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martedì 13 ottobre 2020

La materia viva

Dopo averlo sfiorato varie volte, mancato per un soffio o perso all'ultimo istante, sono riuscito finalmente a vedere Richard Sinclair in concerto dal vivo.

Bassista, chitarrista, cantante, autore, membro dei Caravan e prima ancora dei Wilde Flowers, poi con Hatfield And The North, Camel, oltre a svariate collaborazioni sempre tra Canterbury e dintorni, Sinclair di quella scena musicale è stato uno dei protagonisti, avendo contribuito negli anni a segnarne le coordinate artistiche. Di più, la sua voce, il suono del basso, le sue composizioni rappresentano forse il nucleo centrale della musica canterburiana, l'essenza stessa. Ma questo è un discorso che necessita di approfondimenti e analisi che non è il caso di trattare, per ora, su questo blog.

Interessante, invece, è stato scoprire come quella musica, nelle mani e nella voce di un Sinclair ormai in là con gli anni e in solitudine (ma accompagnato comunque da un bravo Gianluca Milanese al flauto), fosse ancora viva, pulsante e...inaspettata. Ricchezza armonica, progressioni di stampo jazzistico e  sommovimenti ritmici hanno reso le versioni di Share It, Keep On Caring, Disassociation, If I Could Do It All Over Again...ancora fresche e sorprendenti, pur in una dimensione intimista. E hanno mostrato anche le notevoli capacità strumentali e interpretative di Sinclair. Sembrava musica scritta ora, assolutamente priva delle incrostazioni e della pesantezza che tanta musica degli anni '70 porta con se. Ma tutto questo è frutto di un approccio creativo alla composizione, movimentato, ironico. E attraversato in lungo e largo da un impeto improvvisativo che ha reso per l'appunto viva la materia. Dove improvvisazione significa dare forme nuove alle composizioni, mutarle e reinterpretarle in un continuo rigenerarsi. Cosa che a Sinclair riesce benissimo.


Un'ultima annotazione, diciamo così, tecnica, che riguarda la differenza delle musiche autenticamente canterburiane da quelle classicamente progressive rock. In questa versione scarna e solitaria si può meglio osservare come i brani, in questo caso di Richard Sinclair ma il discorso vale per l'appunto per il resto della scena di Canterbury, siano composti e attraversati da armonie di stampo jazzistico, i famosi accordi di undicesima e tredicesima che Dave Stewart, tastierista tra gli altri degli Hatfield And The North e dei National Health, affermava essere una delle caratteristiche della musica di Canterbury. Questo tipo di accordi ammorbidisce le atmosfere e le espande, dandogli un senso di leggerezza, in contrasto con la durezza e l'ampollosità dovute all'uso massiccio di triadi in ambito Prog. Ancora, questa ricchezza armonica favorisce, per l'appunto, un approccio improvvisativo costante e permette una malleabilità non certo così comune nel rock. Se a questo aggiungiamo il disincanto, il gioco, l'ironia diffusa che stempera anche le situazioni più seriose e formali, quasi dissacrandole, beh potremmo forse dire di aver scoperto la formula segreta della musica di Canterbury. 

pop

mercoledì 26 agosto 2020

I paesaggi sonori di Nils Petter Molvaer

Seguo, anche se discontinuamente, Nils Petter Molvaer dal 1997, anno del suo esordio discografico solista con Khmer, edito dalla ECM. E che ritengo tuttora il suo disco migliore, tanto per mettere subito in chiaro le cose. Trombettista norvegese, dal suono caldo e spesso filtrato elettronicamente, Molvaer è sicuramente figlio del Davis di fine carriera, con quell'accenno di note che ampliano e dilatano lo spazio sonoro. Anzi, possiamo dire che l'estetica di Molvaer sia una versione omeopatica di Miles Davis, dove le tracce del grande jazzista sono diluite in dosi infinitesimali pur contenendo in sé evidentissimi residui  della materia originale. 



La musica di Molvaer è veramente fatta di poche note, frammenti di scale e singoli suoni che viaggiano nel tempo, circondati e intrisi di elettronica ma con un forte respiro umano. Khmer, da questo punto di vista, è illuminante per il suo mirabile equilibrio e la bellezza di struggenti melodie irrobustite da scariche elettriche. Tuttavia lo stile del trombettista norvegese, così essenziale, stringato, minimalista, può correre il rischio di ripetersi, di sfiorare il già sentito, l'ovvietà di suoni e melodie abusate. Ed è per questo, forse, che Molvaer è un abile ricercatore di diversi paesaggi sonori, instancabile nel voler cambiare incessantemente il contorno della sua poetica. 


