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venerdì 29 aprile 2022

Recensioni. King Crimson "Lizard"


 

King Crimson

LIZARD

Island Records, 1970

Dopo l’abbandono di Michael GilesIan McDonald e Greg Lake i King Crimson, pur reduci dal successo del loro secondo lavoro, IN THE WAKE OF POSEIDON, si trovano in una fase di estrema difficoltà. Robert Fripp e Peter Sinfield decidono comunque di continuare e reclutano a tempo pieno Gordon Haskell, basso e voce, e Andy McCulloch, batterista dei  The Shy LimbsHaskell, amico di scuola di Fripp, aveva già partecipato alle registrazioni di IN THE WAKE OF POSEIDON, così come il fiatista Mel Collins, al quale viene offerta l’opportunità di essere un membro permanente dei nuovi King Crimson Così stabilizzata la formazione, anche se con una sezione ritmica poco convinta del progetto, il gruppo entra in sala per registrare LIZARD. Come per l’album precedente anche in questo caso viene coinvolto il pianista jazz Keith Tippett e, con lui, una parte della sua sezione fiati, Marc Charig alla cornetta e Nick Evans al trombone, più l’oboista Robin Miller. Il lavoro risente ovviamente del difficile periodo di transizione della band, ma nonostante questo LIZARD è un disco affascinante e complesso, con calibrate aperture jazzistiche e improvvisative, unite a interludi sinfonici, sperimentazioni e momenti classicamente rock. Lady Of The Dance Water è una tipica ballata crimsoniana, sulla scia di I Talk To The Wind e Cadence And Cascade, mentre l’apertura del disco, Cirkus, offre un Fripp sensazionale alla chitarra acustica e un bel solo di Mel Collins al sax. Indoor Games, dall’andamento contorto, è un rock caracollante con incisive inserzioni di fiati, mentre Happy Family, dedicata allo scioglimento dei Beatles, ha un sapore jazz rock. La seconda facciata è interamente occupata dalla lunga suite Lizard, e si apre con la bella voce di Jon Anderson, degli Yes. Le varie sezioni offrono un ampio spettro sonoro: la musica passa da atmosfere sperimentali a oscure melodie suonate dal corno inglese, da improvvisazioni free ad aperture prog, confermando la varietà di influenze, di sapori e di soluzioni che i King Crimson hanno sempre offerto. LIZARD viene pubblicato l’11 dicembre del 1970, ma a novembre, dopo soli tre giorni di prove per allestire il live, Gordon Haskell se n’era già andato e dopo di lui anche McCollock. E per i King Crimson di FrippSinfield e Collins è già tempo di riorganizzarsi.


pop

domenica 24 aprile 2022

Recensioni. Art Bears "Winter Songs"


Art Bears

WINTER SONGS
Recommended 1979




 

Dopo aver pubblicato HOPES AND FEARS, e scioltisi definitivamente gli Henry Cow, gli Art Bears di Dagmar KrauseFred Frith e Chris Cutler entrano in studio per registrare il loro secondo lavoro, WINTER SONGS. In realtà possiamo considerare quest’ultimo come il loro vero e proprio primo album perché registrato solo in trio e senza più la presenza  del gruppo madre, appunto gli Henry Cow. Il disco è ispirato alla facciata della cattedrale di Amiens e gran parte dei brani ne descrive alcuni bassorilievi. Pur non essendo propriamente un concept, le musiche di Frith, i testi di Cutler e la stupenda e teatrale voce di Krause ci accompagnano in una sorta di visita alla cattedrale con evidenti implicazioni filosofiche e politiche. E’ un disco di canzoni ma qui la struttura è trattata in modo radicale pur non rinunciando ad evidenti e suggestivi momenti di cantabilità. 
L’inizio inquietante, con organo e voci sovrapposte, ci introduce immediatamente alle atmosfere prevalenti dell’intero album: atonalità, spazi, spigolosità, aree melodiche all’interno di estetiche prog. Le 14 canzoni alternano elementi dissonanti a richiami agresti conturbanti, con The Skeleton che approccia una danza funerea in 6/8 o la splendida melodia di The Hermit caratterizzata da una chitarra acustica che ricorda le delicate atmosfere del folk inglese. Lo spazio scuro e tenebroso di Gold fa da contrasto al ritmo regolare e dal sapore jazz rock di The Summer Wheel, fino ad arrivare al commiato triste e sussurrato di Three Wheels. Il disco è stato registrato nello studio Sunrise di Etienne Conod e l’impostazione e la configurazione dei suoni è stata stabilita prima della registrazione senza effettuare nessun lavoro di post produzione.  Un disco cardine del Rock In Opposition.


