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mercoledì 8 giugno 2022

Lettere al Direttore (7)




Caro Direttore,

Nel mio peregrinare mentalmente per i fatti e le cose della vita, spesso mi soffermo ad osservare il buffo e il grottesco del nostro modus vivendi.

Per esempio, lei ha mai riflettuto sul fatto che abbiamo molti più ristoratori che dottori? Mi dirà che questo è segno di una vita allegra e spensierata. Dubito fortemente che sia così, soprattutto in questo periodo di pandemie. Ma di bizzarrie causate dal consumismo che sorregge ogni nostro gesto ne potremmo citare a migliaia, magari mettendoci nei panni di un extraterrestre in visita sul nostro pianeta per la prima volta, ignaro dei nostri usi e consumi.

Osservarci con gli occhi e la mente completamente sgombri dalle consuetudini e dal vissuto è certe volte assai stimolante perché illumina azioni e oggetti che diamo per scontati, ormai assuefatti all’esistente.

Devo dirle, a questo proposito, che fra tutte le bizzarrie che ho rilevato durante questo esercizio mentale, ce n’è una che mi sembra tra le più assurde: la vendita, e il conseguente acquisto spesso a caro prezzo, di pantaloni jeans strappati, con l’aspetto già logoro.

Sono stati, negli anni Settanta, uno dei simboli della contestazione, del rifiuto di una società perbenista, una sorta di protesta contro il consumismo. Ebbene, proprio questo simbolo è stato completamente rovesciato, sussunto dal mercato e reso non solo innocuo ma, di più, oggetto esso stesso di consumo. Questo capitalismo predatorio e allo stesso tempo futile è riuscito a rendere appetibile l’acquisto di pantaloni strappati, con i buchi, lisi, dall’aspetto vissuto ma falso. Ci ha reso persino incapaci di “usare” i nostri vestiti, di consumarli noi stessi. Fenomenale e, a suo modo, un emblema delle nostre società.   

Sono sicuro che anche lei, Direttore, sarà d’accordo con me nel deprecare la follia di un tale sistema che, giorno dopo giorno, ci sta portando verso l’estinzione. Tutta colpa di un paio di jeans strappati? Forse…

La saluto cordialmente

Edmondo Fabbri

Suo assiduo Lettore 

domenica 10 aprile 2022

Lettere al Direttore (4)

  



Egregio Direttore,

Non prenda questo mutamento di registro, questa mia apparente distanza, quest’abbandonare il tono confidenziale come un qualcosa nei suoi confronti. Tutt’altro. È che il mio stato di questi giorni m’impone un certo distacco, anche con lei che ha avuto finora la pazienza di leggermi. Ho realizzato con profondo stupore alcuni cambiamenti che riguardano la mia persona. Isolato nelle incertezze e nei dilemmi esistenziali, non ho visto lo scorrere del tempo sul mio corpo, sul mio viso, sui miei occhi. Questi due anni sono stati difficili e assai inusuali per tutti. Ma la mia mente si è come rifiutata di constatare come questo periodo di tempo costellato da pandemie e guerre, abbia impresso un cambiamento soprattutto fisico. Non nego che anche il mio pensiero ne abbia subito i contraccolpi, ma credo che questi siano in larga parte positivi. O almeno lo spero. Il mio interrogarmi costantemente, la necessità di approfondimento, la dialettica e l’autocritica, anche il pessimismo, a suo modo, mi sembrano elementi e caratteristiche in gran parte positivamente sviluppate in questo triste periodo storico. 

