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lunedì 21 marzo 2022

L'Europa tra jazz e improvvisazione libera






Anche questo scritto fa parte della serie di schede informative del laboratorio sulla Storia del Jazz, Percorsi Jazz. 


L’Europa tra jazz e improvvisazione libera

 

“Il jazz afferma di essere una forma d’arte. Tutta l’arte è espressione del tempo in cui ha origine, un riflesso dell’ambiente in cui viviamo. Ecco perché un musicista jazz europeo non dovrebbe mai suonare come un musicista nero a New York o Chicago”

Albert Mangelsdorff

 

Se l’arrivo del jazz in Europa data già dai primi anni Venti, in corrispondenza più o meno della nascita di questa musica sul continente nordamericano, è altresì vero che fino al secondo dopoguerra questa musica vivrà in ambiti ristretti e non avrà certo ampia diffusione all’interno delle società europee. In Francia, in Gran Bretagna e nella Germania di Weimar le musiche afroamericane avranno anche i loro momenti di successo, ma ovviamente stiamo parlando di settori sociali esclusivi, avanguardie, circoli artistici, intellettuali. Va comunque sottolineato che il jazz, in molti casi, ricevette maggiori attenzioni ed ebbe un trattamento migliore, da parte degli ambienti culturali europei, di quanto ne avesse avuto negli Stati Uniti. Il primo libro sulla musica jazz è di Hugues Panassiè (“Le Jazz Hot”), un francese amante della nuova musica afroamericana, e molti jazzisti, quando attraversarono l’oceano per esibirsi in Europa, troveranno un atteggiamento di assoluto rispetto, che invoglierà molti di loro a tornarci o, in alcuni casi, a stabilirsi definitivamente.

Ostacolo alla piena diffusione del jazz in Europa furono l’instaurarsi delle dittature fasciste e naziste, in Italia e Germania, e delle ripercussioni che tali regimi provocarono sul resto dei paesi del continente, così come il consolidarsi del regime staliniano soffocò, anche qui, le sperimentazioni artistiche e il favore che il jazz, nei primi anni dopo la rivoluzione, aveva riscosso in Russia. A parte qualche influenza sulle musiche da ballo, del jazz non rimarrà molto fino alla Seconda Guerra Mondiale, con l’arrivo delle truppe americane e dei loro Vdisc, dischi espressamente registrati dalle big band per l’esercito statunitense. Se questo vale per Italia e Germania, per quanto riguarda Francia e Gran Bretagna, la penetrazione del jazz sarà più costante e duratura, nonostante appunto crisi economica e venti di guerra. Django Reinhardt, chitarrista di origine rom, e il violinista Stephan Grappelli, saranno popolari anche nella Francia del maresciallo Petain e persino tra alcuni gerarchi nazisti, mentre il fascino del jazz tradizionale, quello di New Orleans, manterrà solide radici in tutto il Regno Unito, dando vita ad un grande circuito di jazz tradizionale che si svilupperà ancor di più dopo la Guerra.

Il peso degli USA, non solo economico ma anche culturale, condizionerà l’Europa occidentale dopo il 1945, dando vita al modello politico e sociale delle democrazie occidentali, in netta contrapposizione con il blocco sovietico, e questo comporterà, fino al 1989, una netta divisione del continente che solo marginalmente verrà scalfita dai movimenti artistici. Il jazz sarà un elemento fondamentale della penetrazione culturale americana e diverrà velocemente una musica di riferimento non solo per i musicisti professionisti e dilettanti, ma anche per laghi settori della popolazione europea. Il ballo fece da traino ai ritmi delle big band e, anche se in patria il movimento era in netta crisi travolto dall’esplosione del be bop, lo swing sarà sinonimo di jazz nell’Europa degli anni Cinquanta. Ma presto le nuove tendenze presero piede anche nel vecchio continente, grazie ancora una volta ai numerosi concerti di musicisti americani in Scandinavia, Francia, Gran Bretagna, Olanda, Belgio, Germania e la stessa Italia. Questo comportò un consistente sviluppo del jazz europeo, con musicisti di assoluto valore, valga l’esempio degli svedesi Lars Gullin e Arne Dohnerus, oppure degli inglesi Ronnie Scott e Stan Tracey o del contrabbassista danese Niels-Henning Orsted Pedersen, che pur posizionandosi su un terreno di emulazione degli stilemi afroamericani, tra bop e cool, grazie alle loro capacità avranno la concreta possibilità di suonare accanto ai musicisti americani. Tuttavia, nonostante difficoltà e ritardi, tra revival del jazz tradizionale, emulazioni e musica di intrattenimento, l’esplosione del free jazz negli Stati Uniti non tardò molto ad avere ripercussioni anche in Europa. Il nuovo linguaggio permise a tutta una schiera di giovani jazzisti europei di poter approcciare finalmente la materia in modo originale e non seguendo semplicemente le tracce dei musicisti americani. Quell’approccio libero, creativo, fu la scintilla per far esplodere definitivamente la scena europea, questa volta su posizioni innovative, dando vita ad un movimento che travalicò le frontiere pur mantenendo alcune specificità nazionali. Un primo elemento di distinzione fu, in molti casi, la contaminazione con la musica colta, con le pratiche aleatorie e improvvisative dei compositori americani quali Cage, Feldman, Wolff, soprattutto in Gran Bretagna ma anche in Italia. Giorgio Gaslini e la sua musica totale, o il Gruppo Romano Free Jazz, sono mirabili esempi di creazione di un nuovo linguaggio che al suo interno contiene spunti, suggestioni ed elementi di ambedue i mondi sonori, quello accademico e quello jazz. Ma anche le esperienze inglesi del Joseph Holbrooke Trio, oppure dello Spontaneous Music Ensemble intrattengono forti contatti e pratiche con l’aleatorietà e l’improvvisazione colta. Lo stesso si può dire per la scena tedesca, mentre per quanto riguarda i Paesi Bassi, qui c’è un uso più irriverente e giocoso degli stilemi jazz intrecciati all’improvvisazione libera, con sviluppi alquanto originali. Altre caratteristiche sono le pratiche collettive, la formazione di orchestre più o meno stabili e transnazionali come la Globe Unity Orchestra di Schlippenbach, l’Instant Composer Pool di Misha Mengelberg, gli ensemble di Mike Westbrook e la London Jazz Composers’Orchestra, il Willem Breuker Kollektif. Ma anche Centipede, doppio album registrato da ben cinquanta musicisti inglesi, tra jazz, rock e improvvisazione libera, le etichette indipendenti come la Incus di Derek Bailey ed Evan Parker, oppure la tedesca FMP, i concerti autogestiti e i circuiti alternativi. E certo non potevano mancare i contatti con il nuovo rock, soprattutto in Inghilterra, così come forte fu l’influenza dei musicisti sudafricani che aprirono il jazz inglese alla ritmicità, agli intrecci tematici. Altrettanto importante fu il rapporto con le musiche tradizionali, sia in Italia (ad esempio Mario Schiano e il suo bel disco “Sud”), che in Scandinavia, dove peraltro operò con successo anche George Russell, influenzando profondamente la scena di quei luoghi. Ma va detto che molti musicisti americani si stabilirono, in quegli anni, spesso in Europa, dando nuova linfa ma anche ricevendone altrettanta, alla scena europea. Steve Lacy, Don Cherry, l’Art Ensemble Of Chicago, (Albert Ayler ed Eric Dolphy ebbero importanti collaborazioni con musicisti europei) furono tra i molti che seguirono l’esempio del vecchio Sidney Bechet, stabilitosi definitivamente in Francia nel Secondo dopoguerra.

