Baffi, baffi lunghi e all’insù. Pizzetto e basette corte, capelli arruffati, leggermente lunghi. Naso aquilino e labbra fini, bocca grande. Si, era più o meno così Tatti, una sorta di D’Artagnan contemporaneo. Camminava a busto eretto, quasi rimbalzando sulle punte dei piedi, con un andamento curioso ma convincente. Di solito non salutava, se tu non lo facevi per primo. E dopo emetteva una sorta di rantolio, una specie di ciao sbiascicato quasi incomprensibile. Qualcuno, ed erano pochi, era omaggiato di un abbraccio con bacio, gesto estremamente raro per un tipo come Tatti. Ma, appunto, raramente accadeva. Poteva trattarsi di qualche sua vecchia amica, o amante, o tutte e due spesso e volentieri.
Ma non poteva dirsi antipatico
Tatti, no. Magari a volte scostante, irascibile, ma di base aveva quella bontà
che percepisci pur tra mille difficoltà. Ecco, diciamo che non era
assolutamente falso, ambiguo: i suoi sentimenti, le sue sensazioni, i suoi pensieri
te li buttava in faccia senza alcuna intermediazione, senza alcun filtro.
E certamente non potevi
negare la sua abilità, il suo talento musicale. Con il suo sax era in grado di
passare da sensazioni pacate, morbide, sinuose, a momenti di rara potenza, di
grande energia e irruenza, per poi tornare a rilassarsi, ad ammaliare
l’ascoltatore. Era uno spettacolo
vederlo e sentirlo suonare, con quel suo incedere sul palco quasi fosse un
filosofo dell’antica Grecia, intento a educare e istruire i suoi discepoli. Purtroppo,
quel suo incedere continuo durante i concerti creava qualche problema anche ai
musicisti con i quali suonava. Dovevano sempre lasciargli molto spazio e spesso
le condizioni non lo permettevano. Oltretutto l’ipotesi di suonare con un leggio
era ovviamente sconsigliata. Ma Tatti era il primo a dichiararlo. Diceva: «se
volete suonare insieme a me, beh, io non leggo la musica, io suono». Ed era un
concetto non del tutto astruso anche se, per chi non conosceva Tatti, dava
l’impressione di un suo sentirsi superiore al resto dei musicisti. E forse
l’impressione non era del tutto sbagliata, ma quella sua espressione, quella
sua idea di suonare senza leggere per lui era sincera, scevra da ogni idea di
superiorità.
A dirla tutta c’era anche
un’altra motivazione per quel suo rifiuto: effettivamente non era molto abile
nel solfeggiare e gli costava enorme fatica la lettura a prima vista di un
brano. Quelle poche volte che si trovava a dover leggere uno spartito iniziava
a toccarsi i capelli, a sbuffare, a muoversi nervosamente. Chi lo conosceva
bene evitava di riprenderlo, di dirgli che stava sbagliando, di cercare di
aiutarlo. Sapeva che doveva solo aspettare, aspettare che Tatti prendesse
confidenza con la parte assegnatagli, che la digerisse lentamente, che ne
prendesse possesso a modo suo. Al massimo gli si poteva appena accennare la
linea melodica della sua parte oppure, magari rivolgendosi a qualcun altro del
gruppo, solfeggiare quella figurazione particolare che Tatti non riusciva a
decifrare. Il più delle volte bisognava aspettare la prova successiva dove,
dopo essersi portato a casa lo spartito, tornava sicuro e perfettamente in
grado di suonare la sua parte.
Tatti e la musica erano una cosa sola, unica,
inscindibile. Era sempre disponibile, non si tirava mai indietro, e questa sua
disponibilità levigava le sue asprezze, i suoi modi spesso bruschi, adirati. Non faceva differenza se a chiamarlo erano
musicisti di gran levatura, famosi e importanti, oppure gruppi o situazioni più
dilettantesche, non proprio alla sua altezza. Non passava giorno che non
dovesse suonare con qualcuno, che non studiasse o si preparasse per un
concerto.
Tuttavia, la sua
amabilità, come detto, spesso si scontrava con alcuni atteggiamenti che lo
configuravano come uno scostante e presuntuoso, e per questo da evitare. Era
contraddittorio, ai limiti della follia. Potevi chiedergli suggerimenti e
consigli e lui magari si prodigava nel darteli, rimaneva con te fino a tardi e
ti offriva birre e amari in continuazione. Il giorno dopo lo rivedevi e neanche
ti salutava. Non sapevi mai quale sarebbe stato il vero Tatti. Il generoso e
ciarliero musicista oppure il personaggio altero, scontroso e indisponente.