pop

venerdì 15 aprile 2022

Recensioni. Robert Wyatt "The End Of An Ear"

 


Robert Wyatt

THE END OF AN EAR

CBS 1970

Disco d’esordio della carriera solista di Robert Wyatt, THE END OF AN EAR è un lavoro complesso, ardito, sperimentale. Dopo le tensioni dovute alle registrazioni di THIRD dei Soft MachineWyatt decide di voler registrare un suo disco dando spazio alle suggestioni ricevute dalle sue numerose frequentazioni con musicisti di estrazione jazzistica. In realtà qui il jazz è fonte di ispirazione ma l’approccio è totalmente libero da cliché e confini prestabiliti. 

Significativi sono i musicisti che partecipano alla registrazione: Elton Dean al saxello, Marc Charig alla cornetta e Neville Whitehead al contrabbasso, esponenti della scena jazz inglese e assidui frequentatori di gruppi prog, Soft Machine e King Crimson tra gli altri. Poi David Sinclair all’organo, membro dei Caravan e uno dei musicisti cardine della scena canterburiana, il fratellastro di Robert, Mark Ellidge, al piano e Cyril Ayers alle percussioni.  Il disco si apre  con una composizione di Gil Evans, Las Vegas Tango Part One (Repeat), ovviamente totalmente rivisitata, ricca di effetti vocali e frasi tematiche interrotte e modificate. Una specie di flusso sonoro che attraversa un po’ tutto il disco. Gli altri brani sono tutti a firma di Wyatt e sono un ricco omaggio a musicisti della scena di Canterbury, e non solo. Si va da To Mark Everywhere, dedicato a Mark Ellidge con un incedere iniziale molto rock ma sporcato dai fiati, a To Saintly Bridget, dedicato all’amica artista Bridget St John, sicuramente più vicino all’estetica free jazz. To Oz Alien Daevid And Gilly è chiaramente dedicata a Daevid Allen e Gilly Smyth, mentre To Nick Everyone, per il trombonista Nick Evans, è caratterizzata da fraseggi di fiati, con un irruento finale caotico arricchito dal pianoforte di Mark Ellidge. 

Si continua con gli omaggi ai Caravan e a Jimmy Hastings, passando per Kevin Ayers e il suo gruppo The Whole World. In To Caravan And Brother Jim le atmosfere sono dolci, con una batteria cadenzata e un pianoforte a tratteggiare una melodia dal forte sapore jazzistico per poi tramutarsi in una sorta di outtake del secondo disco dei Softs. L’omaggio ad Ayers è un pastiche rumoristico, buffo e ironico. Il disco prosegue con un’altra sorta di ballad jazz sporcata dall’organo, melodioso omaggio a Carla BleyMarsha Hunt e Caroline Coon, per poi concludersi con Las Vegas Tango Part 1, stravolta  dai vocalizzi wyattiani e con un ritmo costante, ipnotico. Disco assolutamente unico, un esplosione di sperimentalismo dadaista che acquista sempre più senso e valore con gli anni.


pop

domenica 10 aprile 2022

Lettere al Direttore (4)

  



Egregio Direttore,

Non prenda questo mutamento di registro, questa mia apparente distanza, quest’abbandonare il tono confidenziale come un qualcosa nei suoi confronti. Tutt’altro. È che il mio stato di questi giorni m’impone un certo distacco, anche con lei che ha avuto finora la pazienza di leggermi. Ho realizzato con profondo stupore alcuni cambiamenti che riguardano la mia persona. Isolato nelle incertezze e nei dilemmi esistenziali, non ho visto lo scorrere del tempo sul mio corpo, sul mio viso, sui miei occhi. Questi due anni sono stati difficili e assai inusuali per tutti. Ma la mia mente si è come rifiutata di constatare come questo periodo di tempo costellato da pandemie e guerre, abbia impresso un cambiamento soprattutto fisico. Non nego che anche il mio pensiero ne abbia subito i contraccolpi, ma credo che questi siano in larga parte positivi. O almeno lo spero. Il mio interrogarmi costantemente, la necessità di approfondimento, la dialettica e l’autocritica, anche il pessimismo, a suo modo, mi sembrano elementi e caratteristiche in gran parte positivamente sviluppate in questo triste periodo storico. 

