Caro Direttore,
eccomi di nuovo a lei, sperando di non essere troppo invasivo nei suoi confronti. Le devo confessare che rivolgermi in questa forma epistolare mi dà conforto, e allo stesso tempo stimola le mie facoltà mentali, ahimè un po’ arrugginite dallo scorrere del tempo. La sento come un confidente, una spalla sulla quale di tanto in tanto poggiarmi. Ma, ripeto, non vorrei abusare del suo tempo e della sua pazienza.
Le scrivo senza una ragione particolare, senza un argomento specifico, ma solo per esternare un malessere generale riguardo lo stato delle arti. Dirà lei, ma non è un argomento anch’esso, seppur ampio e difficile da affrontare e approfondire? Ha ragione Direttore, ma il mio è veramente un pensiero superficiale, un disagio che vivo in lontananza, essendomi oramai ritirato dalla mondanità. Osservo dal mio rifugio l’inesorabile deriva individualista che non sembra incontrare ostacoli, pervadendo tutti i settori dell’arte. E mentre logico appare il successo in ambiti commerciali, più serio e preoccupante è vedere come queste dinamiche siano ormai moneta corrente anche nei mondi cosiddetti alternativi.
La dura competizione per il successo individuale è la cornice dominante entro la quale si formano i giovani artisti, prodotto e conseguenza del sistema economico e politico occidentale, e tutto ciò che implica un ambito collettivo viene scientificamente omesso o osteggiato come sedicente dittatura. Cosa sono, per esempio, i cosiddetti Talent Show se non la chiara rappresentazione della lotta per le classifiche, i like, l’autopromozione, le invidie e le gelosie, il successo effimero o quello duraturo che premierà solo uno o una tra loro, relegando gli altri e le altre nell’anonimato. Un mondo fatto di costante competizione, di sottolineatura dei soli elementi individuali, come la forza di volontà, il credere nei propri mezzi, o altre baggianate simili, escludendo intenzionalmente le condizioni materiali nelle quali viviamo, l’organizzazione del sistema, il profitto dietro ad ogni espressione culturale, il mercato onnivoro che tutto ingloba e depotenzia rendendo qualsiasi cosa oggetto da comprare o vendere.
Ma se tutto questo riguarda la sfera commerciale, per l’appunto, anche le nicchie di resistenza, o almeno che sembrano tali, soffrono in parte della stessa malattia, dei nefandi effetti del realismo capitalista. E così, di fronte a crisi pandemiche e guerre, l’unica risposta sembra essere quella del cavarsela da soli in qualsiasi modo, raggranellare spiccioli di notorietà in piccoli ambiti ristretti, autopromuoversi e ostentare la propria, presunta, alterità. Il tutto ammantato da roboanti parole rivoluzionarie del tutto fuori luogo e atte a mostrarsi assolutamente politically correct e alternativi. Così gli spazi di resistenza all’omologazione si atomizzano sempre di più, fino a diventare assolutamente conformi e collaterali al mercato, una marginalità che spesso diventa trampolino di lancio per piccole carriere personali. Servirebbe invece creare ambiti il più possibile condivisi, interdisciplinari, dove dibattito, riflessione e produzione artistica abbiano un afflato collettivo, momenti comuni di resistenza e di promozione di nuovi linguaggi e nuove realtà. Solo in questo modo si potrebbe tentare di combattere il virus dell’individualismo e l’omologazione artistica. Caro Direttore, a me non sembra vedere molto di ciò all’orizzonte, ma forse mi sbaglio, o probabilmente non colgo i piccoli segnali che di tanto in tanto appaiono. Tuttavia, resto in attesa di essere smentito, magari da qualcuno o qualcuna che abbia ancora voglia di resuscitare una parola che, di questi tempi, sembra di per sé assolutamente rivoluzionaria: collettivo!
Cordiali Saluti
Edmondo Fabbri, suo assiduo Lettore
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