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lunedì 4 luglio 2022

Recensioni. Kevin Ayers and The Whole World "Shooting at the Moon"

 

Kevin Ayers And The Whole World

SHOOTING AT THE MOON

Harvest 1970






Il secondo album solista di Kevin Ayers vede al suo fianco, al contrario del disco d’esordio, un vero e proprio gruppo. Mentre Joy Of A Toy era stato realizzato insieme ai suoi vecchi compagni dei Soft Machine, per questo disco Ayers allestisce un eccellente band formata da David Bedford (anche sul primo disco) in qualità di tastierista e arrangiatore, il sassofonista Lol Coxhill, già nei Delivery dei fratelli Steve e Phil Miller ed esponente di punta della scena impro/jazz inglese, Mike Fincher alla batteria e un giovanissimo Mike Oldfield al basso e alla chitarra.  Shooting At The Moon è un disco audace, che mantiene in vita ancora lo spirito delle serate di qualche anno prima all’Ufo Club, dove sperimentazione, pop, rock e bizzarrie varie convivevano tranquillamente sullo stesso palco. E così, ballate scanzonate con echi folk come May I? (uno dei più bei brani scritti da Kevin Ayers) e catchy pop songs quali The Oyster And The Flying Fish e Clarence In The Wonderland, si alternano ad episodi assolutamente sperimentali, vicini agli AMM di Keith Rowe e Cornelius Cardew, come gli otto minuti di Pisser Dans Un Violon (serve la traduzione??) o Underwater, più caratterizzata dai glissandi di bassi e chitarre. Atmosfere che ricordano anche la seconda parte di Moonchild, The Dream, del primo disco dei King Crimson, quel territorio tra musica contemporanea e improvvisazione libera nel quale David Bedford e Lol Coxhill sono personaggi familiari e conosciuti.  Ma c’è spazio, in Shooting At The Moon, anche per le suggestioni alla Terry Riley, quel manipolare nastri come su Rheinhardt & Geraldine/Colores Para Dolores, o la ripetizione ipnotica alla We Did It Again dei Softs come nella title track (la vecchia Jet-Propelled Photographs del repertorio dei primi Soft Machine). Un disco affascinante, probabilmente il migliore di Kevin Ayers, che qui dimostra tutto il suo talento e la capacità di aprirsi a territori inesplorati, cosa che purtroppo ripeterà sempre meno nel futuro. Ultima annotazione: la presenza della cantautrice Bridget St John su The Oyster And The Flying Fish e, immancabile, Robert Wyatt alla voce su Colores Para Dolores.


pop

martedì 14 giugno 2022

Recensioni. Free "Fire And Water"

                                       Free                   

FIRE AND WATER
Island 1970



Il successo e contemporaneamente l’inizio della fine, tutto nello stesso disco e nello stesso brano. All Right Now, basta questo per identificare immediatamente i Free, un gruppo che avrebbe potuto dire molto di più di quanto poi abbia fatto. 

Fire And Water è il loro terzo disco ed è quello della consacrazione a band di assoluto valore. Un rock blues energico, vibrante, una voce sporca e nera, una chitarra artefice di micidiali riff e assoli lineari, una ritmica potente con una speciale menzione ad un grande bassista purtroppo sottovalutato, Andy Fraser.   Paul Rodgers voce, Paul Kossof chitarra, il già citato Andy Fraser al basso e Simon Kirke alla batteria allestiscono un signor disco, dopo i due precedenti nei quali avevano preso le misure, e soprattutto scrivono una delle più belle hit della storia del rock, quella All Right Now che li porta in cima alle classifiche di tutto il mondo. Ma Fire And Water è un gioiello di equilibrio,  con una Mr Big che mostra un Fraser in grande forma, uno degli assoli di basso più belli mai ascoltati, e una commovente e colorata di soul Heavy Load, dove la voce di Rodgers si muove sinuosa sul suggestivo movimento armonico in minore. 