Ma, vede Direttore, l’altro giorno mi sono fermato per un attimo di fronte allo specchio, così, per riflettermi con calma. E ho visto improvvisamente mio padre sul mio viso. Ho visto i segni e l’espressione del suo volto sul mio volto, sul mio collo. Ma era mio padre anziano, o così come lo vedevo io quando ero giovane. L’espressione, lo sguardo, il lieve sorriso e la cupezza. La fatica e l’insopprimibile sensazione di essere arrivati vicini alla fine, o quantomeno non lontani. È stato un attimo, veloce ma intenso. Poi, inquieto, ho spento la luce e sono andato via. Non è facile affrontare la vecchiaia, e non sempre è semplice avvedersi del suo arrivo, ma in quell’istante, davanti allo specchio, ho visto il me anziano, mai come in quel momento simile a mio padre. E ciò mi ha spaventato, disilluso allo stesso tempo. Non so quanti anni abbia lei, Direttore, anche se credo sia più giovane di me. E allora mi sono detto, perché avere toni confidenziali, porre domande o argomenti ad una figura che avrà certamente prospettive più rosee delle mie, visioni di un futuro diverso, molte di più di quante ne abbia io. Ho pensato comunque di scriverle, di mostrarmi epistolarmente nella mia nuova dimensione. Certo che lei capirà, comprenderà e magari ne troverà motivi di riflessione e di approfondimento. Io, dal canto mio, cercherò di tuffarmi nelle attualità, provando a vivere più intensamente, al netto delle brutte vicende che ci coinvolgono e ci circondano, questo tempo di vita.   Spero veramente di non averla annoiata, o peggio turbata. Consideri questa mia come uno sfogo, un’inquieta esternazione dal carattere…senile. È la parola giusta!

Cordiali Saluti

Edmondo Fabbri, suo assiduo Lettore

giovedì 7 aprile 2022

Il caro nemico Spotify



Premessa d'obbligo: l'attuale sistema di ripartizioni praticato da Spotify è disgustoso. Pochi centesimi elargiti agli artisti che sono responsabili dell'opera d'arte, in questo caso musicale, sono un insulto alla ragione e uno dei tratti più ingiusti di questo nuovo capitalismo delle piattaforme. 

Andiamo avanti. Sono un abbonato a Spotify e lo utilizzo quotidianamente, ascoltando con cura vecchi album e novità, alla ricerca di musiche che in parte già conosco o apprezzo, oppure perlustrando territori a me ignoti, con curiosità e passione. Allo stesso tempo posso dire di non aver per nulla cessato di acquistare cd (anche lp), anzi: credo di aver aumentato la quantità di musica "solida" da quando frequento Spotify. E, per rincarare la dose, sono musicista e scrivo musica e di musica. 

Come la mettiamo? Lo spunto per questa riflessione mi è venuto dall'editoriale di qualche mese fa del direttore della rivista musicale Blow Up che, nei suoi consueti accenti un po' provocatori, indica la piattaforma musicale svedese a nemico pubblico numero uno dei musicisti. L'accusa principale è quella di permettere al potenziale acquirente di musica di "provare" il suo futuro acquisto e quindi decidere, nel caso non fosse soddisfatto, di non comprarlo. Oppure il contrario ovviamente. Ciò sarebbe profondamente ingiusto perché si perderebbe uno degli elementi fondamentali del commercio, cioè il rischio. E inoltre non si darebbe più quella fiducia al giornalista/recensore che per tanto tempo ha rappresentato la guida agli acquisti per la stragrande maggioranza degli ascoltatori. 

La questione, onestamente, mi sembra un po' più complessa e non aiuta certo paragonare il cd, prodotto sì commerciale ma anche (o soprattutto) materiale culturale, con il prodotto enogastronomico per eccellenza, la pizza, adducendo il fatto che nessuno si sognerebbe mai di volerla provare prima di acquistarne e poi mangiarne una. Così è più o meno come la mette Stefano Isidoro Bianchi.  