Così lo vediamo passare dalle sonorità elettroniche e trance, al dub con Sly & Robbie, dalla collaborazione con il multistrumentista tedesco e produttore techno Moritz Von Oswald, ai groove di Manu Katchè o al world jazz con il percussionista Mino Cinelu. Senza disdegnare i madrigali delle Nordic Voices con musiche composte da Bjorn Bolstad Skjelberg, gli incontri con la percussionista Marilyn Mazur, le lunghe frequentazioni con Bill Laswell o con il suo fidato chitarrista dall'impatto rock Edwin Aarset. Ma l'elenco è ancora più lungo, a dimostrazione di una grande versatilità di Molvaer
Ma come si traduce questo continuo intreccio di diverse sonorità e ambientazioni musicali con l'estetica minimale del trombettista? Sembra che Molvaer abbia la grande capacità di modificare il senso profondo dei diversi contorni nei quali partecipa o ne è l'artefice, quasi che quel suo suono ammanti di malinconie e sospiri tutto ciò con cui entra in contatto. Talmente forte il  tocco, la mano, da modificare il paesaggio sonoro con semplici pennellate. E alla fine ogni progetto nel quale Nils Petter Molvaer è presente porta inconfondibili tracce di quel sound così caratteristico prodotto dalla sua tromba. Un'estetica assolutamente non basata sul virtuosismo ma sul suono, sul respiro e sullo spazio. Un pittore dai gesti essenziali, intensi.  





pop

venerdì 19 giugno 2020

Minimalisti di tutto il mondo, unitevi!

Il buon Terry Riley probabilmente una statua se la meriterebbe, non fosse altro per la duratura influenza che ancora esercita in ambito popular e non solo. Sembra che il suo minimalismo (e quello di Steve Reich e Philip Glass ovviamente) sia diventato una sorta di fuga ideale per molti musicisti, ormai propensi a cercare nell'ipnotismo ripetitivo il loro campo ideale.

 

Non può essere certo un caso il fenomeno Necks, arrivati ormai con l'ultimo Three, al ventunesimo album. C'è da dire che il trio australiano è certo il più aperto all'approccio improvvisativo, nondimeno il reiterare cellule melodico/ritmiche seppur improvvisate rimane la loro cifra stilistica, di certo affascinante. L'ultimo album continua a sorprendere pur restando all'interno della loro formula, con aggressioni ritmiche e paesaggi lunari, dolci arpeggi di pianoforte e iterazioni morbide. 


Ma in questo panorama geograficamente insolito dall'Australia si passa abbastanza sorprendentemente alla Svizzera. Qui la rotondità e anche l'estrema varietà di atmosfere dei Necks lascia spazio a formule matematiche, a veri e propri inserti ipnotici che trascinano l'ascoltatore in un'altra dimensione. Il pianista Nik Bartsch e il suo progetto Ronin sono rigorosi in questo approccio minimale. Cellule ritmiche e frammenti melodici si accumulano lentamente senza lasciare spazio a interferenze soliste, sfruttando al massimo l'elemento ossessivo. Il loro zen funk, come lo stesso Nik descrive la musica del gruppo, esiste dal 2001 e quindi anch'esso vanta una lunga militanza nei territori dell'accumulazione. Non sorprende, quindi, che abbia fatto proseliti. 


Il quartetto Sonar (minimal progressive groove band si definiscono), sempre svizzero, in questi ultimi due anni ha incluso tra le proprie fila, come ospite ma pienamente dentro il progetto, nondimeno che David Torn, chitarrista americano attivo nei territori sperimentali e sempre presente in uscite discografiche e progetti di alto livello. Qui a dominare le cellule musicali sono le chitarre e, a differenza dei Ronin, il materiale ipnotico è stemperato da lunghi paesaggi sonori che delineano sopra l'ossessività ritmico/melodica squarci spaziali, fughe stellari. Nondimeno l'elemento minimalista è preponderante e ricorda talvolta i King Crimson di Discipline, soprattutto il brano omonimo. Infatti il chitarrista Stephan Thelen (autore anche di pregevoli lavori solisti)  ha partecipato ai seminari di Robert Fripp e alcune sue composizioni sono state eseguite dal Kronos Quartet, altro mirabile esempio di minimalismo e longevità.
 

Proseguendo in questa rapida carrellata giungiamo finalmente là dove tutto è nato (o almeno sembra essere nato), gli Stati Uniti. I Sunwatchers sono un quartetto proveniente da Brooklin e, rispetto agli esempi precedenti, sono forse i meno minimalisti. Contraddistinti da un' anomala tessitura di sax e chitarra elettrica, i quattro (aiutati spesso da ospiti), pur lavorando su intrecci ripetuti spesso lasciano il campo a variazioni, inserti inquieti e assoli, lasciando respirare profumi psichedelici e aromi jazz. 


A chiudere il lotto (ma sicuramente di gruppi e progetti ce ne sono molti altri), sempre da New York, i 75 Dollar Bill, duo formato da Che Chen (chitarra) e Rick Brown (batteria). Qui il minimalismo mostra evidenti i suoi contatti con la musica folkloristica, in questo caso dalla Mauritania e da uno dei suoi gruppi etnici, i Mauri, con sovrapposizioni di ritmi e riff. Ma è abbastanza chiaro che tutti questi lavori, al di là dei compositori americani come Riley, Reich e Glass, fondino le loro radici in gran parte nella musica africana, nelle sue lunghe espressioni sonore fatte di ritmi intrecciati e linee melodiche. 