L’apertura, affidata alla title track, è sanguigna e compatta, con l’energica chitarra di Kossof a forti venature blues, mentre nel finale la batteria tribale di Kirke viene lasciata in solitudine, sfumata. La chiusura del disco è affidata al brano che più di ogni altro identifica i Free, quel riff micidiale che ti entra in testa e non esce più, quella All Right Now che sarà il tratto distintivo del gruppo per sempre. Dopo qualche mese verrà Highway, poi un temporaneo scioglimento, un bel disco live (Free Live) e una mesta conclusione con Free At Last. Ma la magia di Fire And Water non tornerà più e quel territorio musicale tra Cream e Led Zeppelin rimarrà, purtroppo, sguarnito.


pop

lunedì 23 maggio 2022

Recensioni. Caravan "If I Could Do It All Over Again, I'd Do It All Over You"


 

Caravan

IF I COULD DO IT ALL OVER AGAIN, I’D DO IT ALL OVER YOU

Decca 1970

Parzialmente oscurato dal loro indiscusso capolavoro, IN THE LAND OF GREY AND PINK, IF I COULD DO IT…è il secondo disco dei Caravan e senz’altro uno dei lavori fondamentali del Canterbury Sound. Stessa formazione dell’album d’esordio, Richard Sinclair al basso e alla voce, David Sinclair organo e piano, Richard Coughlan alla batteria e Pye Hastings alla voce e alla chitarra elettrica e acustica, IF I COULD DO IT…vede anche la maggiore presenza di Jimmy Hastings (fratello maggiore di Pye Hastings) al flauto e al sax che imprime una decisa svolta rispetto al primo disco.

Le aperture jazzistiche sono in gran parte determinate proprio dai suoi interventi, supportati  dal lavoro armonico di David Sinclair. Significativa, da questo punto di vista, la suite finale Can’t Be Long Now, con un inizio dal vago sapore folk, morbido ed etereo, uno stupendo assolo di basso, e poi spazio ad un energico riff e agli interventi di sax e flauto che spostano la musica in ambiti jazz rock.  Il resto del disco è un abile alternarsi di atmosfere pop e brani più elaborati, ben suonato e con una precisa identità stilistica, più matura e distante dagli episodi beat del primo album. La title track è un mirabile esempio di catchy pop song, tipica canzone in salsa canterburiana, all’apparenza semplice ma finemente elaborata e, in questo caso, con un 7/4 davvero inaspettato e imprevedibile.  Da segnalare ancora un bellissimo assolo di David Sinclair su As I Feel I Die e l’altra affascinante suite, With An Ear To The Ground You Can Make It, ricca di aperture e di spazi soffici,   penetranti riff e un finale alla Terry Riley. Ma tutto l’album è ben suonato e mostra una  maturità compositiva notevole, avvincente preludio allo stupendo IN THE LAND OF GREY AND PINK.    

pop

domenica 1 maggio 2022

Recensioni. Soft Machine "Third"


 