Ma, vede Direttore, l’altro giorno mi sono fermato per un attimo di fronte allo specchio, così, per riflettermi con calma. E ho visto improvvisamente mio padre sul mio viso. Ho visto i segni e l’espressione del suo volto sul mio volto, sul mio collo. Ma era mio padre anziano, o così come lo vedevo io quando ero giovane. L’espressione, lo sguardo, il lieve sorriso e la cupezza. La fatica e l’insopprimibile sensazione di essere arrivati vicini alla fine, o quantomeno non lontani. È stato un attimo, veloce ma intenso. Poi, inquieto, ho spento la luce e sono andato via. Non è facile affrontare la vecchiaia, e non sempre è semplice avvedersi del suo arrivo, ma in quell’istante, davanti allo specchio, ho visto il me anziano, mai come in quel momento simile a mio padre. E ciò mi ha spaventato, disilluso allo stesso tempo. Non so quanti anni abbia lei, Direttore, anche se credo sia più giovane di me. E allora mi sono detto, perché avere toni confidenziali, porre domande o argomenti ad una figura che avrà certamente prospettive più rosee delle mie, visioni di un futuro diverso, molte di più di quante ne abbia io. Ho pensato comunque di scriverle, di mostrarmi epistolarmente nella mia nuova dimensione. Certo che lei capirà, comprenderà e magari ne troverà motivi di riflessione e di approfondimento. Io, dal canto mio, cercherò di tuffarmi nelle attualità, provando a vivere più intensamente, al netto delle brutte vicende che ci coinvolgono e ci circondano, questo tempo di vita.   Spero veramente di non averla annoiata, o peggio turbata. Consideri questa mia come uno sfogo, un’inquieta esternazione dal carattere…senile. È la parola giusta!

Cordiali Saluti

Edmondo Fabbri, suo assiduo Lettore

lunedì 4 aprile 2022

Lettere al Direttore (3)

 




Caro Direttore,

eccomi di nuovo a lei, sperando di non essere troppo invasivo nei suoi confronti. Le devo confessare che rivolgermi in questa forma epistolare mi dà conforto, e allo stesso tempo stimola le mie facoltà mentali, ahimè un po’ arrugginite dallo scorrere del tempo. La sento come un confidente, una spalla sulla quale di tanto in tanto poggiarmi. Ma, ripeto, non vorrei abusare del suo tempo e della sua pazienza.

Le scrivo senza una ragione particolare, senza un argomento specifico, ma solo per esternare un malessere generale riguardo lo stato delle arti. Dirà lei, ma non è un argomento anch’esso, seppur ampio e difficile da affrontare e approfondire? Ha ragione Direttore, ma il mio è veramente un pensiero superficiale, un disagio che vivo in lontananza, essendomi oramai ritirato dalla mondanità. Osservo dal mio rifugio l’inesorabile deriva individualista che non sembra incontrare ostacoli, pervadendo tutti i settori dell’arte. E mentre logico appare il successo in ambiti commerciali, più serio e preoccupante è vedere come queste dinamiche siano ormai moneta corrente anche nei mondi cosiddetti alternativi.

La dura competizione per il successo individuale è la cornice dominante entro la quale si formano i giovani artisti, prodotto e conseguenza del sistema economico e politico occidentale, e tutto ciò che implica un ambito collettivo viene scientificamente omesso o osteggiato come sedicente dittatura. Cosa sono, per esempio, i cosiddetti Talent Show se non la chiara rappresentazione della lotta per le classifiche, i like, l’autopromozione, le invidie e le gelosie, il successo effimero o quello duraturo che premierà solo uno o una tra loro, relegando gli altri e le altre nell’anonimato. Un mondo fatto di costante competizione, di sottolineatura dei soli elementi individuali, come la forza di volontà, il credere nei propri mezzi, o altre baggianate simili, escludendo intenzionalmente le condizioni materiali nelle quali viviamo, l’organizzazione del sistema, il profitto dietro ad ogni espressione culturale, il mercato onnivoro che tutto ingloba e depotenzia rendendo qualsiasi cosa oggetto da comprare o vendere.