Potevi trovartelo in platea a sentire il tuo concerto e ad applaudire convinto,
a sostenerti a gran voce e a complimentarsi con te alla fine della serata.
Oppure potevi vederlo alzarsi dopo il primo brano, muovere rumorosamente la
sedia ed andarsene con fare disgustato. Ci passavi una sera tranquilla a bere e
a parlare di jazz, blues, rock, di musicisti amici e di personaggi famosi. E
lui riusciva a trovare parole e giudizi buoni per tutti. Sembrava essere in
pace con il mondo, distante e illuminato come fosse un Buddha. Beh, il giorno
dopo potevi trovarlo demoniaco, scuro e curvo in un silenzio carico di odio. E
ce n’era per tutti, amici e parenti, musicisti e pubblico e locali.
Così alla fine eravamo in
pochi ad apprezzarlo veramente per quello che era, e cioè un gran musicista con
degli aspetti caratteriali alquanto bizzarri. E avevamo imparato a contenerlo e
a rapportarci a lui a seconda dei suoi stati d’animo. Ovviamente tutto andava
bene nei momenti dove c’era il Tatti solare e illuminato. Quando si presentava
la sua versione scura, come un alter ego, allora si mettevano in atto una serie
di accorgimenti. Il primo era quello di eclissarsi, con estrema attenzione e
gradualità ci si allontanava adducendo improvvisi impegni o cattivo stato di
salute, mal di testa o febbre. Il secondo era quello di stringere una specie di
cordone sanitario intorno a Tatti, fatto di discorsi e discussioni che si
allontanavano dall’argomento musicale cercando di interpellarlo il meno
possibile, magari sperando in un suo repentino cambio d’umore, che
effettivamente talvolta poteva succedere. Questa seconda opzione spesso veniva
attuata quando si era in presenza di persone che conoscevano poco Tatti, e
quindi si tentava di evitare bruschi litigi o cattive figure. L’ultima opzione
era quella di farlo bere o fumare cercando in questo modo di obnubilarlo e
renderlo inoffensivo. Ma era una soluzione che, francamente, non era di grande
spessore umano e ne ricorrevamo in rarissime occasioni.
Una sera ci si era dati
appuntamento nel locale dove eravamo solito vederci e suonare, ascoltare
concerti o semplicemente farci due chiacchiere a fine prove. Eravamo intorno
alla classica birra e, quasi di soppiatto, con quel suo incedere molleggiato,
armonioso e mosso, apparve Tatti. Aveva uno strano sorriso, quasi inquietante e
anomalo, come fosse fuori posto sul suo viso. Lo salutammo calorosamente perché
effettivamente era un po’ di tempo che non ci si vedeva. Stava suonando con un
nuovo gruppo, giovani musicisti che però promettevano bene e, soprattutto,
avevano diversi contatti in giro per l’Italia e per questo erano riusciti a
inanellare una lunga serie di date.
Gli offrimmo una birra ma
lui rilanciò offrendoci a tutti un amaro. Insistemmo un po’ nel rifiutare, ma
alla fine accettammo. Con i bicchierini in mano, pronti a sorseggiare, Tatti ci
fermò e disse che voleva brindare. Ovviamente chiedemmo per quale motivo,
ricorrenza, occasione. Allora quel suo sorriso estraneo si sciolse in un viso
colmo di gioia, con gli occhi luccicanti e le guance distese, rilassate.
Era stato invitato a
suonare con uno degli ultimi grandi musicisti di jazz che stava per arrivare in
tour in Italia, a partire proprio dalla nostra città. Un grande trombettista
afroamericano che era ancora attivo e, anzi, sembrava aver trovato una seconda
giovinezza, con nuovi dischi e tour mondiali. Di solito, per alcuni concerti in
città importanti, invitava a suonare con il suo gruppo qualche musicista locale,
non di quelli già famosi, così da instaurare anche un rapporto amichevole con
le scene musicali e, aspetto non secondario, attirare ancora più pubblico.
E questa volta la scelta
era caduta su Tatti. E, detto tra noi, non poteva essere altrimenti. Era lui
l’unico in grado di condividere il palco con una leggenda del jazz americano,
ed era solo lui che non avrebbe certo sfigurato in un live del genere.
Così, per settimane, non
si parlò d’altro. Le circostanze per le quali avvenne questa chiamata furono
dibattute, argomentate, ingigantite e travisate. C’è chi diceva che il
trombettista già da tempo conosceva Tatti per averlo ascoltato su alcuni
dischi. Chi raccontava di un furtivo incontro a Londra dove Tatti suonava in
piccolo locale. Chi semplicemente diceva che alla richiesta al suo manager di
segnalargli un musicista bravo e promettente questi gli avesse segnalato per
l’appunto Tatti, che era amico di alcuni suoi conoscenti. Insomma, voci che si
rincorrevano spesso senza alcun fondamento, il tutto alimentato dall’alone di
mistero che Tatti si procurò di alimentare intorno alla vicenda.