In conclusione, il jazz europeo si inserì all’interno di quel vasto movimento, politico, sociale e culturale, che negli anni Sessanta rivoluzionò le società del vecchio continente e ne fu una delle espressioni artistiche di maggior rilievo. L’esperienza del free jazz ha permesso la nascita di un linguaggio comune europeo improntato alle pratiche di improvvisazione libera, quel territorio che prende spunti e insegnamenti sia dal mondo delle musiche afroamericane che da quello della musica contemporanea. E quest’approccio ha consentito l’emancipazione del jazz europeo dall’estetica americana, pur non negandone certamente le influenze, ma riuscendo a declinare la propria creatività con un linguaggio personale, ricco e composito, variegato ma allo stesso tempo con un substrato comune, valicando confini e cortine di ferro, ed arrivando effettivamente ad unificare, sotto la bandiera dell’arte libera, l’Europa.

 

pop

giovedì 10 marzo 2022

Gesto, movimento, sensorialità nell'improvvisazione musicale

 


Questo scritto è solo una parte di un mio più lungo articolo pubblicato tempo fa dalla rivista Adolescenza e Psicoanalisi (numero 1 anno XVI maggio 2021 Edizioni Scientifiche Ma.Gi.). Si ricollega direttamente alle riflessioni di un mio precedente post (https://impropop.blogspot.com/2020/01/limprovvisazione-come-costruzione-di.html?m=0). 


Cosa avviene durante un’improvvisazione, come è strutturata e quali sono gli elementi fondamentali di questo processo creativo?

Per Michel Imberty, filosofo, musicologo e psicologo francese, il gesto musicale è al centro della costruzione musicale, è elemento sostanziale (Michel Imberty "Musica e Metamorfosi del Tempo" 2005, p. 99). Cosa s'intende per gesto? Un movimento del corpo che si muove nello spazio e nel tempo, energia dispiegata in una traiettoria temporale orientata, secondo la definizione di Imberty (2005, p. 90). Anzi, il gesto è composto da una serie di movimenti ed ha una motivazione, un agire determinato, momentaneo e inserito in contesti sociali e culturali. Se da un lato abbiamo la determinazione e l'intenzionalità, dall'altro c'è il carattere improvvisato, intuitivo o di reazione del movimento. Per raccordarci immediatamente all'agire improvvisativo, le nostre improvvisazioni sono frutto di gesti intenzionali, ma anche di movimenti di reazione o intuitivi rispetto ad altri gesti musicali. 

Secondo il semiologo francese Jean Molino, il gesto è presente nel cuore della musica ed è prodotto in tre diverse forme: il gesto strumentale, il gesto vocale e il gesto ritmico (in Imberty, 2005, p. 90). Questi tipi di gesti organizzano la forma musicale, la costruzione temporale. La organizzano seguendo due direttive, due ambiti generali. Il primo è quello di costruzioni realizzate a poco a poco, con un flusso continuo punteggiato di rotture, contrasti dinamici e d'intensità, varietà timbriche e sonore. Il secondo è una costruzione di tipo formalizzato in schemi determinati culturalmente e storicamente. Com'è facile intuire, il primo ambito è rapportabile sicuramente alle improvvisazioni libere, mentre il secondo a quelle idiomatiche e alle strutture compositive. Sempre per Molino, dei tre tipi di gesti quello ritmico riveste un ruolo fondamentale (in Imberty, 2005, p. 93). Rapportato all'attività motoria e sensoriale dell'essere umano, al battito vitale, il ritmo, la scansione regolare ordina il tempo e permette ai musicisti e agli ascoltatori di misurarlo e controllarlo. Anche nei momenti più caotici di un'improvvisazione la presenza di una pulsazione ritmica permette all'ascoltatore di afferrarsi all'esperienza sonora, seppur ostica e ai musicisti di avere un quadro temporale definito e stabile che àncora l'improvvisazione ad una traiettoria intenzionale. L'elemento ritmico fornisce, in generale, stabilità e strutturalità, mentre le variazioni producono instabilità. 

Nell'analizzare il gesto musicale nei bambini Imberty nota che il movimento ha la preminenza sulla struttura, l'elemento dinamico su quello sistematico, sintattico. Movimento che non è solo improvvisato, intuitivo o di reazione ma appoggio e perno del gesto intenzionale. Un gesto che ha un inizio, uno svolgimento e una fine. E che si traduce, come elemento fondamentale di ogni tipo di musica, nell'alternanza tensione/distensione (2005, p. 95). Il bambino, in altre parole, costruisce con i suoi gesti una costruzione temporale che si dà forma musicale a poco a poco, prendendo coscienza dei propri gesti e degli effetti che questi gesti producono sul materiale sonoro, organizzando passo dopo passo il tempo. L'elemento dinamico riveste un ruolo fondamentale, in rapporto alla presenza di stabilità, data spesso dalle ripetizioni ritmiche, e dell'instabilità, prodotta dalle variazioni.

Ma queste elaborazioni possono benissimo essere ricondotte all'improvvisazione libera, alla sua costruzione formale che si costruisce nel tempo, gradatamente, con forti elementi dinamici e utilizzando l'alternanza stabilità/instabilità, tensione/distensione. Che l'improvvisazione fosse stata spesso associata ai primi gesti musicali dei bambini non è certo una novità, ma in questo caso abbiamo dei precisi riferimenti analitici che dimostrano la comparazione. 