Ma se tutto questo riguarda la sfera commerciale, per l’appunto, anche le nicchie di resistenza, o almeno che sembrano tali, soffrono in parte della stessa malattia, dei nefandi effetti del realismo capitalista. E così, di fronte a crisi pandemiche e guerre, l’unica risposta sembra essere quella del cavarsela da soli in qualsiasi modo, raggranellare spiccioli di notorietà in piccoli ambiti ristretti, autopromuoversi e ostentare la propria, presunta, alterità. Il tutto ammantato da roboanti parole rivoluzionarie del tutto fuori luogo e atte a mostrarsi assolutamente politically correct e alternativi. Così gli spazi di resistenza all’omologazione si atomizzano sempre di più, fino a diventare assolutamente conformi e collaterali al mercato, una marginalità che spesso diventa trampolino di lancio per piccole carriere personali. Servirebbe invece creare ambiti il più possibile condivisi, interdisciplinari, dove dibattito, riflessione e produzione artistica abbiano un afflato collettivo, momenti comuni di resistenza e di promozione di nuovi linguaggi e nuove realtà. Solo in questo modo si potrebbe tentare di combattere il virus dell’individualismo e l’omologazione artistica. Caro Direttore, a me non sembra vedere molto di ciò all’orizzonte, ma forse mi sbaglio, o probabilmente non colgo i piccoli segnali che di tanto in tanto appaiono. Tuttavia, resto in attesa di essere smentito, magari da qualcuno o qualcuna che abbia ancora voglia di resuscitare una parola che, di questi tempi, sembra di per sé assolutamente rivoluzionaria: collettivo!

Cordiali Saluti

Edmondo Fabbri, suo assiduo Lettore

mercoledì 30 marzo 2022

Lettere al Direttore (6)

 



Caro Direttore,

Le scrivo con un leggero sorriso sul mio viso, quasi con una sorta di compiacimento. È buffo, lo so, ma appena ho saputo della sconfitta della nazionale italiana di calcio per mano di una sconosciuta del football mondiale quale è la Macedonia del Nord, la mia bocca si è increspata, i miei occhi hanno sommessamente brillato e io mi sono seduto placido sul divano.

Lei forse sa, caro Direttore, che il mio nome è omonimo del mitico allenatore Edmondo Fabbri, passato ahimè alla storia non per le sue qualità ma per la ormai non più storica sconfitta e conseguente eliminazione dai mondiali del 1966 con la Corea del Nord (buffa questa simmetria geografica nordista!). E dico con piacere non più storica, perché credo che quella sconfitta sia stata tutto sommato meno clamorosa di questa, avvenuta sere fa. Quale ironia per un paese che per il calcio ha una folle devozione, un credo immotivato e per certi versi immorale: mancare per la seconda volta di seguito la qualificazione ai Mondiali per colpa di un’anonima squadra.

Per anni ho coltivato una sorta di ammirazione mista a profondo dispiacere per quell’allenatore costretto a rimanere a bordo di un aereo per più di un’ora senza poter scendere a causa dell’ira dei tifosi, impazziti per l’inopinata sconfitta. Ora penso sia giunto il momento di lasciare in pace il mio omonimo, di dimenticarlo per quella trascurabile eliminazione a fronte di ciò che è avvenuto con gli onesti e sconosciuti macedoni, figli di un calcio d’altri tempi, povero e modesto, lontano certo dai fasti e dal denaro scintillante. È tempo di ridare dignità ad un personaggio che è stato sconfitto non dalla Corea del Nord ma dal suo stesso paese, inadatto ad accettare debolezze e umiltà. Viva Edmondo Fabbri.  

 

L’omonimo

Suo assiduo Lettore

Lettere al Direttore (5)



 

Direttore,

le scrivo così di getto, quasi di soprassalto, come per un’esigenza di liberazione. Mi trovo in strada, seduto ad un bar sotto un bel sole, caldo ma allo stesso tempo rinfrescante. Pur con tutto il piacere che questa momentanea dimensione mi provoca, le idee smuovono i miei sentimenti, acutamente. Non posso non riflettere sull’inconsistenza di un autentico pensiero progressista, rivoluzionario, utopista, e quindi sull’assenza pressoché totale di un protagonismo degli sfruttati, imbrigliati e imbrogliati sempre più in discorsi e rivendicazioni nazionaliste, regressive, collaterali al Mercato. E’, questa assenza, motivo del mio pessimismo e, in un quadro generale, causa del nostro scontento e dei pericoli che corriamo in questo momento. Ma la tristezza si acuisce quando vedo sparuti rimasugli di quella che un tempo fu una grande forza di emancipazione, prendere le mosse di volta in volta di questo o quel personaggio, provocando nei fatti una sorta di tifo del nemico del mio nemico. È proprio questo agire che mostra la subalternità ai discorsi dominanti, alle azioni e alle dinamiche del Capitale, senza una reale possibilità di poter incidere sui nostri destini e sul futuro del pianeta. Si tenta di rispondere all’abbandono degli ideali di cambiamento compiuto da una larga parte della sinistra storica, ormai pienamente inserita nell’ambito dell’esistente, con riflessi condizionati del passato, ricercando di volta in volta presunti alleati che in realtà non sono altro che diverse facce della stessa medaglia. 