Io credo che uno degli elementi importanti per il nostro ragionamento sia proprio quell'ambiguità che percorre tutto ciò che veicola cultura: musica, letteratura, mostre, cinema, serie tv, anche prodotti televisivi. Ciò che l'artista produce entra nel sistema capitalista in qualità di prodotto commerciale, ma mantiene forte la caratteristica di elemento culturale, di veicolo di idee, suoni, visioni, che arricchiscono l'essere umano e anzi ne diventano elemento fondamentale per la crescita sociale, soprattutto in questi tempi cupi, colmi di contraddizioni e difficili problematiche e perciò preda di semplificazioni populiste, di messaggi rassicuranti e semplici, quando la realtà semplice non è.  

Al netto delle storture che una piattaforma digitale come Spotify crea, credo non sia banale affermare che essa stessa permette la fruizione di qualsiasi tipo di musica, consentendo all'ascoltatore la conoscenza o l'approfondimento di prodotti culturali a lui prima preclusi per evidente mancanza di potere d'acquisto. Non sono soltanto i giovani, ma anche i semplici stipendiati, a non potersi certo permettere l'acquisto di decine di cd al mese e poi libri, cinema, teatro, mostre. Questa impossibilità ovviamente limita la nostra fruizione culturale e di questi tempi a me sembra abbastanza grave, oltreché pericoloso. Mi si dirà che questa facilità nel fruire musica ha portato a quell'ascolto superficiale, approssimativo, compulsivo. Certo, può essere vero, ma non è detto sia sempre così. Penso che a questo debbano porre rimedio le istituzioni formative e, lo dico con piacere, le riviste culturali, i web magazines. Individuando nuove traiettorie, ponendo gli accenti su discorsi complessivi e critiche ragionate e stimolanti. Insomma, non si chiede più la recensione che riassume, spesso con confusione, lo stile e gli accostamenti di quel gruppo o di  quel musicista. C'è bisogno di più riflessione, di più competenza, di maggiori collegamenti e di critiche sensate. Non è più il caso di scrivere che quel disco suona un po' jazz solo perché c'è un sassofono, oppure che ha sonorità hard rock perché c'è una chitarra distorta. 

Ancora alcune cose. E' paradossale che mi si chieda di dovermi fidare delle scelte di uno o più giornalisti quando ormai ogni rivista pubblica tra le 200 e 300 recensioni dei gruppi e dei musicisti più vari, incasellandoli più o meno all'interno di etichette prestabilite. La crescita culturale deve avvenire a trecentosessanta gradi, non limitata ai generi usuali (tra l'altro in molti casi in via di superamento) o a quel determinato giornalista. Abbiamo bisogno di espandere i nostri confini, culturali e materiali, e all'interno di un sistema come il nostro, basato sul denaro, sul prodotto commerciale, questa esigenza viene fortemente limitata proprio dal mercato.  

Ma come la mettiamo con i musicisti? Ovviamente è necessaria una battaglia nei confronti di Spotify affinché i compensi siano maggiori, cercando di alleviare questo tipo di sfruttamento culturale. Ma non facciamoci illusioni. Si potrà fare ben poco. Allora è indispensabile trovare altre soluzioni. Il fatto che la musica "solida" abbia perso quell'importanza che ha avuto per circa un secolo, non è detto che sia un male. E, vista la crescita degli acquisti di lp, non sono certo così definitive le tendenze. Ma, come musicisti, dovremmo prendere atto di modificazioni e cambiamenti avvenuti. La possibilità di produrre materiale culturale è nettamente maggiore rispetto al passato e anche se questo provoca un affollamento di produzioni con conseguente abbassamento della qualità generale, nondimeno credo che alla fine sia una tendenza positiva. Questa enorme quantità di materiale prodotto e le possibilità di fruirne con più facilità ha finito con il dare maggior peso all'evento live. E questo non è certo un male. Pessima invece è la possibilità che viene offerta ai musicisti  (e non solo, ovviamente) su questo versante, soprattutto in Italia. 

Quindi, una battaglia che il settore cultura nel suo complesso dovrebbe portare avanti con convinzione e con forza è quella di avere fondi stabili, sovvenzioni, luoghi e spazi dove poter produrre e fornire cultura. Insomma circuiti fecondi che permettano all'artista di esibirsi e al pubblico di assistere, spostando l'accento dal prodotto "solido" all'evento, alla performance, allo spettacolo dal vivo, al dibattito e alle presentazioni. Solo così potremmo aggirare, o eludere in parte, lo sfruttamento delle piattaforme e dare un diverso senso e significato alla produzione culturale. 