Soft Machine

THIRD

CBS 1970


E’ il capolavoro dei Soft Machine, un doppio lp maestoso, sperimentale e lirico, elaborato e improvvisato. Quattro brani, uno a facciata, che portano a mirabile conclusione l’evoluzione della band, ora arricchita dalla presenza della sezione fiati di Keith TippettNick Evans al trombone, Lyn Dobson al flauto e sax soprano ed Elton Dean al sax alto, con quest’ultimo che diventerà stabilmente il quarto membro del gruppo. In più, a contribuire alle intriganti atmosfere sonore del disco, ci sono Rab Spall al violino e l’onnipresente Jimmy Hastings al flauto e al clarinetto basso. L’idea di allargare la formazione nasce, secondo Mike Ratledge, dal fatto che il gruppo scriveva sempre di più, passava molto tempo a comporre e le partiture avevano bisogno di più musicisti per essere suonate. Effettivamente le nuove composizioni hanno una struttura elaborata, vicina alle sonorità jazz rock ma anche al minimalismo di Terry Riley o a certe atmosfere alla Frank Zappa. Tutto il disco è ricolmo di situazioni diverse; temi complessi, riff, improvvisazioni, loop e rumorismi vari, con il versante pop del gruppo messo nettamente in secondo piano. L’unico brano cantato è la splendida Moon In June, composta e quasi tutta interamente suonata da Robert Wyatt. Un preludio alla sua emarginazione e al definitivo allontanamento che avverrà dopo la pubblicazione del quarto disco dei Softs Le altre composizioni sono a firma di Mike RatledgeSlightily All The Time e Out-Bloody-Rageous, e Hugh Hopper, con Facelift. La ricchezza dei temi, sovente esposti dalla sezione fiati, e l’ampio spazio alle improvvisazioni hanno spesso portato THIRD nell’alveo jazz rock, accostato al BITCHES BREW di Miles Davis. Ma il disco è lontano dai cliché del genere e la vicinanza al capolavoro di Davis è solo in parte ravvisabile, perché il lavoro dei Softs raggiunge un’ideale fusione di linguaggi differenti dando alla loro musica una sonorità affatto originale, frutto di più influenze e soluzioni.


pop

venerdì 29 aprile 2022

Recensioni. King Crimson "Lizard"


 

King Crimson

LIZARD

Island Records, 1970

Dopo l’abbandono di Michael GilesIan McDonald e Greg Lake i King Crimson, pur reduci dal successo del loro secondo lavoro, IN THE WAKE OF POSEIDON, si trovano in una fase di estrema difficoltà. Robert Fripp e Peter Sinfield decidono comunque di continuare e reclutano a tempo pieno Gordon Haskell, basso e voce, e Andy McCulloch, batterista dei  The Shy LimbsHaskell, amico di scuola di Fripp, aveva già partecipato alle registrazioni di IN THE WAKE OF POSEIDON, così come il fiatista Mel Collins, al quale viene offerta l’opportunità di essere un membro permanente dei nuovi King Crimson Così stabilizzata la formazione, anche se con una sezione ritmica poco convinta del progetto, il gruppo entra in sala per registrare LIZARD. Come per l’album precedente anche in questo caso viene coinvolto il pianista jazz Keith Tippett e, con lui, una parte della sua sezione fiati, Marc Charig alla cornetta e Nick Evans al trombone, più l’oboista Robin Miller. Il lavoro risente ovviamente del difficile periodo di transizione della band, ma nonostante questo LIZARD è un disco affascinante e complesso, con calibrate aperture jazzistiche e improvvisative, unite a interludi sinfonici, sperimentazioni e momenti classicamente rock. Lady Of The Dance Water è una tipica ballata crimsoniana, sulla scia di I Talk To The Wind e Cadence And Cascade, mentre l’apertura del disco, Cirkus, offre un Fripp sensazionale alla chitarra acustica e un bel solo di Mel Collins al sax. Indoor Games, dall’andamento contorto, è un rock caracollante con incisive inserzioni di fiati, mentre Happy Family, dedicata allo scioglimento dei Beatles, ha un sapore jazz rock. La seconda facciata è interamente occupata dalla lunga suite Lizard, e si apre con la bella voce di Jon Anderson, degli Yes. Le varie sezioni offrono un ampio spettro sonoro: la musica passa da atmosfere sperimentali a oscure melodie suonate dal corno inglese, da improvvisazioni free ad aperture prog, confermando la varietà di influenze, di sapori e di soluzioni che i King Crimson hanno sempre offerto. LIZARD viene pubblicato l’11 dicembre del 1970, ma a novembre, dopo soli tre giorni di prove per allestire il live, Gordon Haskell se n’era già andato e dopo di lui anche McCollock. E per i King Crimson di FrippSinfield e Collins è già tempo di riorganizzarsi.


pop

domenica 24 aprile 2022

Recensioni. Art Bears "Winter Songs"


Art Bears

WINTER SONGS
Recommended 1979




 