Alle nostre insistenti
domande su come fosse avvenuto il contatto, in che ambito, se avesse già
parlato con lui o con il suo manager, Tatti rimaneva evasivo, spesso cambiava
versione, si contraddiceva, salvo poi concludere che c’era poco da dire su
questa vicenda. L’importante sarebbe stato il concerto, non le modalità
organizzative. Cosa, peraltro, vera e incontestabile.
E finalmente arrivò il
grande giorno. Il concerto era ovviamente previsto per la sera ma Tatti era
stato convocato al locale nel primo pomeriggio per una prova e relativo
soundcheck. Fino ad allora le discussioni intorno all’evento vertevano per lo
più sulle modalità dell’incontro, sui pettegolezzi, sugli sviluppi futuri.
Sembrava che il fattore musicale vero e proprio fosse un accessorio, una sorta
di appendice, tutto sommato scontata e priva di interesse. In effetti era il
solo Tatti che più volte aveva posto l’accento sulla musica che sarebbe uscita da
quel concerto, sulle emozioni e sensazioni che quell’incontro avrebbe
sprigionato.
Il trombettista
afroamericano era un personaggio abbastanza particolare. Amava stupire di
continuo i suoi ascoltatori e da quando era rientrato in scena, circa quattro
anni prima, aveva prodotto una serie di dischi uno differente dall’altro. Tra
scrittura elaborata e libera improvvisazione non sapevi mai cosa aspettarti
dalla sua musica, anche se la qualità era alta in ogni caso. Il suo ultimo
prodotto discografico era uscito da qualche mese ed era ricco di ospiti che
contribuivano a spiazzare l’ascoltatore di brano in brano. Era come se avesse
voluto concentrare in 50 minuti, tale era la durata del cd, tutte le sue
esperienze precedenti. Si andava da un brano orchestrale a brevi momenti in
solo, duo improvvisati e atmosfere hard bop con il suo quartetto.
Il giorno del concerto,
finalmente, si manifestò con tutta la sua potenza e invasività la domanda che
molti di noi avevano evitato fino ad allora: che musica avrebbero suonato il trombettista
e Tatti? Avrebbero improvvisato liberamente, come era nei nostri propositi e
come tutti, in fin dei conti immaginavano e speravano, oppure avrebbero suonato
brani originali, o magari qualche standard, o arrangiamenti elaborati
appositamente per quel concerto? Qualcuno di noi provò ad inviare un messaggio
a Tatti per sapere come era andata la prova e il soundcheck, se era tutto ok,
ma non ricevette alcuna risposta. Non restava che attendere la sera e l’inizio
del concerto per soddisfare la nostra curiosità e le nostre aspettative.
E la sera arrivò, placida
e leggera, con quel suo incedere ammaliante, avvolgente e allo stesso tempo
dolorante, di un sapore agrodolce. C’era la fila fuori dal locale, e non si
faceva in tempo a salutare un amico che immediatamente ne sbucava un altro, e
poi un altro ancora. Sembrava quasi di conoscerci tutti ma, effettivamente, era
una di quelle sere dove avresti potuto incontrare chiunque, anche i tuoi vicini
di casa o il tuo vecchio insegnante al liceo.
Ci affrettammo a prendere
posto proprio davanti al palco, e nel frattempo cercavamo con lo sguardo di
intravedere la sagoma di Tatti, dietro al palco o in giro per la sala, in uscita
dai camerini. Ma nulla, neanche l’ombra. C’erano tutti i suoi amici e le sue
amiche, c’era tutto il suo pubblico e c’era la folla delle grandi occasioni. Ma
lui sembrava essersi dissolto, svanito nei meandri della città. Provammo al
bancone del bar, nelle toilette, fuori nel cortile di lato al locale. E poi
iniziammo a chiamarlo al cellulare, a tempestarlo di messaggi e WhatsApp. Ma
non c’era risposta. Per un attimo iniziammo a temere qualcosa di grave, una sua
improvvisa defezione dovuta a malore o a qualsiasi altro problema. Una lite
improvvisa con il manager, con qualcuno del gruppo, con lo stesso trombettista.
Da Tatti potevi aspettarti qualsiasi cosa, effettivamente, ma sapevamo che non
avrebbe mai potuto perdersi un’occasione come quella.