Tutto questo ha a che fare con la singolarità, nel senso di una gestualità musicale prodotta da una sola unità, in rapporto sensoriale con i suoi gesti, i suoi movimenti e l'ambiente interno ed esterno. Ma cosa succede in presenza di più unità?

La sensorialità è un mezzo usato dal cervello per ricevere informazioni dall'esterno e dall'interno del corpo. Il suo lavoro è caratterizzato dalla presenza di sensazioni e percezioni. La sensazione è una consapevolezza conscia o inconscia delle modificazioni degli ambienti interni ed esterni. La percezione è una consapevolezza cosciente che interpreta le differenti sensazioni. 

Questo doppio canale è in stretto rapporto con le funzioni cognitive, cioè con la conoscenza dell'ambiente esterno e le possibilità di metterlo in relazione al nostro interno, in una continua ricerca di relazioni e connessioni che ci portano a delineare una mappa ambientale, un quadro della realtà per potervi interagire. 

In una improvvisazione libera collettiva l'aspetto sensoriale deve essere al centro del nostro agire, del suonare. Dobbiamo rapidamente delineare una mappa della realtà per poter interagire e interpretare al meglio le continue sollecitazioni che ci vengono fornite e che a nostra volta forniamo. Per fare un parallelismo certamente arduo ma non del tutto fuori luogo, la sensazione delle modificazioni dell'ambiente è in stretto collegamento con i movimenti, la percezione interpretante è sicuramente gestuale, intenzionale. Per interagire ed improvvisare al meglio abbiamo bisogno di attivare contemporaneamente linguaggio (in questo caso musicale), memoria, attenzione, percezione, movimento, in altre parole le funzioni cognitive. 

pop

mercoledì 18 settembre 2019

Ancora su scrittura e improvvisazione

Tornando ai collegamenti tra scrittura e musica vorrei soffermarmi ancora sull'argomento "indispensabile". Parlando di Bailey e Coe e del loro disco Time, ho fatto riferimento a delle frasi di Raymond Carver (Tempo. O dell'indispensabile!) perché la musica di quel duo sembra contenere quell'essenzialità, quella capacità di arrivare dritti al punto propria dello scrittore americano. Nulla è superfluo, ogni nota e ogni parola servono per costruire il racconto, musicale o letterario che sia.
Ma è l'unica modalità questa? Cioè siamo obbligati, al fine di raggiungere l'obiettivo, ad essere essenziali, avari di effetti? Di limitare la nostra azione all'indispensabile, di dosare con cura gli elementi a nostra disposizione per costruire una narrazione perfetta?


Prendiamo Philip Roth. Al di là del fatto che Carver scriva racconti e quindi, probabilmente, il format costringa l'autore alla stringatezza, la scrittura di Roth è per certi versi agli antipodi. 
In Pastorale Americana, in uno dei momenti più intensi del libro, lo scrittore di Newark riesce a prendere tempo descrivendo con cura il plastico in miniatura della nuova casa dello Svedese e di sua moglie, come se volesse ritardare volutamente il culmine, lo zenit della narrazione, posticipando la risoluzione in un continuo alternarsi di sottodominanti e dominanti che non risolvono, per usare un linguaggio musicale. 
In realtà Roth sembra utilizzare il fiume di eventi, descrizioni, deviazioni, per immergerci nel racconto, in un mondo che è proprio costruito attraverso un alto numero di percorsi, quasi a farci perdere la ragione. Immissione di una quantità di elementi che elaborano, chi in maniera decisiva chi secondariamente, la narrazione come fosse una sorta di uragano che ci prende e ci trasporta altrove. 
Ovviamente il trovarsi di fronte un romanzo o un racconto, ripeto, incide alquanto nella costruzione del linguaggio. Ma non è solo questo. E' proprio un approccio differente che prescinde dal formato. Questa modalità ha, come ulteriore caratteristica, quella di portare il lettore, o l'ascoltatore, in un continuo saliscendi di emozioni, come se non ci fosse un obiettivo finale ma un continuo, per l'appunto, alternarsi di tensioni senza soluzione di continuità. Laddove invece l'approccio "essenzialista" punta a crescendi con inaspettate risoluzioni, lasciando da parte gli orpelli e le divagazioni per puntare dritto al finale, alla catarsi.
Come tradurre tutto ciò in musica? Come riuscire a improvvisare costruendo una narrazione fatta di continui rimandi, divagazioni, tensioni e mancate risoluzioni?
In realtà sembra molto più facile questo approccio che l'altro. Siamo, di solito, portati a suonare molto, e ci riesce complicato fermarci, ascoltare gli altri, stringere all'essenziale. Ma la quantità di note non è automaticamente sinonimo di ampia costruzione, di racconto elaborato e ricco di percorsi. Anzi. Spesso produciamo solo confusione o indeterminatezza.
Un musicista che sembra essere una sorta di alter ego dello scrittore Philip Roth, almeno per quanto mi riguarda, è Lee Konitz.


L'accostamento può risultare ardito a prima vista, ma tutto sommato non penso sia così lontano dalla realtà. Non voglio solo fare riferimento alla comune origine ebraica, alla capacità e alle risorse che questa cultura possiede in fatto di narrazione e racconto. Nel caso dello scrittore americano questo retaggio è ben presente nelle sue opere, mentre Konitz non ha mai dato troppo peso a questa dimensione culturale (Andy Hamilton, Lee Konitz. Conversazioni sull'arte dell'improvvisatore, EDT, Torino, 2010). Eppure i due possiedono realmente quell'arte di raccontare le storie che rimanda alla millenaria cultura ebraica. Nel loro specifico campo costruiscono personaggi che intrecciano le loro vicende in un fluire narrativo avvincente. E mentre per Roth tutto ciò sembra in parte scontato, essendo uno scrittore, questo vale anche per Konitz. In Motion, uno dei suoi capolavori,  pubblicato dalla Verve nel 1961 e registrato con Elvin Jones alla batteria e Sonny Dallas al contrabbasso, il sassofonista delinea storie che contengono al proprio interno diverse trame, protagonisti e controsoggetti  che trasportano l'ascoltatore nel racconto. Lo fa con una musicalità descrittiva, senza il furore e la drammaticità dei musicisti afroamericani, ma nondimeno narra, crea short stories intricate, fitte di eventi e personaggi che fluiscono dentro le improvvisazioni.  Possiamo sederci all'ascolto di Motion come se stessimo leggendo un libro, pronti ad essere trascinati in avventure raccontate con passione e maestria, attraversati, talvolta, da un profondo senso di dolore subito stemperato dall'estro e dall'ironia. Trame millenarie che viaggiano nel tempo.

pop

venerdì 9 agosto 2019

Tempo. O dell'indispensabile! Derek Bailey e Tony Coe.