Possiamo benissimo allargare il campo anche ad altre forme musicali folk, lì dove la musica era strumento di ritualità, utile e necessaria alle popolazioni per entrare in contatto con altre dimensioni, spirituali e corporee. E qui veniamo a una breve riflessione sul significato di queste musiche che fanno della ripetizione la loro cifra stilistica. Un aspetto fondamentale è la lunghezza delle composizioni, in apparente contrasto con un mondo dove l'attenzione è minima e il messaggio deve essere veloce, rapido e conciso. Ma probabilmente è proprio questa la ragione del relativo successo di questi minimalismi. E' come se, a fronte di una continua sollecitazione visiva, sonora e intellettuale, questi musicisti cercassero un rallentamento, o meglio un'interruzione del flusso di informazioni portando gli ascoltatori in un'altra dimensione. La lunghezza e la reiterazione, l'ossessività e l'elaborazione di pochi parametri che lentamente si modificano, produce la creazione di un paesaggio sonoro che frena le modificazioni della nostra mente. E tutto sommato non sarebbe male fermarsi un attimo e uscire dal vortice, lasciarsi trasmutare in una trance sonora, un buco spazio/temporale che ci lasci assaporare un diverso fluire del tempo, più esteso e multiforme. 

Piccola discografia consigliata

The Necks, Hanging Gardens, Fish Of Milk, 1999
The Necks, Drive By, Fish Of Milk, 2003
The Necks, Three, Fish Of Milk, 2020
Nik Bartsch's Ronin, Stoa, ECM, 2006
Sonar With David Torn, Vortex, RareNoise, 2018
Sonar With David Torn, Tranceportation Vol.1, RareNoise, 2019
The Sunwatchers, Oh Yeah?, Trouble In Mind, 2020
75 Dollar Bill, I Was Real, Thin Wrist Recordings, 2019

pop
  

venerdì 22 maggio 2020

Four


Questa è la prima incisione di uno dei classici di Miles Davis, uno dei suoi cavalli di battaglia per lungo tempo, divenuto giustamente un famoso standard. Ho ascoltato questa versione in un bellissimo cd antologico uscito in edicola per la Armando Curcio Editore nel 1991, Dizionario Enciclopedico del Jazz, con una presentazione nel booklet di Franco Fayenz. E l'ho sempre considerata un capolavoro. Se qualcuno mi chiedesse cos'è il jazz, ecco, probabilmente farei ascoltare questo brano. Mi sembra tutto così perfetto, sensuale, commovente, di un calore intenso e di una liricità unica. Il brano, le improvvisazioni di Davis e di Horace Silver, l'accompagnamento e le interazioni di Percy Heath e Art Blakey, la ripresa del tema modificato e anche lo strano finale che lascia tutto in sospeso, come se non finisse mai quell'emozione.  


Sono andato, con il tempo, ad indagare su quella registrazione, a cercare di scoprire le vicende intorno a quella musica, le circostanze e il momento storico. Non senza sorprese, ho scoperto che questa versione di Four è, per l'appunto, la prima ad essere stata incisa e venne pubblicata in un Lp a 10 pollici della Prestige (una sorta di mini Lp) dal titolo Miles Davis Quartet. Il disco in realtà fu registrato in due session differenti. La prima facciata è del 19 maggio 1953 mentre la seconda è del 15 marzo 1954. Diverse anche le formazioni: nel 1953 oltre a Davis abbiamo John Lewis al piano, Percy Heath al contrabbasso (il Modern Jazz Quartet!), Max Roach alla batteria e, solo in Smooch, un inedito Charles Mingus al piano al posto di Lewis. La seconda facciata, con Four, That Old Devil Moon e Blue Haze, vede al pianoforte un giovane Horace Silver, al contrabbasso sempre Percy Heath e alla batteria Art Blakey. Nella prima facciata i brani sono When Lights Are Low, Tune Up, Miles Ahead e, come detto prima, Smooch
 
A parte questi dettagli, più interessante è sapere in quali circostanze Davis si trova a registrare questo particolare Lp, e soprattutto i brani della seconda facciata tra i quali Four. Nella sua splendida autobiografia Miles racconta come in quel periodo la sua dipendenza dall'eroina fosse un grosso problema, non solo fisico e mentale ma anche musicale. La difficoltà nel suonare, nel concentrarsi, e la schiavitù dovuta alla droga che lo rendeva nervoso e incapace di organizzare la sua vita, artistica e non.  In poche e struggenti pagine racconta del suo tentativo di disintossicazione, e del dolore e della fatica di quei giorni chiuso a chiave in un piccolissima dependance della casa del padre. Alla fine ce la fa, ma non sarà un'uscita definitiva. 
Per evitare di avere troppe tentazioni con la droga, invece di tornare a New York, dove era più semplice procurarsela, si rifugia per qualche mese a Detroit. Poi, sentitosi più sicuro, agli inizi del 1954 torna nella Grande Mela e inizia a registrare sia per la Blue Note che per la Prestige. 