Ovviamente, la mia posizione non è granitica e continuo a riflettere e a cercare di immaginare un sistema diverso, che non guardi solo al passato. 


pop 


Recensioni. Gong "Magick Brother"

 



Gong

MAGICK BROTHER

BYG 1970

È il primo album a nome Gong, ma effettivamente possiamo definirlo un disco di Daevid Allen e Gilli Smith. Bloccato alla frontiera tra Francia e Gran Bretagna a causa del permesso di lavoro scaduto e quindi fuori dai Soft Machine, Daevid si stabilisce a Parigi dove l’atmosfera di rivolta e creatività che attraversa la capitale francese nella seconda metà degli anni '60 lo porta a sperimentare e a mettere in musica le sue idee. Con a fianco la sua compagna di vita Gilli Smith, inizia a frequentare la rive gauche parigina come artista solista e come duo, fino ad utilizzare, lentamente, la sigla Gong, un nome che gli era apparso nelle sue frequenti visioni durante le residenze a Deya, nelle Baleari. Notati persino da Yoko Ono e Don CherryDaevid Allen e Gilli Smith, nella loro prima ed acerba incarnazione a nome Gong, iniziano a farsi un nome nell’ambiente parigino e così Jean Karakos, il proprietario della BYG, etichetta francese che già pubblicava i lavori dell’Art Ensemble Of Chicago, propone ad Allen un contratto per registrare tre album a suo nome.  L’ensemble che registra Magick Brother vede la presenza di Didier Malherbe al sax soprano e al flauto e Rachid Houri alle tabla e alla batteria, entrambi protagonisti nelle successive edizioni dei Gong. Ma anche veri e propri jazzisti come Barre Philips al contrabbasso e Earl Freeman al piano, tutti e due facenti parte di quell’area sperimentale del jazz, tra free e improvvisazione libera. Il disco è ricco di idee e spunti che poi saranno più compiutamente elaborati quando Daevid avrà intorno a sé una vera e propria band. Si passa dalla sinuosa e moderatamente cosmica Rational Anthem, con un inaspettato finale, alle sperimentali e surreali atmosfere di Princess DreamingGlad To Sad To Say è riflessiva, dall’incedere lento ed etereo, mentre Ego ricorda i primi Soft Machine, bizzarri e dadaisti. In generale tutto il lavoro è permeato dalle sonorità e dalle atmosfere psichedeliche alla Syd Barrett, con in aggiunta l’esplosiva creatività di un Allen che compone, canta e suona in modo totalmente libero, scanzonato, allegro. Ultima nota: Gong Song preannuncia la mitologia del pianeta Gong, i suoi Pot Head Pixies e le fantastiche avventure di Zero The Hero, l’ultimo vero e ineguagliato freak della storia del rock.  


pop


lunedì 4 aprile 2022

Lettere al Direttore (3)

 




Caro Direttore,

eccomi di nuovo a lei, sperando di non essere troppo invasivo nei suoi confronti. Le devo confessare che rivolgermi in questa forma epistolare mi dà conforto, e allo stesso tempo stimola le mie facoltà mentali, ahimè un po’ arrugginite dallo scorrere del tempo. La sento come un confidente, una spalla sulla quale di tanto in tanto poggiarmi. Ma, ripeto, non vorrei abusare del suo tempo e della sua pazienza.

Le scrivo senza una ragione particolare, senza un argomento specifico, ma solo per esternare un malessere generale riguardo lo stato delle arti. Dirà lei, ma non è un argomento anch’esso, seppur ampio e difficile da affrontare e approfondire? Ha ragione Direttore, ma il mio è veramente un pensiero superficiale, un disagio che vivo in lontananza, essendomi oramai ritirato dalla mondanità. Osservo dal mio rifugio l’inesorabile deriva individualista che non sembra incontrare ostacoli, pervadendo tutti i settori dell’arte. E mentre logico appare il successo in ambiti commerciali, più serio e preoccupante è vedere come queste dinamiche siano ormai moneta corrente anche nei mondi cosiddetti alternativi.