"L'economia e la precisione, la ricerca del dettaglio significativo, insieme a un senso di mistero, di eventi che accadono appena sotto la superficie delle cose."
Come scritto in un precedente post, ritorno volentieri su Raymond Carver e sulle sue riflessioni riguardo la scrittura. In questo caso però il pretesto è dovuto ad un bellissimo doppio lp dal titolo Time, di Derek Bailey e Tony Coe. E ciò che ha scritto Carver sembra proprio perfetto per inquadrare al meglio questa uscita discografica, preziosa ristampa di un disco Incus del 1979 con, in aggiunta, materiale inedito, registrazioni effettuate il 4 aprile e il 14 maggio 1979  presso la BBC per il programma Jazz in Britain e che compongono le facciate 3 e 4 del presente doppio lp.



Per parlare di Derek Bailey servirebbero decine di post e probabilmente non avremmo ancora esaurito le argomentazioni e le riflessioni sulla sua opera di musicista, improvvisatore, studioso  e teorico. Qui, in questo disco, è in coppia con un musicista certamente non così affine ai territori di pertinenza del chitarrista, eppure siamo in presenza di un lavoro unico, di raro pregio. Prima di entrare un po' nel dettaglio, quindi, accenniamo brevemente qualcosa sulla figura del sassofonista e clarinettista inglese Tony Coe.


"Sofisticato, gentile e vago, Tony Coe ha un'aria di generale astrazione come se stesse cercando continuamente qualcosa che ha dimenticato. Per quanto riguarda la musica, l'impressione è ingannevole: qualunque cosa faccia, è con concentrazione totale e un'intelligenza che gli permette di essere a casa con qualsiasi genere musicale". 
Questo è quanto scriveva Ian Carr, storico trombettista inglese e leader dei Nucleus, nel suo bel libro Music Outside. Contemporary Jazz in Britain, del 1973.


 Effettivamente siamo in presenza di un musicista alquanto versatile: sassofonista di Henry Mancini per la colonna sonora del film La Pantera Rosa, membro di big band come quella di Kenny Clark e Francy Boland, co-leader di piccoli ensemble con Kenny Wheeler e Tony Oxley, ma anche clarinettista classico contemporaneo sotto la direzione di Pierre Boulez, autore di uno stupendo disco intriso di jazz, rock e sperimentalismo, Zeitgeist del 1977, con tra gli altri Phil Lee alla chitarra, Kenny Wheeler al flicorno soprano e una splendida Norma Winstone alla voce, e di altre di decine di lavori a suo nome. Insomma, un musicista dotatissimo e in grado di spaziare tra più generi mantenendo sempre un'alta qualità e un suo riconoscibile timbro strumentale. Vicino a Paul Gonsalves per quanto riguarda il sax tenore, al clarinetto ha una eccelsa tecnica e un suono a volte un po' nasale ma di grande limpidezza e virtuosismo. Pur avendo lavorato con Tony Oxley, con la Winstone e con Wheeler Tony Coe ha poco frequentato i territori della libera improvvisazione, non certo per chiusura mentale. Ma il suo eclettismo non poteva certo fermarsi di fronte ad un grande musicista quale è stato Derek Bailey, certamente la figura più autorevole della scena free impro, non solo inglese.

Bailey, nel 1977, inizia ad organizzare le Company Weeks, incontri semi occasionali di improvvisatori. Un anno prima, in occasione del primo concerto di Company, il chitarrista aveva cominciato a ragionare intorno alla creazione di nuove forme di incontro per l'improvvisazione: " La struttura di Company, per quanto si possa parlare di struttura, è basata sull'idea di una compagnia teatrale di repertorio, un gruppo di musicisti da cui diversi raggruppamenti possono essere tratti per specifiche occasioni e performance".  Ad attrarre Derek Bailey era l'idea di congelare per alcuni giorni quel breve periodo iniziale della nascita di un gruppo, prima che il processo di stabilizzazione e consolidamento influenzi in modo determinante la musica prodotta. Da qui nasce l'idea di raggruppare, dal 24 al 29 maggio 1977, presso l'Institute of Contemporary Arts (ICA) di Londra, 10 tra i più importanti musicisti attivi in ambito improvvisativo: Derek Bailey, Steve Beresford (piano), Lol Coxhill, Evan Parker, Steve Lacy, Anthony Braxton (sassofoni e flauti), Leo Smith (tromba), Maarten van Regteren Altena (basso), Han Bennink (batteria) e Tristan Honsinger (violoncello).  


Da questo primo incontro, che ebbe un'ottima partecipazione di pubblico e un inequivocabile successo, Bailey pubblicò, con la sua Incus, ben tre lp (Incus 28 - 30). L'anno successivo, benché restio ad organizzare un'altra Company Week, Bailey alla fine si convinse per farne un'altra edizione, sempre all'ICA, dal 30 aprile al 6 maggio 1978. I musicisti questa volta furono Johnny Dyani (basso), Misha Mengelberg (piano), Maurice Horsthuis (viola), Leo Smith (tromba), Terry Day (percussioni) e lo stesso Bailey. Questo il programma di sala della seconda edizione: "Come nel 1977 l'obiettivo di questa settimana è di presentare la libera improvvisazione in un contesto che incoraggia le migliori possibilità di questo modo di fare musica. Company, il nome collettivo per i musicisti che vi prendono parte, è stata fondata con questo scopo. E' un gruppo di musicisti a formazione variabile i cui partecipanti rispecchiano una varietà di stili e di concezioni dell'improvvisazione. L'ampiezza e la composizione del gruppo verrà decisa dai musicisti ogni sera subito prima della performance". Da questa Company Week non venne pubblicato nessun disco.
E veniamo finalmente al 1979, l'anno dell'incontro tra Bailey e Coe.