Ancora alcuni particolari: il brano, Four, è sempre stato attribuito a Miles Davis, ma il sassofonista Eddie Cleanhead Vinson ne ha rivendicato la paternità, insieme ad un'altra bella composizione anch'essa attribuita a Davis, Tune Up. Sembra che Miles abbia composto e registrato Four perché in quel periodo voleva suonare in quartetto, come poi avvenne in effetti. Al suo ritorno a New York, visto che aveva perso la sua tromba, noleggiò numerose volte quella di Art Farmer, e probabilmente Four venne registrata proprio con questa. 
  
Ma perché individuare questa registrazione come dimostrazione di autentico jazz, come un archetipo della musica afroamericana? 
Ognuno di noi porta con se emozioni che tracciano il proprio percorso di vita e che sfuggono naturalmente a spiegazioni oggettive. Abbiamo dei piccoli tesori che ogni tanto riapriamo e che ci illuminano il cammino, ci guidano talvolta, oppure ci accompagnano. Per chi suona, oppure per chi scrive, dipinge, recita, l'individuazione di questi modelli rappresenta una continua fonte di ispirazione. E si torna lì, alla sorgente, per continuare ad irrorarsi di idee e stimoli, sperando di trovarne sempre. 

Four è così semplice e allo stesso tempo così affascinante. Quel suono unico di Davis che tratteggia con assoluta naturalezza melodie instancabili. Quel suo stare sul tempo e dentro al tempo, quel suo posarsi sul timing in maniera delicata ma sicura. I silenzi che si incastonano nelle intense frasi suonate da Davis stimolano un ascolto continuo e incessante. Vorresti risentire continuamente il brano per scoprire i segreti di una bellezza così eterea e allo stesso tempo avvolgente, ammaliante. 
E poi c'è Percy Heath con quel suono di contrabbasso così rotondo e morbido che danza costante, sotterraneo. Horace Silver che sottolinea e dà vigore all'improvvisazione, e a sua volta si produce in un assolo anch'esso così semplice, lineare e per questo suggestivo. La batteria di Blakey che tinge di striature velate tutto il brano,  accompagnandolo verso un flusso continuo che scorre intenso, a contrappuntare le emozioni. 

Questo Four possiede un raro equilibrio, tutte le dinamiche e gli eventi si susseguono come se fossero inevitabili, desunte dai contesti precedenti, dalle intuizioni e dalle proposizioni. Appare tutto semplice e naturale, come se ci fosse sempre stato.  Ed è questo, forse, il suo più grande pregio. 

Ognuno di noi ha un suo Four, e anche più d'uno ovviamente. Proverò a scovarne, tra conferme e sorprese, com'è giusto che sia, tra le scene musicali. Di tanto in tanto. 



pop

lunedì 23 marzo 2020

Swingin' London

In tempi di Brexit (e di molto altro, purtroppo) non sarebbe proprio il caso di pubblicare questo post, ma tutto sommato male non fa. In realtà questo scritto è parte di un'ampia ricerca sulla scena di Canterbury, pubblicata in 4 puntate sulla rivista Prog Italia. Parzialmente rielaborato e corretto, mi sembrava comunque utile metterlo su questo blog. Buona lettura!


Swingin’ London

Il miracolo economico degli anni ‘50, soprattutto negli Stati Uniti, e poi anche in Gran Bretagna e nel resto d’Europa, produsse per la prima volta nella storia dell’occidente, una massa di adolescenti in grado di “consumare” oggetti e musiche per il loro tempo libero e quindi di affermarsi come area omogenea, ben distinta dai bisogni e dalle esigenze degli adulti. Questo trasformò l’industria musicale, che si ritrovò a disposizione un mercato diverso dal passato ma ricco di esigenze e affamato di novità.



La musica rock, spodestando in questo senso il jazz, “divenne il mezzo multiuso per esprimere desideri, istinti, sentimenti  e aspirazioni”[1] del mondo dei giovani. Le vendite dei dischi negli Stati Uniti, dal 1955 (anno di nascita del rock‘n’roll) al 1959, crebbero con percentuali altissime rispetto al passato[2] e mostrarono le potenzialità che la nuova musica giovane aveva per l’industria discografica. Industria che tuttavia, agli inizi degli anni ‘60, si trovò in difficoltà nel tentare di proporre cloni di Presley o personaggi non così dirompenti nell'immaginario giovanile come lo furono i primi cantanti rock‘n’roll. 



La registrazione del primo 45 giri nel 1962 da parte dei Beatles diede l’avvio ad una nuova grande rivoluzione nell’ambito della musica pop a livello internazionale. Per uno strano destino,  il testimone della ri-nascita del rock passò dagli Stati Uniti al vecchio impero britannico ormai in decadenza, ma capace di riportarsi al centro della scena mondiale con la sua produzione artistica. L’esplosione dei Beatles e, in generale della musica rock inglese, è preceduta da una forte attività artistica che segue i binari dell’imitazione e, allo stesso tempo, dell’autonomia[3].
L’esempio dei folk singer americani porta alla presa di coscienza del patrimonio popolare inglese, sia in una dimensione più propriamente folk che sotto l’aspetto politico e militante. Il grande successo, nell’immediato dopoguerra,  del jazz tradizionale “…lascia il posto allo skiffle, una sorta di versione proletaria del rhythm and blues che si poteva suonare anche senza conoscere la musica e con strumenti d’occasione”[4] ed è da qui che anche i Beatles passeranno.