Dopo aver pubblicato HOPES AND FEARS, e scioltisi definitivamente gli Henry Cow, gli Art Bears di Dagmar KrauseFred Frith e Chris Cutler entrano in studio per registrare il loro secondo lavoro, WINTER SONGS. In realtà possiamo considerare quest’ultimo come il loro vero e proprio primo album perché registrato solo in trio e senza più la presenza  del gruppo madre, appunto gli Henry Cow. Il disco è ispirato alla facciata della cattedrale di Amiens e gran parte dei brani ne descrive alcuni bassorilievi. Pur non essendo propriamente un concept, le musiche di Frith, i testi di Cutler e la stupenda e teatrale voce di Krause ci accompagnano in una sorta di visita alla cattedrale con evidenti implicazioni filosofiche e politiche. E’ un disco di canzoni ma qui la struttura è trattata in modo radicale pur non rinunciando ad evidenti e suggestivi momenti di cantabilità. 
L’inizio inquietante, con organo e voci sovrapposte, ci introduce immediatamente alle atmosfere prevalenti dell’intero album: atonalità, spazi, spigolosità, aree melodiche all’interno di estetiche prog. Le 14 canzoni alternano elementi dissonanti a richiami agresti conturbanti, con The Skeleton che approccia una danza funerea in 6/8 o la splendida melodia di The Hermit caratterizzata da una chitarra acustica che ricorda le delicate atmosfere del folk inglese. Lo spazio scuro e tenebroso di Gold fa da contrasto al ritmo regolare e dal sapore jazz rock di The Summer Wheel, fino ad arrivare al commiato triste e sussurrato di Three Wheels. Il disco è stato registrato nello studio Sunrise di Etienne Conod e l’impostazione e la configurazione dei suoni è stata stabilita prima della registrazione senza effettuare nessun lavoro di post produzione.  Un disco cardine del Rock In Opposition.


pop

venerdì 15 aprile 2022

Recensioni. Robert Wyatt "The End Of An Ear"

 


Robert Wyatt

THE END OF AN EAR

CBS 1970

Disco d’esordio della carriera solista di Robert Wyatt, THE END OF AN EAR è un lavoro complesso, ardito, sperimentale. Dopo le tensioni dovute alle registrazioni di THIRD dei Soft MachineWyatt decide di voler registrare un suo disco dando spazio alle suggestioni ricevute dalle sue numerose frequentazioni con musicisti di estrazione jazzistica. In realtà qui il jazz è fonte di ispirazione ma l’approccio è totalmente libero da cliché e confini prestabiliti. 

Significativi sono i musicisti che partecipano alla registrazione: Elton Dean al saxello, Marc Charig alla cornetta e Neville Whitehead al contrabbasso, esponenti della scena jazz inglese e assidui frequentatori di gruppi prog, Soft Machine e King Crimson tra gli altri. Poi David Sinclair all’organo, membro dei Caravan e uno dei musicisti cardine della scena canterburiana, il fratellastro di Robert, Mark Ellidge, al piano e Cyril Ayers alle percussioni.  Il disco si apre  con una composizione di Gil Evans, Las Vegas Tango Part One (Repeat), ovviamente totalmente rivisitata, ricca di effetti vocali e frasi tematiche interrotte e modificate. Una specie di flusso sonoro che attraversa un po’ tutto il disco. Gli altri brani sono tutti a firma di Wyatt e sono un ricco omaggio a musicisti della scena di Canterbury, e non solo. Si va da To Mark Everywhere, dedicato a Mark Ellidge con un incedere iniziale molto rock ma sporcato dai fiati, a To Saintly Bridget, dedicato all’amica artista Bridget St John, sicuramente più vicino all’estetica free jazz. To Oz Alien Daevid And Gilly è chiaramente dedicata a Daevid Allen e Gilly Smyth, mentre To Nick Everyone, per il trombonista Nick Evans, è caratterizzata da fraseggi di fiati, con un irruento finale caotico arricchito dal pianoforte di Mark Ellidge. 