"Dopo averla organizzata nel 77 (la Company Week)  non volevo più farla, ma fu un tale successo che chiunque poteva riconoscere e la pressione per rifarlo era abbastanza stupefacente, particolarmente dalle persone che mi avevano dato il denaro per organizzarla, l'Arts Council. Così feci un'altra Company Week nel 78 che pensai non fosse particolarmente riuscita e allora provai un differente format nel 1979, un concerto settimanale per quattro o cinque settimane. Era cumulativo. Partii con un solo, poi duo e trii fino ad arrivare ad una line up di otto, nove elementi. Ho pensato che avrei dovuto provare in quel modo. Neanche a me piacque tanto, erano solo concerti. Provai ancora nel 1980". 
Così, nelle parole di Bailey, le considerazioni sulle Company Week del 77 e del 78 e le idee riguardo l'edizione del 1979, abbastanza differente dalle precedenti. Uno dei concerti della Company  si svolge il 16 aprile 1979 presso la Purcell Room di South Bank a Londra e vede la partecipazione di Bailey con Paul Rutheford, Keith Tippett e il nostro Tony Coe. Una settimana dopo, il 23 e 24 aprile, negli studi Riverside di Londra, Derek Bailey e Tony Coe registrano Time, pubblicato dalla Incus lo stesso anno. I due, prima del concerto alla Purcell Room, si erano già incontrati per suonare nel programma radio della BBC Jazz in Britain il 4 aprile del 1979 e torneranno a suonare sempre per lo stesso programma il 14 maggio. Il tutto è ora su questo doppio lp pubblicato dalla Honest Jon's poco tempo fa.


Siamo in presenza di una raccolta di racconti dall'andamento misterioso e avventuroso, con i due musicisti  che sembrano trovarsi alla perfezione nell'elaborare strutture narrative per poi virare improvvisamente verso scenari inaspettati. Tutto qui è semplicemente narrazione, storie, trame e vicende raccontate in modo egregio da due eccezionali artisti.
Il primo lato dell'lp è composto da composizioni brevi, semplici prose che si gustano una dopo l'altra. L'apertura, con Kuru, è misteriosa, caratterizzata dalle note lunghe del clarinetto e da intrigati arpeggi di chitarra. Sugu, breve e immediata, intreccia fraseggi sinusoidali dei due strumenti mentre Itsu e Koko hanno un andamento simile, seppur alternato. Nel primo è protagonista la chitarra con accordi strappati e note pizzicate e solo verso la fine il clarinetto allunga le sue ombre sul brano. Il secondo vede invece un Tony Coe rilassato, a suo agio con una serie di fraseggi morbidi, vellutati e rapidi, nel registro medio alto e con passaggi sugli acuti. A circa metà brano Derek accompagna le evoluzioni del clarinetto con una sequela di accordi strambi,  dissonanti.
Il resto della prima facciata scorre con caratteristiche simili, essenziale e conciso, con le anch'esse brevi Ima e Sarinu, mentre Omoidasu, l'ultimo brano,  è più lungo e sembra anticipare le atmosfere del secondo lato del disco. Qui la trama si fa più spessa, articolata. Le composizioni (Chiku, Taku, Toki) sono più estese e questo comporta maggiori evoluzioni strumentali, con i due musicisti abili nel condurre di volta in volta le impervie tematiche improvvisative verso territori inaspettati. Toki, lo stupendo brano che chiude il primo disco, è introdotto da una chitarra magica, eterea e puntillista con il clarinetto che sostiene le elaborazioni di Derek. Il filo del discorso poi si intreccia in un continuo dialogo, a volte buffo, serrato, per poi immediatamente placarsi, diventando un sussurro, un rivolo. Si ritorna a fraseggi impetuosi, sempre comunque ben controllati, fino ad arrivare ad elementi parossistici e poi defluire, ammorbidirsi e lasciare spazio, espandere il discorso, in un alternarsi levigato con Coe che a volte innervosisce il dialogo. Nel finale un morbido ostinato rumorista fa da base ad un clarinetto mosso, rapido e allo stesso tempo fuggente.


Il secondo disco, come detto, raccoglie materiale inedito, frutto della partecipazione del duo al programma della BBC Jazz in Britain. L'inizio, Burgundy,  ricorda certe atmosfere di musica contemporanea e porta con sè echi del Giuffre di Free Fall. Va detto che le suggestioni e le sonorità del trio di Jimmy Giuffre con Paul Bley e Steve Swallow percorrono sotterraneamente tutto Time, non potendo prescindere, questa musica, dalle intuizioni fondamentali di quel trio. Le facciate 3 e 4  sviluppano storie e tematiche in maniera incessante, con Tony Coe che lavora brillantemente sul registro acuto del suo strumento e il commento di Bailey fatto di accordi sghembi, note strappate, bicordi dissonanti, sempre in un proficuo dialogo tra i due musicisti. In Dumaine il discorso è tirato, flessuoso, irto e a tratti spigoloso, mentre il finale è delicato e soffuso. La chitarra di Derek disegna un paesaggio aspro in Chartres, nel quale il clarinetto si muove sommessamente, sempre con quel suono pulito, limpido, mentre Bailey costruisce sfondi per le scorribande di Coe. In South Rampart la protagonista, all'inizio, è una chitarra evocativa, che lascia spazi e silenzi e sembra solo suggerire ciò che avviene mentre Tony Coe suona con indeterminatezza, come se parlasse a se stesso, per poi all'improvviso piazzare quelle fiammate acute che stordiscono l'ascoltatore.


E veniamo a questo punto a Carver e alle sue osservazioni iniziali. Questo doppio lp ha in sè l'economia e la precisione, la ricerca dei dettagli importanti. Nulla è superfluo nella musica di Time, tutto è indispensabile. I due musicisti riescono a tradurre in musica eventi che suonano suggestivi, misteriosi, senza nulla di infruttuoso ma condensando nelle loro improvvisazioni il racconto degli avvenimenti. Effettivamente sembra di ascoltare un libro di Carver, ma è scritto (suonato) in tempo reale, non c'è possibilità di revisione, di riscrittura. Ed è per questo che Time è un bellissimo lavoro, per la grande efficacia e essenzialità con le quali Derek Bailey e Tony Coe compongono un' autentica raccolta di piccole storie sonore. Come direbbe Carver....vanno dritti al sodo!