Accanto alle imitazioni del rock‘n’roll americano  l’altro grande filone su cui si muove la musica inglese è il blues. “All'origine corrisponde al mito crescente dell’America”[5], ma agli inizi degli anni ’60 diventa un fenomeno tipicamente britannico (anzi, londinese), con una serie di gruppi e musicisti importanti per gli sviluppi futuri della scena musicale anglosassone. 
E il blues diventa un terreno comune dove suonano insieme i primi jazzisti inglesi e musicisti rock. Significativi, da questo punto di vista, sono i Bluesbrakers di John Mayall e la formazione di Alexis Korner, Blues Incorporated: qui “muovono i primi passi personaggi del calibro di Mick Jagger, Brian Jones, Keith Richards, Charlie Watts (i Rolling Stones!), ma anche importanti esponenti del jazz inglese quali John Surman, Dave Holland,”[6] e  Lol Coxhill. 
E’ importante sottolineare questa vicinanza e condivisione di esperienze tra jazzisti e rockers, perché poi questo elemento scomparirà nel corso degli anni e rimarrà presente solo nelle vicende dei musicisti di Canterbury.
Beat da una parte e rock blues dall'altra formano inizialmente quel grande fiume musicale che dà vita alla British Invasion dell’America e del mondo occidentale, che fa da colonna sonora ai sogni ed alle aspirazioni dell’universo giovanile europeo ed americano, che spinge migliaia di giovani  ad affrontare la carriera musicale, seguiti in questo da manager, etichette discografiche, impresari.



Il grosso impatto che ebbe la musica rock è solo un tassello della più ampia rivoluzione culturale che si ebbe, a livello mondiale, nel corso degli anni ’60. L’insofferenza dei giovani verso regole, comportamenti, leggi e istituzioni fu dirompente e dal mondo anglosassone s’innescò l’esplosione.
L’universo giovanile esplorò e rivoluzionò tutti i linguaggi artistici, trovando in alcune città, prima fra tutte Londra, la swingin’ London, la propria residenza eletta, il luogo dove poter sperimentare la “rivoluzione psichedelica”, dove produrre quegli elementi di una società diversa, più libera, più giusta, più creativa.
Il 1968, con la sua carica di gioia e di rivoluzione, spazzò vecchie consuetudini, antichi retaggi culturali, politiche reazionarie e impose al mondo intero l’idea che una rivoluzione, in alcuni casi solo culturale, in altri politica e sociale, fosse possibile. E il soggetto trainante fu quell'universo giovanile che diventò talmente importante da modificare profondamente e per lungo tempo gli assetti sociali, politici e culturali delle società occidentali e non solo.



Un tale sommovimento non poteva non toccare, in modo significativo ovviamente, tutte le espressioni artistiche e quindi anche la musica jazz. L’esplosione del free negli Stati Uniti consentì ai musicisti europei un approccio più originale al jazz e all'improvvisazione, ponendo un serio argine ai fenomeni di emulazione che tanto avevano connotato le prime esperienze jazz nel vecchio continente. E’ in Inghilterra, e soprattutto a Londra, che cominciano ad intrecciarsi diverse esperienze tra loro e che verranno a maturazione agli inizi degli anni ’70. 
La musica improvvisata dei vari Derek Bailey, Trevor Watts, Paul Rutheford, Evan Parker, il jazz degli esuli sudafricani McGregor, Pukwana, Dyani, Moholo, Feza, il rumorismo e l’avanguardia degli AMM di Cardew, Prevost e Rowe, il Ronnie Scott Club con i vari Westbrook, Surman, Holland e McLaughlin, la già citata fucina blues di Alexis Corner e, ovviamente, il rock psichedelico dei Soft Machine e dei Pink Floyd, un calderone creativo e unico che solo una città come la Londra degli anni ’60 poteva ospitare. “L’interesse per la pittura, la poesia, la narrativa, il teatro, il balletto e la scultura, rese più urgente liberare la creatività dai confini formali che separavano i generi musicali e le arti tra di loro; poter suonare insieme quando le distanze si ricoprono con poche fermate di metropolitana , agevolò molto lo scambio quotidiano”[7], e generò musiche “ibride”, nuove rispetto al passato, in un fuoco di passione e creazione che non avrà più eguali. 
Ma la grande onda creativa, al volgere degli anni ’70, comincia a ritrarsi, a “istituzionalizzarsi”, con la moltiplicazione di stili e la professionalizzazione del musicista rock, ora più attento alle vendite ed alle mode. Se da una parte, tra il  1970 e il 1971, escono Elastic Rock dei Nucleus di Ian Carr (sul filone jazz rock aperto dal Miles Davis di Bitches Brew),  Third dei Soft Machine, Septober Energy dei Centipede di Keith Tippett (una sorta di Woodstock da studio di registrazione, con la numerosa presenza di musicisti jazz e rock inglesi), Brotherood of Breath dei musicisti sudafricani esiliati a Londra, dall'altra l’inizio dei ’70 vede anche la morte di tre fra i più grandi e famosi esponenti della scena rock internazionale: Jimi Hendrix, Janis Joplin e Jim Morrison. E’ come una sorta di canto del cigno, la creatività e la/le fusione/i si ritirano nell'alveo sicuro della stabilizzazione e della normalizzazione. 