 Servirebbe invece un’altra voce, un altro punto di vista, altre idee che provino a sovvertire realmente l’esistente. Invece di essere rinchiusi nella morsa degli eventi dovremmo cercare di disinnescarla, quella morsa, per poter liberare l’umanità dallo scempio dell’esistente, del pensiero unico, del realismo capitalista.

La finisco qui, dopo averla certamente importunata più del solito, e conscio della mia inettitudine e del mio velleitarismo. Tutto sommato anche io sono prodotto e causa della nostra inconsistenza, del nostro marginalismo. Ma non mi tolga, almeno lei, la soddisfazione di poter esprimere le mie inquietudini e i miei sfoghi. Tutt’altro che produttivi, lo ammetto.

Cordiali Saluti

Edmondo Fabbri, suo assiduo Lettore

  

 

 

 

 

 

venerdì 25 marzo 2022

Lettere al Direttore (2)

 



Caro Direttore,

mi trovo di nuovo a scriverle sperando di non importunarla troppo. Immagino stia pensando di trovarsi di fronte ad una sorta di stalker, ma le assicuro che non intendo passare per quelle figure assai inquietanti che assillano quotidianamente qualsiasi persona abbia un minimo di notorietà. Insomma, vorrei solo fornirle di tanto in tanto spunti, riflessioni e quesiti che mi sembra possano aiutarla nel suo lavoro, o perlomeno possano suscitare interesse nei suoi lettori, tra i quali ovviamente ci sono anch’io.

L’altro giorno, mentre sfogliavo una delle riviste musicali che saltuariamente seguo, mi sono imbattuto in uno strano personaggio a me fino ad allora sconosciuto. Eric Chenaux, apprezzato chitarrista canadese, molto probabilmente ignoto alla grande massa, ma credo che anche lei non ne abbia mai sentito parlare, né tantomeno abbia avuto modo di ascoltarlo. Ebbene, caro Direttore, incuriosito dall’articolo sul musicista in questione, sono andato ad ascoltare la sua musica e ne sono rimasto assai colpito. Devo dirle, in tutta onestà, che comunque ho avuto difficoltà nel seguire i brani del suddetto chitarrista. trovandoli di complicata fruizione. Tuttavia, cosa assai rara, l’ascolto di Eric Chenaux mi ha portato a riflessioni bizzarre. Bizzarre perché, lo riconosco, assolutamente gratuite per certi versi, o comunque prive di particolare interesse. Ma, mi sono detto, forse sono riflessioni che possono suscitare una sua risposta, o magari incuriosirla per approfondire argomenti finora poco trattati. In ogni caso, la prego, non si faccia remore nel cestinare questa mia, nel caso la trovi assolutamente insulsa.

L’inconsueta musica di questo introverso e misterioso chitarrista sembra essere frutto di un particolare mix tra delicate e cantabili melodie e un tipo di improvvisazione dai caratteri assolutamente liberi, audaci.  In breve, l’ascolto procede in un continuo entrare ed uscire da consonanze, la delineazione di tratti melodici alternati a dissonanze, suoni morbidi ed effetti rumoristici, o meglio elettronicamente modificati in un senso profondo di ricerca. Insomma, se da un lato ci si sente appagati e rilassati da motivi soavi che confinano con territori pop, ballads dal vago sapore jazz, dall’altra si è continuamente sobbalzati verso terreni avventurosi, a volte anche irritanti, nondimeno con un loro particolare fascino. Tutto ciò mi ha portato a riflettere sullo stato assolutamente misero della nostra popular music, in particolare di quel pop e rock da classifica che giganteggia nei media occidentali. Eppure, basterebbe aggiungere, o mescolare, queste musiche prive di avventura con qualche sano e rivitalizzante inserto improvvisativo perché il tutto assuma un nuovo colore, nuovi e speziati sapori. Invece si è ormai bandita del tutto l’improvvisazione, relegata alle musiche di stretta derivazione afroamericana come il jazz, lasciando solo la continua ricerca del refrain cantabile, scontato, della canzoncina con i soliti accordi, o della finta provocazione estetica per vendere il prodotto. Sono banditi persino gli assoli di qualsiasi strumento, e il risultato è un piattume generale, a meno che non si vada alla ricerca di musiche di nicchia. Non crede, Direttore, che sia il caso di provare a rompere ogni tanto questa sensazione del già sentito, di incrinare queste musiche patinate che sorvolano le nostre orecchie e le nostre menti senza lasciare alcuna traccia? In fondo, improvvisare fa parte della nostra vita quotidiana, perché espungere quest’atto dalla musica?

