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mercoledì 18 settembre 2019

Ancora su scrittura e improvvisazione

Tornando ai collegamenti tra scrittura e musica vorrei soffermarmi ancora sull'argomento "indispensabile". Parlando di Bailey e Coe e del loro disco Time, ho fatto riferimento a delle frasi di Raymond Carver (Tempo. O dell'indispensabile!) perché la musica di quel duo sembra contenere quell'essenzialità, quella capacità di arrivare dritti al punto propria dello scrittore americano. Nulla è superfluo, ogni nota e ogni parola servono per costruire il racconto, musicale o letterario che sia.
Ma è l'unica modalità questa? Cioè siamo obbligati, al fine di raggiungere l'obiettivo, ad essere essenziali, avari di effetti? Di limitare la nostra azione all'indispensabile, di dosare con cura gli elementi a nostra disposizione per costruire una narrazione perfetta?


Prendiamo Philip Roth. Al di là del fatto che Carver scriva racconti e quindi, probabilmente, il format costringa l'autore alla stringatezza, la scrittura di Roth è per certi versi agli antipodi. 
In Pastorale Americana, in uno dei momenti più intensi del libro, lo scrittore di Newark riesce a prendere tempo descrivendo con cura il plastico in miniatura della nuova casa dello Svedese e di sua moglie, come se volesse ritardare volutamente il culmine, lo zenit della narrazione, posticipando la risoluzione in un continuo alternarsi di sottodominanti e dominanti che non risolvono, per usare un linguaggio musicale. 
In realtà Roth sembra utilizzare il fiume di eventi, descrizioni, deviazioni, per immergerci nel racconto, in un mondo che è proprio costruito attraverso un alto numero di percorsi, quasi a farci perdere la ragione. Immissione di una quantità di elementi che elaborano, chi in maniera decisiva chi secondariamente, la narrazione come fosse una sorta di uragano che ci prende e ci trasporta altrove. 
Ovviamente il trovarsi di fronte un romanzo o un racconto, ripeto, incide alquanto nella costruzione del linguaggio. Ma non è solo questo. E' proprio un approccio differente che prescinde dal formato. Questa modalità ha, come ulteriore caratteristica, quella di portare il lettore, o l'ascoltatore, in un continuo saliscendi di emozioni, come se non ci fosse un obiettivo finale ma un continuo, per l'appunto, alternarsi di tensioni senza soluzione di continuità. Laddove invece l'approccio "essenzialista" punta a crescendi con inaspettate risoluzioni, lasciando da parte gli orpelli e le divagazioni per puntare dritto al finale, alla catarsi.
Come tradurre tutto ciò in musica? Come riuscire a improvvisare costruendo una narrazione fatta di continui rimandi, divagazioni, tensioni e mancate risoluzioni?
In realtà sembra molto più facile questo approccio che l'altro. Siamo, di solito, portati a suonare molto, e ci riesce complicato fermarci, ascoltare gli altri, stringere all'essenziale. Ma la quantità di note non è automaticamente sinonimo di ampia costruzione, di racconto elaborato e ricco di percorsi. Anzi. Spesso produciamo solo confusione o indeterminatezza.
Un musicista che sembra essere una sorta di alter ego dello scrittore Philip Roth, almeno per quanto mi riguarda, è Lee Konitz.


L'accostamento può risultare ardito a prima vista, ma tutto sommato non penso sia così lontano dalla realtà. Non voglio solo fare riferimento alla comune origine ebraica, alla capacità e alle risorse che questa cultura possiede in fatto di narrazione e racconto. Nel caso dello scrittore americano questo retaggio è ben presente nelle sue opere, mentre Konitz non ha mai dato troppo peso a questa dimensione culturale (Andy Hamilton, Lee Konitz. Conversazioni sull'arte dell'improvvisatore, EDT, Torino, 2010). Eppure i due possiedono realmente quell'arte di raccontare le storie che rimanda alla millenaria cultura ebraica. Nel loro specifico campo costruiscono personaggi che intrecciano le loro vicende in un fluire narrativo avvincente. E mentre per Roth tutto ciò sembra in parte scontato, essendo uno scrittore, questo vale anche per Konitz. In Motion, uno dei suoi capolavori,  pubblicato dalla Verve nel 1961 e registrato con Elvin Jones alla batteria e Sonny Dallas al contrabbasso, il sassofonista delinea storie che contengono al proprio interno diverse trame, protagonisti e controsoggetti  che trasportano l'ascoltatore nel racconto. Lo fa con una musicalità descrittiva, senza il furore e la drammaticità dei musicisti afroamericani, ma nondimeno narra, crea short stories intricate, fitte di eventi e personaggi che fluiscono dentro le improvvisazioni.  Possiamo sederci all'ascolto di Motion come se stessimo leggendo un libro, pronti ad essere trascinati in avventure raccontate con passione e maestria, attraversati, talvolta, da un profondo senso di dolore subito stemperato dall'estro e dall'ironia. Trame millenarie che viaggiano nel tempo.

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