Si continua con gli omaggi ai Caravan e a Jimmy Hastings, passando per Kevin Ayers e il suo gruppo The Whole World. In To Caravan And Brother Jim le atmosfere sono dolci, con una batteria cadenzata e un pianoforte a tratteggiare una melodia dal forte sapore jazzistico per poi tramutarsi in una sorta di outtake del secondo disco dei Softs. L’omaggio ad Ayers è un pastiche rumoristico, buffo e ironico. Il disco prosegue con un’altra sorta di ballad jazz sporcata dall’organo, melodioso omaggio a Carla BleyMarsha Hunt e Caroline Coon, per poi concludersi con Las Vegas Tango Part 1, stravolta  dai vocalizzi wyattiani e con un ritmo costante, ipnotico. Disco assolutamente unico, un esplosione di sperimentalismo dadaista che acquista sempre più senso e valore con gli anni.


pop

giovedì 7 aprile 2022

Recensioni. Gong "Magick Brother"

 



Gong

MAGICK BROTHER

BYG 1970

È il primo album a nome Gong, ma effettivamente possiamo definirlo un disco di Daevid Allen e Gilli Smith. Bloccato alla frontiera tra Francia e Gran Bretagna a causa del permesso di lavoro scaduto e quindi fuori dai Soft Machine, Daevid si stabilisce a Parigi dove l’atmosfera di rivolta e creatività che attraversa la capitale francese nella seconda metà degli anni '60 lo porta a sperimentare e a mettere in musica le sue idee. Con a fianco la sua compagna di vita Gilli Smith, inizia a frequentare la rive gauche parigina come artista solista e come duo, fino ad utilizzare, lentamente, la sigla Gong, un nome che gli era apparso nelle sue frequenti visioni durante le residenze a Deya, nelle Baleari. Notati persino da Yoko Ono e Don CherryDaevid Allen e Gilli Smith, nella loro prima ed acerba incarnazione a nome Gong, iniziano a farsi un nome nell’ambiente parigino e così Jean Karakos, il proprietario della BYG, etichetta francese che già pubblicava i lavori dell’Art Ensemble Of Chicago, propone ad Allen un contratto per registrare tre album a suo nome.  L’ensemble che registra Magick Brother vede la presenza di Didier Malherbe al sax soprano e al flauto e Rachid Houri alle tabla e alla batteria, entrambi protagonisti nelle successive edizioni dei Gong. Ma anche veri e propri jazzisti come Barre Philips al contrabbasso e Earl Freeman al piano, tutti e due facenti parte di quell’area sperimentale del jazz, tra free e improvvisazione libera. Il disco è ricco di idee e spunti che poi saranno più compiutamente elaborati quando Daevid avrà intorno a sé una vera e propria band. Si passa dalla sinuosa e moderatamente cosmica Rational Anthem, con un inaspettato finale, alle sperimentali e surreali atmosfere di Princess DreamingGlad To Sad To Say è riflessiva, dall’incedere lento ed etereo, mentre Ego ricorda i primi Soft Machine, bizzarri e dadaisti. In generale tutto il lavoro è permeato dalle sonorità e dalle atmosfere psichedeliche alla Syd Barrett, con in aggiunta l’esplosiva creatività di un Allen che compone, canta e suona in modo totalmente libero, scanzonato, allegro. Ultima nota: Gong Song preannuncia la mitologia del pianeta Gong, i suoi Pot Head Pixies e le fantastiche avventure di Zero The Hero, l’ultimo vero e ineguagliato freak della storia del rock.  


pop


sabato 2 aprile 2022

Recensioni. Area "Event 76"


 

