludendo, lavorare sulla dispersione di produzione, fruizione e critica artistica perché, di fatto, ne emerge una perdita di creatività che dilaga in un analfabetismo estetico di ritorno. I numerosi sintomi sono palesi, si procede troppo per asciutti messaggi in serie (Meme, Emoticon, Post…), oppure sono riproposti all’infinito i soliti classici dopo averli liofilizzati. Una faccenda seria che ci cambia verso un’umanità futura (se sopravvive a clima e guerre) di automi immessi in un ciclo di lavoro-consumo-passatempo-regole.
RispondiEliminaNon è detto che sia una società peggiore dell’attuale. Almeno secondo alcuni un mondo senza troppi fronzoli, senza tante diversificazioni di aspirazione e di comportamento, potrebbe funzionare meglio.
Di certo non secondo lo scrivente, un vecchio inguarito border-line, che ci vede nientemeno che il progetto nazista. Un progetto comunitario di belli, operosi, integrati e tutti uguali ( anche se ognuno, usando il “tu” e il “tuo”, si sente speciale) e dove le eventuali o inevitabili diversità hanno ruolo subalterno di forza lavoro controllata, anzi programmata, pure nel tasso di crescita. Per contro la visione socialista, insieme alla proprietà collettiva dei mezzi produttivi, prevede (almeno spero) ancora un mondo di uguali però nelle diversità di competenze, orientamenti, intenti, capacità e difficoltà di tutti con pari dignità.