La crisi economica degli anni ’70, acuita dallo shock petrolifero del 1973, pone le basi per un costante e definitivo abbandono di un modello di sviluppo non più sostenibile da parte del capitalismo. La piena occupazione, il welfare esteso che proprio in Gran Bretagna avevano trovato uno sviluppo crescente, cominciano ad entrare in crisi e i sogni di rivoluzione si diradano lasciando  il posto alla rabbia e alla disperazione di una disoccupazione sempre più estesa (nel 1977 esplode il fenomeno punk, sempre a Londra) e di un allentamento delle tutele sociali da parte dello stato. 
Dal punto di vista musicale, negli anni ’70 “il rock perde quel suo imponente senso della marea montante, la sua creatività unidirezionale, per disperdersi in mille diversi campi. Se prima era un grande fiume , ora diventa un arcipelago”[8]. E’ un fenomeno che toccherà anche il jazz, emarginato nei suoi sviluppi free e avanguardisti, ma di crescente popolarità nella sua fusione con il rock.

In ogni caso il ruolo di Londra negli anni '60 e '70 nell'evoluzione, nel parziale depotenziamento e infine nella radicale mutazione dell'estetica delle musiche popolari e del loro intreccio costante con le dinamiche dell'universo giovanile è fondamentale,  propulsivo. 
“Riassumendo: un intreccio di circostanze plasmò a Londra un’intera generazione di musicisti; l’amore per i maestri americani, la passione per i toni insurrezionali del free, la fedeltà tutta inglese, indistruttibile, alla tradizione, al folk, il piacere di suonare blues, il divertimento adolescenziale del putiferio beat, la provocazione intellettuale suggerita dal gruppo Fluxus, le caleidoscopiche avventure nello spazio psichedelico e l’incontro ravvicinato con i fratelli sudafricani”[9].



 pop 


[1] E. Hobsbawm , “Gente non comune”, RCS Libri, Milano, 2000, pag. 361
[2] E. Hobsbawm , Ibid. pag. 360
[3] G. Castaldo, “La terra promessa”, Feltrinelli Editore, Milano, 1994, pag. 94.
[4] A. Carrera, “Musica e pubblico giovanile”, Feltrinelli Editore, Milano, 1980, pag. 83
[5] Ibidem, pag. 94
[6] G. Nanni, “Rock Progressivo Inglese”, Castelvecchi Editore, Roma, 1998, pag. 17
[7] C. Bonomi – G. Fucile, “ Elastic Jazz”, Auditorium Edizioni, Milano, 2005, pagg. 19-20
[8] G. Castaldo, “La terra promessa”, cit., pag. 202
[9] C. Bonomi – G. Fucile, “Elastic jazz”, cit., pag. 22

mercoledì 11 marzo 2020

Fantascienza e ambigue comuni!

Il rituffarmi con entusiasmo all'interno del mondo della fantascienza scritta, dopo molti anni di colpevole abbandono, mi ha portato a riflessioni bizzarre e curiose analogie. 
A parte le considerazioni sul genere come configurazione dell'immaginario, come esplorazione dei confini del possibile e quindi, di questi tempi, il suo mutarsi quasi completamente in distopia, vorrei invece condurre alcuni ragionamenti sul rapporto tra fantascienza e musica, rock e jazz in particolare.


Mi sono imbattuto in una serie di articoli, per lo più compilativi, con lunghe ed esaurienti liste di gruppi e solisti che per un motivo o per l'altro hanno avuto rapporti con la fantascienza, sia per quanto riguarda i testi che dal punto di vista più strettamente musicale. 
Onestamente, penso che nella stragrande maggioranza dei casi chiunque, in ambito musicale popolare contemporaneo, abbia prima o poi fatto riferimento a tematiche più o meno vicine alla fantascienza. D'altronde, secondo Antonio Caronia, uno dei massimi esperti in questo campo scomparso purtroppo nel 2013, la fantascienza nasce nel 1920 con le riviste pulp americane, grosso modo quando iniziano ad essere commercializzati su larga scala i dischi. Sono prodotti per così dire pop, ed hanno a lungo interagito nell'immaginario del ventesimo secolo. Il blues, il jazz, il rock hanno tratto ispirazione da un genere che più di altri, in ambito popolare, ha saputo "riflettere, rielaborare, restituirci, le contraddizioni della nostra vita, pubblica e privata, le aspirazioni, le tensioni, gli incubi che percorrono il tessuto sociale e le storie personali di ognuno di noi", (Antonio Caronia, Giuliano Spagnul, Introduzione a Nei Labirinti della Fantascienza, Mimesis Edizioni, Milano-Udine, 2012-2013).