Spero di non averla annoiata troppo.

Cordiali Saluti

Edmondo Fabbri, suo assiduo Lettore  

  

Lettere al Direttore (1)

 



Caro Direttore,

mi premetta di rivolgermi a lei in questo modo così confidenziale, anche se non ci conosciamo. O meglio, lei sicuramente non sa nulla di me, al contrario io credo di conoscere qualcosa di lei, perlomeno il suo pubblico pensiero, da suo assiduo lettore quale sono. Le scrivo in questi momenti certo drammatici del nostro tempo, con guerre e pandemie che tormentano i nostri animi (e i nostri corpi) e non le nascondo di avere un pizzico di nostalgia di epoche lontane, non tanto per la gioventù ormai perduta quanto per la nitidezza degli accadimenti passati, la possibilità di avere più certezze, maggiori convinzioni di quante ne abbia ora. Ma probabilmente è solo il corso degli anni che porta ad un continuo interrogarsi, mettere in dubbio, cercare argomenti, risposte e domande alle questioni in atto, provando a rintracciare le motivazioni e le ragioni altrui. 

Vede Direttore, non che io non abbia convinzioni, anzi: ma in questi ultimi anni tento disperatamente di aderire appieno ad esse, cercandone ragioni profonde che me ne diano la legittimità, e non ci riesco. Anzi, sempre più provo forme di disagio di fronte alle scelte di campo nette, senza sconti. Non so, è come se rintracciassi nelle opinioni a me avverse piccole verità che riconosco legittime, con un senso di fondatezza. Credo, caro Direttore, che le sfumature e le dialettizzazioni siano molto più importanti ora che in passato. Ma questa nostra società sembra invece favorire le scelte di campo assolute e l’arruolamento nei rispettivi schieramenti. Chi tenta di argomentare viene sommerso dalle facili risposte, dai semplici commenti e dalle narrazioni spesso superficiali, ma alquanto efficaci da portare avanti. 

Una guerra non può non essere avversata, e ne ho avversate tante in passato. Eppure, mi sembra importante cercarne le ragioni, anche se folli o totalmente sbagliate. Trovo indispensabile tentare di capire le motivazioni, i perché di azioni che non condivido assolutamente, ma che penso non nascano da insensatezza o pazzia. E quant’anche possano sembrare tali, è importante trovarne comunque le possibili cause, almeno per evitare che si ripetano. Ciononostante, questi tentativi di ragionamento sembrano perdenti, arrendevoli di fronte alle tragedie della storia, e appaiono come futili distinguo per placare le mie diffidenze rispetto alle narrazioni di parte. Ma non trovo altra via che quella di soppesare, ragionare, comprendere, condannare certo, per provare a far tacere le armi, rimuovere dal consesso umano lo strumento della guerra che non porta certo soluzioni, semmai acuisce i mali, con lugubre corredo di morti innocenti. La finisco qui, per ora, sperando di non averle recato troppo disturbo. Se mi permette, come chiosa finale, vorrei dirle che ho anche nostalgia di quelle lettere al Direttore di tanti anni fa, di quell’epistolario che mostrava i sentimenti e le idee del semplice lettore di fronte ad una figura rispettabile come quella di un onesto e preparato direttore di un giornale. Rispetto alla cagnara dei commenti social, quella ponderatezza, quel bizzarro mix di pubblico e privato appaiono una sorta di luogo fantastico, certo di altri tempi. E di altri modi.

Cordiali Saluti

Edmondo Fabbri, il suo assiduo Lettore

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