Area

EVENT 76

Cramps, 1979

Impegnati nella realizzazione del concept album MALEDETTIgli Area, senza più Giulio Capiozzo e Ares Tavolazzi, vengono invitati a suonare all’Università Statale di Milano, occupata dal movimento studentesco,  il 27 ottobre del 1976. I tre membri rimanenti del gruppo, Demetrio Stratos  Paolo Tofani e Patrizio Fariselli, invitano a suonare con loro anche il sassofonista Steve Lacy e il percussionista Paul Lytton, già coinvolti nelle registrazioni di MALEDETTIIl concerto sarà una incredibile performance che lascerà disorientati pubblico e critica ma che rappresenta al massimo la voglia e la capacità di sperimentare nuovi mondi sonori propria degli Area
Ai musicisti vengono dati dei foglietti con su scritto delle indicazioni sulle quali improvvisare liberamente: Ipnosi, Silenzio, Violenza, Ironia, Sesso. Ogni tre minuti i musicisti devono scegliere a caso un nuovo foglietto e quindi cambiare improvvisazione. Era una pratica creata da John Cage anni prima per un gruppo di jazzisti di Chicago. Caos II (parte prima) è un lungo happening  di circa 20 minuti dove i musicisti offrono ad un incredulo pubblico una serie di eventi sonori ruvidi, irregolari, talvolta lancinanti e caotici, con una gamma espressiva di altissima qualità. Intorno al minuto 18 emerge in splendida solitudine il sax soprano di LacyCaos II (parte seconda) è molto più breve ed ha un inizio suggestivo, con gli acuti di Stratos in lontananza. Dal minuto 6 alla fine ci sono degli affascinanti dialoghi tra Stratos e Fariselli, con i puntuali interventi di Lacy, e poi Tofani e ancora Fariselli, sempre puntellati dal sax soprano e dalle percussioni.
Event 76 è una variazione sul tema di Scum, appena registrato su MALEDETTI. Inizia con una serie di accordi del pianoforte che sfociano in un magma sonoro dal quale emerge il fraseggio pulito di Lacy con il contrappunto di Tofani. Subentrano poi delle percussioni tribali con il sax  che continua ad improvvisare melodico e in sottofondo il pianoforte scuro, profondo, di Fariselli. Il finale è contraddistinto da un avvincente improvvisazione di Lytton e Lacy ai quali si aggiungono Stratos Tofani e Fariselli in un crescendo angosciante ed allo stesso tempo liberatorio. Una grande prova di un gruppo che non ha mai perso la voglia di sperimentare.


pop

Recensioni. Idris Ackamoor & The Pyramids "Shaman!"

 




                                                Idris Ackamoor & The Pyramids

SHAMAN!