David Bowie, Pink Floyd, Rush, i gruppi Progressive, King Crimson e Van Der Graaf Geenerator su tutti, ma anche Gary Numan e i Radiohead, i Beatles e i Rolling Stones di Their Satanic Majesties Request, Elton John con Rocket Man. E poi, per quanto riguarda il jazz....Fruttero e Lucentini, nell'antologia di racconti Il Quarto Libro della Fantascienza, da loro curata, mettono in parallelo la storia di due generi, jazz e fantascienza, entrambi nati negli anni 20 del secolo scorso, in America, di "origini popolari e nobili ascendenze". E nel momento stesso che l'Inghilterra rivoluziona il genere letterario con la cosiddetta new wave della rivista New Worlds diretta da James Ballard e Michael Moorcock anche la musica afroamericana si trova ad essere reinterpretata dai musicisti jazz europei, primi fra tutti gli inglesi (Claudio Bonomi, Gennaro Fucile. Elastic Jazz. Sketches of Britain, Edizioni Auditorium, Milano, 2005). Il Coltrane di Interstellar Space, Science Fiction di Ornette Coleman, i Weather Report di I Sing The Body Electric, ispirato ad un racconto di Ray Bradbury, i Nucleus di Solar Plexus....


Insomma, di esempi ce ne sarebbero a centinaia e questo vuole solo dire che fantascienza e musica popolare hanno avuto così tanti stretti legami da risultare  l'una ispirazione dell'altra e viceversa, probabilmente.
Ho evitato di nominare alcune formazioni che più di altre, secondo me, hanno avuto un atteggiamento differente, più di spessore per alcuni versi, rispetto ai tanti esempi che ho elencato sopra e ad altrettanti che non ho citato. Ma questi sono un po' il fulcro di questo post e quindi ci torno fra poco. Ora, più interessante a me sembra l'idea di identificare, certo sommariamente, alcuni criteri musicali che corrispondono, grosso modo, ad un suono "fantascientifico". O meglio, esiste effettivamente un'estetica musicale che possa essere ricondotta alla letteratura e alle caratteristiche della fantascienza?


E' estremamente complicato trovare punti in comune per esempio tra Bowie e i Rush, e tra questi e Coltrane, oppure i Radiohead con i Blue Oyster Cult. Insomma, a parte i riferimenti letterari, i rimandi ad autori e a storie della fantascienza, dal punto di vista strettamente musicale non sembra esserci molto in comune. Eppure credo che un certo tipo di approccio ed estetica musicale debba essere ricondotta all'immaginario della letteratura di genere. Le lunghe suite irrobustite dai suoni del synth, o dalle tastiere, possono benissimo ricollegarsi ai viaggi interspaziali comuni a molte storie della fantascienza del primo periodo. Così come una certa sperimentazione elettronica propria del Kraut Rock ha molto di futuro, e le lunghe improvvisazioni coltraniane portano l'ascoltatore in altri mondi, al pari degli inquietanti paesaggi sonori del Coleman di Science Fiction che prefigurano un avvenire oscuro e conturbante.


L'estendere i confini, immaginari e musicali, le sperimentazioni, elettroniche e non, l'evocazione di territori altri, inauditi, sono approcci che potremmo definire fantascientifici, ovviamente non prendendoci troppo sul serio. Certo è ancora un po' vaga la caratterizzazione, ma il tutto sembrerà più chiaro andando a prendere in esame coloro che più di altri hanno fatto del rapporto con la fantascienza la loro cifra stilistica, la loro impronta.
Sun Ra Arkestra, Hawkwind, Gong. Non sono i soli ad essere portatori di estetiche del futuro, ma sono quelli che, curiosamente, hanno caratteristiche in comune che sono rapportabili ad una forte aderenza all'immaginario sci-fi.
Iniziamo con il sottolineare la presenza, in tutte e tre le compagini, di lunghe suite, con innesti di synth e lunghe ripetizioni di frasi  e loop. Pur essendo gruppi estremamente differenti fra loro, soprattutto l'Arkestra rispetto agli altri due, non mi sembra di essere troppo lontano dal dire che queste lunghe fughe spaziali caratterizzano in grossa parte le loro composizioni. Talmente è presente ed è forte, sia come testi che come estetica generale, l'ambientazione fantascientifica che la musica non può non risentirne. Per quanto concerne Sun Ra, tutto ciò che lo riguarda è improntato ad altri mondi, ad una musica che proviene da altri universi. Gli Hawkwind hanno avuto come paroliere, e anche come performer, proprio lo scrittore Michael Moorcock, uno degli artefici della New Wave inglese, quella sorta di corrente che rivoluzionò la fantascienza negli anni '60. I Gong di Daevid Allen hanno viaggiato su teiere volanti partendo da un fantomatico pianeta popolato da stranissimi personaggi e raccontando vicende bizzarre e stralunate.


Sono similitudini a volte superficiali,  nondimeno rappresentano un tipo di approccio che determina particolari caratteristiche musicali. E non solo. In realtà, ciò che mi ha colpito di più nell'analizzare le storie di questi ensemble è  stato il modello partecipativo adottato. Le vicende di questi gruppi sono state caratterizzate da tentativi più o meno riusciti di vissuti collettivi, di costruzioni di comunità alternative. Qualcosa abbastanza raro nel mondo sia del rock che del jazz.
Le storie degli Hawkwind, dei Gong e dell'Arkestra di Sun Ra tentano invece di coniugare collettivamente musica e vita privata, all'interno di comuni dove mettere in pratica esperienze anticonformiste. Formazioni variabili e allargate, con frequenti cambi e la presenza di scrittori, artisti, intellettuali, performers vari, residenze collettive, intensa attività live e numerose uscite discografiche:  è come se avessero voluto testimoniare e riprodurre in Terra le vicende da loro ambientate nel cosmo.