P.S. Sempre nel 1979, il 5 agosto presso l'Institute of Contemporary Arts (ICA) di Londra, Derek Bailey organizzerà una nuova Company, con Frank Perry, Evan Parker, Keith Tippett, Paul Rutheford, Tristan Honsinger, Maarten Altena, Barry Guy e il nostro Tony Coe. Oltre a loro, una line up simile all'incontro del 16 aprile alla Purcell Room, ci saranno anche due musicisti giapponesi, Toshinori Kondo e Toshi Tsuchitori e il mimo clown olandese Ted Jolings. 


Fonti
John Wickes, Innovations In British Jazz. Volume one 1960-1980
Mike Pearson, Conversations In British Jazz
Ian Carr, Music Outside. Contemporary Jazz In Britain
Ben Watson, Derek Bailey And The Story Of Free Improvisation
Derek Bailey, Improvvisazione. Sua Natura E Pratica In Musica
Raymond Carver, Niente Trucchi Da Quattro Soldi


pop





martedì 16 aprile 2019

Impro, Prog e Punk!

In un mio precedente post (https://impropop.blogspot.com/2019/04/a-proposito-di-progressive.html) avevo accennato alla pratica improvvisativa in ambito rock, poi debellata in gran parte nello sviluppo del Progressive. Ne avevo dato una lettura centrale per quanto riguardava il triennio 1966/69, con l'esplosione della Psichedelia e le sperimentazioni ad ampio raggio compiute dalla stragrande maggioranza dei gruppi.

Quando parliamo di improvvisazione nel rock facciamo riferimento a quella che Derek Bailey ha chiamato improvvisazione idiomatica, circoscritta in maggior parte a lunghi assoli chitarristici o di tastiere. Ma in alcuni casi si è fatto uso di improvvisazioni più o meno libere, cioè non propriamente idiomatiche. I primi Pink Floyd, Soft Machine, in alcuni casi King Crimson, un certo Zappa e gli Henry Cow, ma anche le lunghe suite psichedeliche dei Grateful Dead o i Gong hanno in parte un'attitudine libera. Possiamo comunque convenire con il fatto che di improvvisazione il rock non ne abbia fatta molta, o comunque non ne costituisce l'essenza, o la priorità. Ma perché allora diventa centrale? Perché se fosse stata sviluppata e incrementata come sembrava potesse esserlo avremmo avuto un corso differente degli eventi storici del rock. Quella musica così affascinante e rigogliosa non sarebbe caduta nell'asfissia di certo Prog e non sarebbe stata spazzata via così facilmente.
Nel bel libro di Simon Reynolds, Retromania, c'è un interessantissimo capitolo che riguarda il Punk. L'autore lo considera un fenomeno nato da impulsi reazionari, regressivo, che comunque guarda al passato, al primo rock suonato con pochi accordi, in maniera semplice e concisa, privo di improvvisazioni. Non sono del tutto d accordo con questa definizione ma è vero che, esaurita la prima spinta propulsiva del punk, la musica rock si è via via incanalata in un percorso sempre più ristretto, da una parte con lo sguardo all'indietro, dall'altra con la commercializzazione e l'atrofia creativa. Ecco perché l'improvvisazione avrebbe potuto svolgere un ruolo decisivo nell'alterare gli accadimenti verso un'altra direzione, e allora il punk non avrebbe avuto così vita facile. O forse ne sarebbe stato influenzato indirizzandosi verso un'estetica differente, più aperta e meno iconoclasta.


Voglio dire: non necessariamente l'improvvisazione è la giusta terapia per crisi più o meno creative, e non sempre assolve al suo compito, cioè quello di veicolare la musica su lidi sorprendenti e inauditi. Per quanto riguarda un certo rock, quello garage, straccione e sporco, privo di assoli ma pieno di adrenalina e immensamente caustico, quel punk urlato e distorto che distrusse in un solo anno i muri dei castelli del rock e ne ricostruì le fondamenta, ecco quello non aveva e non ha assolutamente bisogno dell'improvvisazione. E'  ben definita la sua estetica e risponde all'urgenza di energia e rassicurazione allo stesso tempo, di certezze scolpite e elettrificate con vigore e risolutezza. Ma quelle musiche che avevano infranto i confini della composizione breve, la strofa e il ritornello, il ritmo regolare e le melodie accattivanti, avevano assolutamente necessità di improvvisazione per poter continuare il loro percorso creativo.  Non fu così ed allora si tornò, pur modificati, ai vecchi codici, alle radici. Ma la linfa vitale è durata pochi anni, e tutto si è esaurito in un ritorno al pop più o meno commerciale e a presunte musiche alternative o indie che dir si voglia; la fine della spinta propulsiva del rock. 


La critica è inutile, non può esistere che soggettivamente, ciascuno la sua, e senza alcun carattere di universalità.
Tristan Tzara

pop

giovedì 4 aprile 2019

A proposito di Progressive

Il genere è in risalita, mi sembra chiaro. Lo si capisce dalla quantità di libri in uscita, dagli articoli su riviste e giornali, dalle ristampe in edicola e dalle innumerevoli Reunion con immancabili live e tour in giro per l'Italia e il mondo. Il Prog è tornato tra noi! 
Al di là dell'effetto retromania, dei ricordi di una generazione che è cresciuta con quella musica, il fenomeno di ritorno mi sembra viziato innanzitutto dalla spiacevole sensazione di operazione commerciale, di nuova/vecchia moda in grado di rialzare le vendite di dischi, biglietti e merchandising.



Però voglio affrontare l'argomento seriamente, senza preclusioni di sorta o pregiudizi vari. 
Dunque, prima di tutto iniziamo con il tratteggiare brevemente il genere Progressive. Ultimamente si tende ad infilarci un po' di tutto, anche gruppi New Wave per esempio. Non è il modo migliore per discutere. Il Prog, per come la vedo io, è caratterizzato da un estetica classicheggiante fatta di quadri, interludi, suite, uso frequente di tempi dispari, testi e iconografia sul modello fantasy, presunta abilità tecnico strumentale e una generale pomposità che spesso si trasforma in estrema pesantezza. Detta così sembra abbastanza negativo il mio giudizio ma in realtà vanno sottolineate alcune cose che riequilibrano il tutto. 
Primo: il Prog ha rivoluzionato la struttura dei brani rock, ne ha ampliato gli orizzonti, ha sviluppato la sperimentazione di sonorità e scrittura ad alto livello, tanto da competere con la musica cosiddetta seria. 
Secondo: l'abbandono della forma classica rock derivata dal blues ha permesso la nascita di scuole nazionali con risultati a volte significativi ed a livello del mondo anglosassone. Possiamo dire che grazie al Prog il rock è diventato europeo.
Terzo: non si può negare il valore assoluto di alcuni gruppi, la bellezza di molti dischi che hanno veicolato i sogni e le aspirazioni di milioni di giovani. 
E allora perché il Punk ha spazzato via tutto con estrema velocità e per circa due decenni la parola Prog è stata sinonimo di nefandezze musicali?