Strut 2020

Il terzo capitolo della trilogia afro-spirituale di Ackamoor e dei suoi Pyramids arriva dritto al cuore, muove le coordinate verso ambiti introspettivi, pur non rinunciando completamente a tematiche più propriamente politiche. Dal suo ritorno sulle scene nel 2016 con We Be All africans (mentre An Angel Fell è del 2018) Bruce Baker, alias Idris Ackamoor, ha sviluppato una sua estetica sicuramente in linea con le ultime tendenze black, tra groove, improvvisazioni modali, fascinazioni afro, correnti funk e echi del faraone Sanders, nonché dei ColtraneJohn e Alice, senza certo dimenticare le incursioni spaziali di Sun Ra. Ma in questo caso il giovane allievo di Cecil Taylor (è stato, agli inizi degli anni ’70, nel Cecil Taylor Black Music Ensemble) ci mette parecchio del suo grazie a un collettivo coeso, ricco di eccellenti e brillanti performer, valga per tutti l’affascinante violino elettrico di Sandra Poindexter che illumina e colora di originalità tutto l’album. Inoltre, per l’occasione, ritrova al suo fianco la flautista e compositrice Dr. Margaux Simmons, fondatrice, insieme ad Ackamoor e a Kimathi Asante dei primi Pyramids, quelli degli anni ’70, quando il gruppo girava tra Africa, Europa e Stati Uniti. Il disco è diviso in quattro parti, e la terza (Upon Whose Shoulders We Stand) è forse la più vigorosa, con una Salvation che commuove sotto le energiche scorribande del tenore di Ackamoor, suoni che rimandano al Coltrane più spirituale e stellare, mentre Theme For Cecil (chiaro omaggio al suo mentore Cecil Taylor) è caratterizzata da una ritmicità dal sapore tribale e con il sax alto del leader che illumina tutto il brano, ben coadiuvato dalle improvvisazioni della Simmons. La prima parte di Shaman! (Fire Rites Of Penance) ha un andamento più levigato, con la title track dall’inizio lento, quasi una ballad, e una parte centrale afrobeat, call and response e agili e intense frasi tematiche, seguita da una Tango Of Love anch’essa divisa in due parti, simile al brano d’apertura, arricchita da splendidi assoli della Poindexter, della Simmons e di Ackamoor stesso. A Glimpse Of Eternity, la seconda parte dell’lp, si apre con quella sorta di mambo orientale che è Eternity, atmosfere alla Sun Ra attraversate dai flussi free del sax tenore di Ackamoor , e prosegue con When Will I See You Again? un forte richiamo all’attualità, alle uccisioni di massa di Columbine, San Bernardino, Las Vegas, Parigi, Berlino, Young and old die before their timeIn thew wrong place at the wrong timeYour life can change at the drop of time, venature soul di stampo english, per un disco prodotto e mixato a Londra dal co fondatore e produttore degli Heliocentrics Malcom Catto. La chiusura dell’album è affidata alla memoria del popolo afroamericano: 400 Years The Clotilda (l’ultima nave schiavista), scorre tra richiami afro-futuristi (Virgin), sonorità psichedeliche (The Last Slave Ship) e spiriti subsahariani (Dogon Mysteries), per un lavoro splendido, evocativo, ancestrale, un tuffo spirituale tra echi del passato e concreti sguardi sul futuro.

 

pop

mercoledì 30 marzo 2022

Recensioni. Henry Cow "Western Culture"

 



                                                                         Henry Cow
                                                                 WESTERN CULTURE
                                                                       Broadcast 1978

E’ il loro ultimo disco, una sorta di testamento per le generazioni future e un affresco per nulla roseo della civiltà occidentale. Nel 1978 gli Henry Cow, nonostante i primi segnali di crisi e di affaticamento, decidono comunque di tornare  in studio per registrare un altro lp. Non ci sono più John Greaves, impegnato con i National Health, e Dagmar Krause, per problemi di salute. Il primo materiale registrato è composto per lo più da canzoni ma proprio per questo non sembra in linea con la storia e l’estetica di Henry Cow, così tutto quel repertorio va a finire nel primo disco degli Art Bears, formazione con Fred FrithChris Cutler e Dagmar Krause. Proprio queste discussioni intorno al repertorio portano alla decisione di terminare l’esperienza del gruppo,  con la registrazione di  nuovo materiale solo strumentale che sarà l’ultimo disco ufficiale degli Henry Cow, il primo in studio non per la Virgin ma per la loro etichetta, la Broadcast. 

l quartetto base  (Tim HodgkinsonLindsay CooperFred FrithChris Cutler) registra 7 tracce, le prime tre a nome di Hodgkinson, le altre tre di Lindsay Cooper e la settima scritta insieme dai due autori. 
Il primo brano, Industry, chiarisce immediatamente le coordinate musicali dell’intero disco: musica contemporanea, Zappa, dissonanze e improvvisazioni libere innestate su brani dai rapidi cambiamenti e dai tempi intricati, atmosfere inquietanti, aperture consonanti e spazi cerebrali. The decay of cities si apre con una chitarra acustica vagamente canterburiana (dalle parti di Hatfield e National Health) per poi sfociare in atmosfere tipicamente zappiane. Verso la fine del brano sembra di ascoltare i Soft Machine di Third. Il terzo brano, On the raft, ci porta in ambito jazz inglese, con  una intrigante melodia contraddistinta da un bell'impasto di fiati. I brani di Lindsay Cooper hanno un sapore più vicino alla musica “colta”, con passaggi Progressive e sperimentazioni varie. Gretel’s tale è impreziosito dalle improvvisazioni alla Cecil Taylor della pianista Irene Schweizer,  mentre il breve Look back, dalle atmosfere delicate, sembra quasi musica da camera. La chiusura è affidata alla stupenda e solare Half the sky,  attraversata da un sax soprano che improvvisa gemendo piccoli suoni e frasi spezzate, con un finale tipicamente prog. La ristampa in cd contiene tre bonus tracks. E’ la conclusione della vicenda Henry Cow, ma i protagonisti saranno comunque ben attivi per tutti gli anni ’80 e oltre con progetti e dischi di assoluto valore.