La dura competizione per il successo individuale è la cornice dominante entro la quale si formano i giovani artisti, prodotto e conseguenza del sistema economico e politico occidentale, e tutto ciò che implica un ambito collettivo viene scientificamente omesso o osteggiato come sedicente dittatura. Cosa sono, per esempio, i cosiddetti Talent Show se non la chiara rappresentazione della lotta per le classifiche, i like, l’autopromozione, le invidie e le gelosie, il successo effimero o quello duraturo che premierà solo uno o una tra loro, relegando gli altri e le altre nell’anonimato. Un mondo fatto di costante competizione, di sottolineatura dei soli elementi individuali, come la forza di volontà, il credere nei propri mezzi, o altre baggianate simili, escludendo intenzionalmente le condizioni materiali nelle quali viviamo, l’organizzazione del sistema, il profitto dietro ad ogni espressione culturale, il mercato onnivoro che tutto ingloba e depotenzia rendendo qualsiasi cosa oggetto da comprare o vendere.

Ma se tutto questo riguarda la sfera commerciale, per l’appunto, anche le nicchie di resistenza, o almeno che sembrano tali, soffrono in parte della stessa malattia, dei nefandi effetti del realismo capitalista. E così, di fronte a crisi pandemiche e guerre, l’unica risposta sembra essere quella del cavarsela da soli in qualsiasi modo, raggranellare spiccioli di notorietà in piccoli ambiti ristretti, autopromuoversi e ostentare la propria, presunta, alterità. Il tutto ammantato da roboanti parole rivoluzionarie del tutto fuori luogo e atte a mostrarsi assolutamente politically correct e alternativi. Così gli spazi di resistenza all’omologazione si atomizzano sempre di più, fino a diventare assolutamente conformi e collaterali al mercato, una marginalità che spesso diventa trampolino di lancio per piccole carriere personali. Servirebbe invece creare ambiti il più possibile condivisi, interdisciplinari, dove dibattito, riflessione e produzione artistica abbiano un afflato collettivo, momenti comuni di resistenza e di promozione di nuovi linguaggi e nuove realtà. Solo in questo modo si potrebbe tentare di combattere il virus dell’individualismo e l’omologazione artistica. Caro Direttore, a me non sembra vedere molto di ciò all’orizzonte, ma forse mi sbaglio, o probabilmente non colgo i piccoli segnali che di tanto in tanto appaiono. Tuttavia, resto in attesa di essere smentito, magari da qualcuno o qualcuna che abbia ancora voglia di resuscitare una parola che, di questi tempi, sembra di per sé assolutamente rivoluzionaria: collettivo!

Cordiali Saluti

Edmondo Fabbri, suo assiduo Lettore

sabato 2 aprile 2022

Recensioni. Area "Event 76"


 

Area

EVENT 76

Cramps, 1979

Impegnati nella realizzazione del concept album MALEDETTIgli Area, senza più Giulio Capiozzo e Ares Tavolazzi, vengono invitati a suonare all’Università Statale di Milano, occupata dal movimento studentesco,  il 27 ottobre del 1976. I tre membri rimanenti del gruppo, Demetrio Stratos  Paolo Tofani e Patrizio Fariselli, invitano a suonare con loro anche il sassofonista Steve Lacy e il percussionista Paul Lytton, già coinvolti nelle registrazioni di MALEDETTIIl concerto sarà una incredibile performance che lascerà disorientati pubblico e critica ma che rappresenta al massimo la voglia e la capacità di sperimentare nuovi mondi sonori propria degli Area
Ai musicisti vengono dati dei foglietti con su scritto delle indicazioni sulle quali improvvisare liberamente: Ipnosi, Silenzio, Violenza, Ironia, Sesso. Ogni tre minuti i musicisti devono scegliere a caso un nuovo foglietto e quindi cambiare improvvisazione. Era una pratica creata da John Cage anni prima per un gruppo di jazzisti di Chicago. Caos II (parte prima) è un lungo happening  di circa 20 minuti dove i musicisti offrono ad un incredulo pubblico una serie di eventi sonori ruvidi, irregolari, talvolta lancinanti e caotici, con una gamma espressiva di altissima qualità. Intorno al minuto 18 emerge in splendida solitudine il sax soprano di LacyCaos II (parte seconda) è molto più breve ed ha un inizio suggestivo, con gli acuti di Stratos in lontananza. Dal minuto 6 alla fine ci sono degli affascinanti dialoghi tra Stratos e Fariselli, con i puntuali interventi di Lacy, e poi Tofani e ancora Fariselli, sempre puntellati dal sax soprano e dalle percussioni.
Event 76 è una variazione sul tema di Scum, appena registrato su MALEDETTI. Inizia con una serie di accordi del pianoforte che sfociano in un magma sonoro dal quale emerge il fraseggio pulito di Lacy con il contrappunto di Tofani. Subentrano poi delle percussioni tribali con il sax  che continua ad improvvisare melodico e in sottofondo il pianoforte scuro, profondo, di Fariselli. Il finale è contraddistinto da un avvincente improvvisazione di Lytton e Lacy ai quali si aggiungono Stratos Tofani e Fariselli in un crescendo angosciante ed allo stesso tempo liberatorio. Una grande prova di un gruppo che non ha mai perso la voglia di sperimentare.