Dobbiamo partire un attimo prima della nascita cosiddetta ufficiale del Progressive, e cioè il 1969, l'anno di uscita del primo disco dei King Crimson, In The Court Of Crimson King. So bene che prima c'erano stati i Procol Harum e i Moody Blues, ma l'uscita discografica del Re Cremisi è quella che fa scoppiare la scintilla. Dunque, prima del 1969 in realtà non c'erano generi musicali. Tutto suonava rock, e tutto era alternativo, psichedelico, giovane, vitale. C'era una voglia estrema di sperimentare, scrivere materiale proprio, rompere con le tradizioni, suonare e improvvisare. Possiamo definire gli anni che trascorrono dal 1966 al 1969 come i tre anni dove succede di tutto nel mondo musicale giovanile, perlomeno riferito al rock. Jimy Hendrix, Pink Floyd, Beatles, Rolling Stones, WhoJefferson Airplane, Grateful Dead, Bob Dylan, Janis Joplin, Doors. Ecco, tutto questo mondo, all'apice del successo, era comunque intento a varcare le soglie del già udito, a rivoluzionare in maniera profonda il mondo del rock. E qui ho fatto ovviamente un elenco dei personaggi più famosi, ma dietro di essi c'erano altrettante eccezionali formazioni che hanno costruito un mondo dove tutto era possibile. 
Non vorrei certo esagerare con l'attribuirle troppa importanza ma credo di non sbagliare nel dire che elemento fondamentale, spesso e volentieri, di questa rivoluzione rock sia stata proprio l'improvvisazione. Pensiamo al primo periodo dei Pink Floyd, oppure a Jimy Hendrix, i leggendari concerti della scena di San Francisco, i Soft Machine e i Cream. Ma anche gli stessi Beatles, Who, Rolling Stones, tutti votati alla sperimentazione psichedelica che non voleva dire solo assunzione di droghe ma ricerca sonora, spirituale, anche politica. Quando questo eccitante movimento comincia a ritirarsi, ecco che alcune conquiste vengono in qualche modo consolidate dal Progressive. In effetti è un mondo che, almeno nominalmente, tende al Progresso, a spostare in avanti alcuni confini ma che quasi subito si ferma/afferma come nuova classe dirigente del rock. E questo suo attestarsi come custodi del sapere porta alla stabilizzazione, al controllo del prodotto, ben confezionato e collocato in un mondo altro, di fantasia. L'improvvisazione viene debellata e la ricerca in qualche modo bloccata dalla costruzione della nuova estetica rock, che porta con se alcune conquiste passate ma assolutamente depotenziate e rese innocue. 
Per fare esempi in linea con i miei post precedenti, siamo in presenza dell'instaurazione del regime staliniano dopo le conquiste e le sperimentazioni avanguardiste della rivoluzione russa. Oppure  dell'affermarsi del Bonapartismo dopo la Rivoluzione del 1789 e il periodo giacobino. Si vedono in trasparenza le conquiste della rivoluzione ma esse sono offuscate, spesso travisate e piano piano soffocate da una sorta di restaurazione, costruita su nuove basi ovviamente.
Provate a pensare, invece, a cosa succede dalle parti degli Henry Cow e del Rock In Opposition, oppure ad alcune frange canterburiane. Qui, animati da una continua ricerca e sostenuti dall'impeto improvvisativo, ancora risiedono intatti i valori della rivoluzione psichedelica e progressiva, ancora si cerca l'inaudito, pur tra mille difficoltà e contraddizioni. Dall'altra parte c'è solo uno stanco e pesante assestarsi all'ombra del successo. Ed è allora che la rivoluzione Punk esplode per azzerare tutto e scalzare dal trono l'ortodossia rock.
 

Voglio chiudere con due segnalazioni. La prima è un bel libro, ahimè solo in inglese, di Edward Macan, "Rocking The Classics. English Progressive Rock And The Counterculture". Probabilmente il miglior libro sul Prog, con un'analisi seria ed approfondita del fenomeno sia dal punto di vista musicale che da quello socio-culturale. L'altra è ancora un libro, uscito da poco in Italia, e che sto leggendo in questi giorni: David Weigel, "Progressive Rock. Ascesa e caduta di un genere musicale". Mi sembra ben fatto, con una trattazione storica accurata e che evita banalità e ovvietà. Non a caso cita abbastanza spesso, almeno in queste prime pagine, proprio il libro di Macan.

pop 

sabato 30 marzo 2019

L’atto creativo

Possiamo definire l'improvvisazione musicale come composizione istantanea, o estemporanea. Ma questa composizione è un insieme di atti creativi, cioè di azioni che producono qualcosa che prima non c’era. Mi sembra ovvio che l’insieme di atti  che produciamo mentre improvvisiamo non ha nessuna possibilità di correzione né di controllo delle fonti, oppure di ripensamenti e aggiustamenti vari. Quello che creiamo è immediatamente a disposizione di chi ascolta e noi non possiamo far altro che assistere a ciò che abbiamo prodotto senza poter interferire, vederlo andare via subito sostituito da qualcos'altro che noi stessi creiamo.


Ma cosa succede invece nella composizione, cioè nell'organizzazione del linguaggio musicale per comporre opere musicali? Abbiamo a disposizione tutte quelle opzioni che ci vengono negate dall'improvvisazione. Possiamo riflettere e pensare a quale sia la soluzione migliore, possiamo correggerci o alla fine annullare tutto e ricominciare da capo. Ma possiamo anche sceglierci, con comodità, fonti d’ispirazione che ci aiutino nei momenti di difficoltà. Riposarci con tutta calma, oppure produrre a getto continuo salvo poi fermarsi e ricontrollare il tutto. Ciononostante anche il comporre è un insieme di atti creativi. Produciamo qualcosa che prima non c’era. Ecco, l’insieme di atti creativi che sono all'interno del comporre sono uguali o diversi da quelli dell’improvvisazione? Al di là delle differenti situazioni nelle quali ci troviamo, e preso nota delle differenze sostanziali tra il comporre e l’improvvisare, cosa differenzia l’atto di composizione istantanea dall'atto di composizione? Probabilmente nulla. Io penso che l’atto creativo sia composto in parte da elementi razionali ed in parte da situazioni di irrazionalità, di perdita di coscienza. Anzi, la creazione, affinché sia effettivamente qualcosa che venga dal nulla, o quantomeno qualcosa che prima non c’era, ha la necessità di essere in buona parte trascendente.