pop

lunedì 28 marzo 2022

Recensioni. Matthew Halsall "Salute to the Sun"

   




                                                                Matthew Halsall

                                                            SALUTE TO THE SUN

Gondwana Records 2020

C’è un fascino misterioso, ammaliante, che cattura al primo ascolto, in questo nuovo lavoro del trombettista di Manchester Matthew Halsall. Seppur non originalissimo come proposta, nondimeno Salute To The Sun ha una sua estetica ben definita e con alcuni lati assai pregevoli. Prima di tutto l’uso delle dinamiche, non così frequente in ambito popular, un saper espandere la materia sonora, allargarla e restringerla provocando un moto ondoso a bassa intensità. E poi lo spazio, il respiro, una profonda estensione dei confini che porta i brani a solcare distese illimitate: si potrebbe star lì ad ascoltarli per ore e ore, senza mai stancarsi.  Forse è il frutto della Meditazione Trascendentale, della quale Halsall è un seguace, comunque è musica, questa di Salute To the Sun, che profonde spiritualità e serenità, accanto a quel fascino impalpabile, quasi sotterraneo e che spesso fa affidamento sulle eccelse qualità dei musicisti coinvolti. Halsall ha un suono limpido, chiaro, definito, pulito. A tratti ricorda Ian Carr, e quindi è pienamente nel solco davisiano, ma possiede un proprio suono, originale e brillante nelle improvvisazioni, costruttore infaticabile di racconti sonori, meditativo. Grande spazio è riservato al sassofonista e flautista di Leeds Matt Cliff, anch’esso limpido e pulito sia nell’esposizione tematica che nelle improvvisazioni. E fondamentale, nell’economia del suono, appare anche l’arpa di Maddie Herbert, che porta Salute To The Sun nell’alveo coltraniano, ovviamente più quello di Alice che di John. Ritmica impeccabile, agile, leggera e allo stesso tempo incisiva nel sorreggere e stimolare le storie dei solisti, nell’adagiare con calma e precisione la musica. Liviu Gheorghe al piano, Gavin Barras al basso e Alan Taylor alla batteria forniscono una cornice adeguata alle introspezioni sonore, amalgamandosi con cura e rendendo mai noiosa l’atmosfera, che pur potrebbe correrne il rischio. Quasi non è necessario elencare i brani perché il livello è omogeneo per tutto il disco (ma The Energy Of Life, a chiusura dell’album, merita una menzione speciale con quel suo irresistibile tema), a farne di fatto un libro sonoro sulla meditazione e sull’uso delle improvvisazioni modali, con quel tocco di orientale che ogni tanto sposta l’accento sull’etno jazz. Ma davvero siamo lontani da banalità e formule stantie, la freschezza e l’estrosità di Salute To The Sun è ineccepibile, tale da farne uno dei migliori dischi del 2020. E con ragione.   

 

Matthew Halsall, trumpet

Matt Cliff, saxophone, flute

Maddie Herbert, harp

Liviu Gheorghe, piano, kalimba, marimba

Gavin Barras, bass

Alan Taylor, drums

Jack McCarthy, percussion

Tom Harris, kalimba


pop

Recensioni. Kevin Ayers and The Whole World "Shooting at the Moon"

  Kevin Ayers And The Whole World SHOOTING AT THE MOON Harvest 1970 Il secondo album solista di Kevin Ayers vede al suo fianco, al co...