pop

Recensioni. Idris Ackamoor & The Pyramids "Shaman!"

 




                                                Idris Ackamoor & The Pyramids

SHAMAN!

Strut 2020

Il terzo capitolo della trilogia afro-spirituale di Ackamoor e dei suoi Pyramids arriva dritto al cuore, muove le coordinate verso ambiti introspettivi, pur non rinunciando completamente a tematiche più propriamente politiche. Dal suo ritorno sulle scene nel 2016 con We Be All africans (mentre An Angel Fell è del 2018) Bruce Baker, alias Idris Ackamoor, ha sviluppato una sua estetica sicuramente in linea con le ultime tendenze black, tra groove, improvvisazioni modali, fascinazioni afro, correnti funk e echi del faraone Sanders, nonché dei ColtraneJohn e Alice, senza certo dimenticare le incursioni spaziali di Sun Ra. Ma in questo caso il giovane allievo di Cecil Taylor (è stato, agli inizi degli anni ’70, nel Cecil Taylor Black Music Ensemble) ci mette parecchio del suo grazie a un collettivo coeso, ricco di eccellenti e brillanti performer, valga per tutti l’affascinante violino elettrico di Sandra Poindexter che illumina e colora di originalità tutto l’album. Inoltre, per l’occasione, ritrova al suo fianco la flautista e compositrice Dr. Margaux Simmons, fondatrice, insieme ad Ackamoor e a Kimathi Asante dei primi Pyramids, quelli degli anni ’70, quando il gruppo girava tra Africa, Europa e Stati Uniti. Il disco è diviso in quattro parti, e la terza (Upon Whose Shoulders We Stand) è forse la più vigorosa, con una Salvation che commuove sotto le energiche scorribande del tenore di Ackamoor, suoni che rimandano al Coltrane più spirituale e stellare, mentre Theme For Cecil (chiaro omaggio al suo mentore Cecil Taylor) è caratterizzata da una ritmicità dal sapore tribale e con il sax alto del leader che illumina tutto il brano, ben coadiuvato dalle improvvisazioni della Simmons. La prima parte di Shaman! (Fire Rites Of Penance) ha un andamento più levigato, con la title track dall’inizio lento, quasi una ballad, e una parte centrale afrobeat, call and response e agili e intense frasi tematiche, seguita da una Tango Of Love anch’essa divisa in due parti, simile al brano d’apertura, arricchita da splendidi assoli della Poindexter, della Simmons e di Ackamoor stesso. A Glimpse Of Eternity, la seconda parte dell’lp, si apre con quella sorta di mambo orientale che è Eternity, atmosfere alla Sun Ra attraversate dai flussi free del sax tenore di Ackamoor , e prosegue con When Will I See You Again? un forte richiamo all’attualità, alle uccisioni di massa di Columbine, San Bernardino, Las Vegas, Parigi, Berlino, Young and old die before their timeIn thew wrong place at the wrong timeYour life can change at the drop of time, venature soul di stampo english, per un disco prodotto e mixato a Londra dal co fondatore e produttore degli Heliocentrics Malcom Catto. La chiusura dell’album è affidata alla memoria del popolo afroamericano: 400 Years The Clotilda (l’ultima nave schiavista), scorre tra richiami afro-futuristi (Virgin), sonorità psichedeliche (The Last Slave Ship) e spiriti subsahariani (Dogon Mysteries), per un lavoro splendido, evocativo, ancestrale, un tuffo spirituale tra echi del passato e concreti sguardi sul futuro.

 

pop

Recensioni. Kevin Ayers and The Whole World "Shooting at the Moon"

  Kevin Ayers And The Whole World SHOOTING AT THE MOON Harvest 1970 Il secondo album solista di Kevin Ayers vede al suo fianco, al co...