Alla fine di un’improvvisazione difficilmente possiamo ricostruire interamente  il nostro percorso. Anche registrandola e riascoltandola non siamo in grado di comprendere da dove e perché abbiamo suonato alcuni passaggi della nostra improvvisazione. E i passaggi che non riusciamo a ricostruire, ad identificarne con certezza la provenienza, ebbene quelli sono probabilmente il frutto di atti creativi irrazionali. Ma la stessa cosa succede con la composizione. Ovviamente, in questo caso, grazie a tutte quelle opzioni che abbiamo elencato sopra, siamo in grado di dare provenienza, fonte e motivazione di molte più frasi rispetto all'improvvisazione. Possiamo definire questi passaggi ricostruibili come atti creativi razionali, dove la nostra coscienza è stata ben presente e vigile, ha lavorato con successo. Ma anche nella composizione abbiamo dei momenti incomprensibili, che non riusciamo a comprendere da dove siano usciti fuori, per quale strano e intricato percorso abbiano raggiunto la nostra mente e quindi poi la mano che li ha scritti. Ecco, sono anch'essi frutto di atti creativi irrazionali. E sono gli stessi dell’improvvisazione. Sono semplicemente di meno. Tutto qui.

pop

martedì 19 marzo 2019

Ancora su improvvisazione e socialismo

Inventare l'ignoto è, ovviamente, una perifrasi. La costruzione di una società futura passa per la realizzazione di esperimenti e tentativi, organizzazioni ed esperienze precedentemente attuati in condizioni di difficoltà e colmi di compromessi con lo stato di cose esistenti.
La rivoluzione russa si costruisce sull'esperienza dei soviet che appaiono già nella rivoluzione del 1905, così come la Comune di Parigi farà tesoro dell'esperienza dei comitati di vigilanza e dei club rivoluzionari. Quindi, effettivamente, non tutto è ignoto nella costruzione di un'utopia, nulla si crea dal nulla. Spesso l'ignoto è un' assemblaggio di esperienze passate, di avvenimenti e riflessioni condotte in situazioni di difficoltà, con approssimazione e la giusta dose di follia.
Possiamo teorizzare che le nostre improvvisazioni siano come tante piccoli rivoluzioni che attuiamo di volta in volta durante i nostri concerti. E questi piccoli mondi ignoti provengono da tentativi di improvvisazioni condotte in solitudine a casa, organizzate o in modo spontaneo. Nascono dai nostri studi e dalle nostre vite e prendono il sopravvento quasi improvvisamente, improvvisando per l'appunto. Volendo potremmo anche pensare alle nostre improvvisazioni come a Zone Temporaneamente Autonome, citando Hakim Bey. Ma preferisco pensare questi mondi, seppur temporanei, stabili e con effetti duraturi sullo stato di cose presenti. Come se le nostre musiche non fuggissero via appena suonate, ma stabilizzassero un diverso modo di produzione culturale prendendo possesso dei luoghi.

Tuttavia, come preparare l'assalto al cielo? Come organizzare la lunga marcia?
Potremmo non essere nel giusto nel prepararci meticolosamente all'improvvisazione. O dovremmo affidarci, forse, allo spontaneismo? Io penso sia essenziale avere un programma. Anzi, per dirla con Trotskij, un programma di transizione che dallo stato semifeudale delle nostre note e dei nostri suoni ci porti alla costruzione di un mondo improvvisato socialista.
Per oggi la finisco qui. Mi sembra di aver scherzato abbastanza. O forse no.
In ogni caso......Improvvisatori di tutto il mondo unitevi!!!
pop


lunedì 18 marzo 2019

Inventare l’ignoto

Prendo a prestito dal libro uscito in questi giorni per le edizioni Alegre, scritti di Marx ed Engels sulla Comune di Parigi, questo bel titolo per il primo post!
Da una parte è un omaggio a due grandi pensatori, ad un’ottima casa editrice e ad un evento che seppur di breve durata seppe influenzare, ispirare  e scaldare i cuori di milioni di persone. Dall’altra mi sembra invece sia una perfetta definizione di ciò che può essere l’improvvisazione musicale. E non solo, direi.
Inventare l’ignoto, delineare nuovi paesaggi ed orizzonti, costruire inedite melodie, stupire l’altro, provare l’inaudito. 
Come ci muoviamo quando improvvisiamo, che tipo di scelte operiamo quando proviamo ad esplorare sentieri sconosciuti, insomma, che cosa succede nelle nostre menti, e anche nei nostri corpi, quando decidiamo di improvvisare. 
È quello che si è provato a delineare ed analizzare, sia da un punto di vista musicale che da quello più propriamente scientifico, nell’ambito di una conferenza che si è svolta venerdì 15 marzo presso le terme di Tivoli. 

 

In post successivi proverò a raccontare le impressioni e le profonde riflessioni che gli interventi hanno suscitato. 
Ora mi interessa solo collegare, in modo quasi ironico ma non del tutto fuori luogo, l’ignoto delle nostre improvvisazioni, le battaglie per un’orizzontalità della musica e una sorta di liberazione da fastidiose dittature virtuosistiche e tecniciste, con le lotte per un mondo migliore, per una società nuova e ignota, per l’appunto, una società ed un mondo senza sfruttamenti né ingiustizie. 
Addirittura?  Ma sì, lasciamoci un po’ cullare dalle utopie, dai sogni e dagli orizzonti. È questo che manca nel mondo d’oggi. Una sana improvvisazione libera in un mondo socialista, cos' altro?
Vi garantisco che proverò ad essere più pop nei post futuri.
Per rimanere in ambito utopistico, chiudo consigliandovi la lettura di un bellissimo libro di tanti anni fa. An ambiguous utopia di Ursula K. Le Guin, I reietti dell’altro pianeta in italiano.
Un abbraccio!
pop 

Recensioni. Kevin Ayers and The Whole World "Shooting at the Moon"

  Kevin Ayers And The Whole World SHOOTING AT THE MOON Harvest 1970 Il secondo album solista di Kevin Ayers vede al suo fianco, al co...