Finalmente, dopo lunga
attesa, uscirono sul palco il trombettista con il suo gruppo, pianoforte
contrabbasso e batteria. Di Tatti nessuna traccia. Ma sapevamo le modalità
organizzative di quel tipo di concerto: una mezz’ora il gruppo e poi il resto
del concerto con l’ospite.
La musica fu subito
entusiasmante, così calda e avvolgente da penetrare all’interno delle superfici
cutanee e risalire su per tutto il corpo, alimentare il battito del cuore e
aprire universi velati all’interno delle menti. Era effettivamente in gran
forma il trombettista, e con lui tutto il gruppo. Alternavano composizioni a
lunghe suite improvvisate, assoli infuocati e placidi momenti meditativi,
minimalisti. Tuttavia, nei nostri pensieri, pur completamente obnubilati
dall’ondata di musica che si riversava su di noi, in un angolo nascosto ma pur
sempre attivo si celava l’attesa per l’arrivo di Tatti. Non avevamo dubbi che
sarebbe uscito, c’era lo spazio per un altro musicista con relativa
cassa spia sul palco.
Dopo circa una quarantina
di minuti il trombettista prese il microfono e, con grande enfasi, invitò sul
palco Tatti. Eravamo eccitatissimi e rispondemmo all’incitazione con un grido
di gioia incommensurabile e liberatorio. L’attesa, la lunga attesa era
finalmente terminata e tutti avrebbero goduto del trionfo di Tatti, non avevamo
dubbi.
Passarono circa trenta,
quaranta secondi e Tatti non usciva. Il trombettista era rivolto verso i
camerini e con lui il resto del gruppo, in un’attesa nervosa, stizzita. Noi
eravamo passati dal massimo dell’eccitazione all’angoscia per qualcosa che non
riuscivamo a spiegarci, a comprendere. Iniziammo a battere le mani, a chiamarlo
per nome e finalmente, dopo più di un minuto di attesa lui uscì.
Non facemmo in tempo a
gioire e rallegrarci per la sua entrata perché subito, contestualmente al suo
apparire sul palco notammo che aveva con sé un leggio, il sax a tracolla e
nell’altra mano degli spartiti.
Fu come una pugnalata sul
petto, come una scossa elettrica che ci passò da capo a piedi. Solo pochi di
noi sapevano del suo difficile rapporto con la musica scritta, e solo noi
potevamo intuire le enormi difficoltà che Tatti aveva incontrato il pomeriggio
durante le prove, e l’ansia e la tensione che si apprestava a vivere durante
quel concerto. La nostra unica speranza era nella facilità della musica
scritta, speranzosi di una certa comprensione da parte del trombettista
americano per gli ospiti che si trovavano a dover leggere e suonare le sue
parti in così poco tempo.
Tatti prese posizione
alla destra del palco, proprio di fronte al contrabbassista, e molto vicino al
trombettista che ovviamente, come tutto il suo gruppo, non aveva né spartiti né
leggii. Posò il leggio davanti a sé, mise sopra gli spartiti, levò il copri
bocchino e bagnò leggermente l’ancia. Era molto teso, ma allo stesso tempo
sembrava fosse assente, lontano da quel palco, da quei musicisti, da quella
folla che lo aspettava. Provammo a salutarlo, a farci vedere, ma il suo sguardo
andava oltre la platea, lontano oltre le porte del locale, del parcheggio e
della via, sopra i palazzi e tra le nuvole, in alto nel cielo, oltre la luna e
più su ancora, immerso nella galassia.
Iniziarono a suonare.
Un’improvvisazione molto probabilmente libera, ma con dei riferimenti tematici,
quieta e riflessiva. Il sax di Tatti dialogava alla meraviglia con la tromba, e
il piano accompagnava i due fiati con discrezione, quasi in punta di piedi. Poi
partì la batteria con un tempo velocissimo, seguita subito da contrabbasso e
pianoforte. A quel punto il trombettista iniziò a suonare un tema abbastanza
articolato al quale Tatti rispondeva con brevi frasi. Il tema si ripeteva più
volte, spostandosi d’accento e divenendo ancora più complesso. Iniziammo a
vedere Tatti un po’ difficoltà, curvo sul leggio, come se tentasse di pararsi
dai fendenti di un pugile. E le frasi iniziarono a farsi smozzicate, incerte,
deboli, fuori tempo fino a che Tatti smise di suonare e alzò lo sguardo oltre
la terra, laggiù nel cosmo dove solo lui poteva esserci.
Il trombettista lo guardò
di soppiatto ma continuò a suonare e con lui il resto del gruppo. Tatti rimase
immobile senza suonare per quasi cinque minuti che a noi sembrarono ore,
giorni, mesi. Era là con il suo sax e fisso osservava un punto lontano
nell’infinito, senza luce nei suoi occhi, totalmente impermeabile a ciò che gli
accadeva intorno. Il brano finì e ci fu un applauso timido, quasi preoccupato.
Tutti avevano compreso la difficile situazione che si era creata sul palco, ma
altresì tutti erano speranzosi per il prosieguo del concerto.
Il trombettista fece
cenno a Tatti di iniziare. Spostò il primo spartito, ne prese uno dietro e lo
mise davanti a sé. Lo osservò sempre con quel suo sguardo assente, liquido,
debole. Iniziò a suonare da solo ma immediatamente il trombettista lo fermò. «Again»,
disse con una voce metallica. Tatti ricominciò ma lui lo fermò di nuovo. «Sorry»,
disse rivolto al pubblico. «Once again, please». E Tatti allora lo guardò con
un fare interrogativo, quasi a dire perché, cosa vuoi. Tatti spostò leggermente
lo spartito e lo mise più al centro del leggio. Lo guardò attentamente e
riprese a suonare. Ma per l’ennesima volta il trombettista lo fermò e si
avvicinò a lui. Tatti si spostò leggermente e il trombettista iniziò a suonare
lo spartito di Tatti. Finito di suonare guardò Tatti con occhi accesi e un
sorriso di compassione, invitandolo a suonare correttamente, come lui aveva
fatto, ciò che era scritto sulla parte.
Eravamo increduli e allo
stesso tempo oppressi da una sofferenza indicibile, un’angoscia che trafiggeva
i nostri cuori, lacrime represse che irroravano tutto il nostro corpo. Avremmo
voluto andarcene via, oppure che il concerto terminasse immediatamente, o che
Tatti iniziasse ad improvvisare coinvolgendo il trombettista ed il suo gruppo
per poi concludere un concerto di quelli che si ricordano per tutta la vita.
Ma la realtà, scura e
tetra, continuò a colpirci con furore e spietatezza. Il trombettista era là,
con la sua tromba in mano in attesa che Tatti suonasse, che Tatti facesse il
suo ennesimo tentativo pronto a correggerlo nuovamente, di questo eravamo
certi. E Tatti prese di nuovo il sax e avvicinò il bocchino alle labbra. C’era
del sudore sulla fronte e gli occhi erano lucidi. Poi, ad un tratto, notai una
leggera increspatura sulla sua bocca, quel suo strano sorriso che talvolta
inquietava. I suoi occhi presero luce, si illuminarono intensamente, spargendo
di fronte a sé dardi velenosi. E nel momento stesso in cui compresi ciò che
stava per accadere, senza neanche avere il tempo di allarmarmi o di urlare
qualcosa, Tatti prese il sax con tutte e due le mani e colpì con forza il viso
del trombettista, che cadde tramortito sul palco. Ci fu un silenzio innaturale,
e Tatti era già sul corpo del musicista e continuava a colpirlo con i pugni sul
volto. A quel punto gli altri del gruppo si lanciarono su di lui, seguiti
immediatamente da altre persone dell’organizzazione. E anche noi salimmo sul
palco cercando di difendere Tatti. Fu una rissa clamorosa, con pugni che
volavano da tutte le parti e il sax di Tatti che colpiva a ripetizione chiunque
provasse ad aggredirlo. Si sentì il suono delle sirene e l’avvicinarsi di
macchine, le urla del pubblico e dei contendenti, il fumo e la polvere, la
batteria che rotolava sul palco e il legno del contrabbasso orrendamente
squarciato. Nel caos generale riuscii ad intravedere Tatti con il suo sax
fuggire via da una porta laterale mentre al mio fianco, sdraiato e immobile, il
trombettista con il volto coperto di sangue.
Di Tatti si persero
completamente le tracce. Non lo vedemmo più e le rarissime notizie che
circolavano ogni tanto su di lui lo davano a Berlino o addirittura in Islanda.
Qualcuno sosteneva che aveva abbandonato la musica ed era diventato un
insegnante di yoga, qualcun’ altro aveva sentito di un suo concerto in solo a
Edimburgo. Il trombettista dovette interrompere la sua attività per molti mesi
ma alla fine tornò a suonare e ad incidere dischi.
A noi rimase il ricordo
dei suoni del suo sax e per molti anni a venire la possibilità di raccontare
una storia, una di quelle incredibili, assurde, straordinarie. «C’era molta
tensione sul palco, e allora Tatti, all’improvviso…».
pop
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