Sun Ra è, nei fatti, il precursore di questo tipo di esperienze e il suo approccio, nei confronti dell' Arkestra (che ha avuto negli anni differenti nomi) è di tipo protettivo, accudente e con elementi dispotici. Le comuni di Dave Brock e di Daevid Allen sono invece figlie dei movimenti giovanili della fine degli anni '60 e degli anni '70. Una sorta di fuga dal mondo capitalista e una ricerca di mondi diversi. In questo caso da costruire sulla Terra. Ma tutte e tre le esperienze condividono la presenza di un leader, di una guida spirituale, musicale, anche filosofica potremmo dire. E se gli approcci differiscono nondimeno i leader esercitano, chi con tratti dispotici chi in maniera più soft o addirittura rifuggendo talvolta dalle proprie responsabilità, come nel caso di Allen, una specie di potere alieno, una volontà non solo artistica di costruire il gruppo, e la comunità, ma anche, come dicevo prima, filosofica e spirituale.
Tutte e tre le comuni vivono immerse in mondi fantascientifici, pienamente e, per certi versi, consapevolmente, consci di veicolare messaggi, musiche e storie di e da altri mondi. E' come se avessero trovato, nella letteratura sci-fi, la possibilità di manifestare le loro espressività artistiche e poi le avessero riversate all'interno della comunità. O forse il pensiero fortemente controcorrente ha trovato dimora in altri mondi, letterari e musicali, e le comuni sono state il mezzo per poter vivere con pienezza le loro concezioni, il loro spirito. In ogni caso le storie di questi tre gruppi, e dei loro leader, rappresentano, un serio e concreto rapporto con la fantascienza, oltre il lato prettamente musicale e testuale.




Da questo punto di vista la fantascienza conferma la sua enorme capacità nel rappresentare non solo le ambizioni, le nevrosi  e le paure della società contemporanea ma anche a trascendere la realtà e a delineare visioni utopiche e mondi alternativi.

Potrei anche finirla qui se, in questa strana riflessione, non si affacciasse un'altra comune, forse la più famosa, o comunque quella con il maggior numero di seguaci. E che con la fantascienza, anche se di lato, in maniera defilata, tutto sommato qualche contatto lo ha avuto. 
Parlo dei Grateful Dead e della loro stella scura, quel viaggio interspaziale compiuto con Dark Star che ha fatto sognare milioni di ascoltatori, dal vivo e a casa propria su disco. Anche loro con una guida spirituale, Jerry Garcia, e una visione collettiva artistica e di vita che trova legittimità nelle stelle, sulle Mountains Of The Moon, insieme a personaggi come Cosmic Charlie
E, visto che siamo dalle parti di San Francisco, un breve accenno va fatto anche per l'altra comune, quella dell'aeroplano Jefferson, della suora cromata Grace Slick e, soprattutto, della nave spaziale Starship. Il disco Blows Against The Empire, accreditato a Paul Kantner e Jefferson Starship, esplica in maniera chiara la visione di una fuga dalla Terra, ormai irriformabile, e la ricerca di un nuovo pianeta dove poter costruire un mondo nuovo, più giusto e solidale, senza sfruttamento e senza guerre.  

"Mi ci vollero degli anni per rendermi conto di aver scelto di lavorare in generi disprezzati e marginali come la fantascienza, la fantasy e la narrativa per adolescenti, esattamente perchè essi erano esclusi dal controllo della critica, dell'accademia, della tradizione letteraria, e consentivano all'artista di essere libero"
Ursula K. Le Guin


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lunedì 9 marzo 2020

Radio Gnome Invisible. La Trilogia del Pianeta Gong. Parte 5


La Cosmogonia del pianeta Gong





La trilogia di Radio Gnome Invisible, oltre ad avere un’omogeneità e un filo conduttore musicale, ha un contorno testuale e storie che, per quanto bizzarre e confuse, corrono attraverso i tre dischi. Ideatore del  mondo gonghiano è Daevid Allen, che costruisce intorno alla musica un universo fantastico fatto di simbolismi, stramberie psichedeliche, personaggi e avventure fiabesche. Il tutto sempre avvolto da grande ironia, elemento che accomuna un po’ tutta la scena di Canterbury. L’invenzione di un mondo fantasy associa i Gong agli altri grandi alfieri dello space rock, gli Hawkwind, e al loro mentore letterario, Michael Moorcock, scrittore di fantascienza e autore di molti testi del gruppo.
Ma per Daevid Allen la costruzione di questa cosmogonia è qualcosa di più di un’opera letteraria. Sembra quasi essere un involucro nel quale l’australiano vuole inserire la sua filosofia di vita, reinterpretarla e reindirizzarla alla luce delle coordinate del pianeta Gong. E’ come se avesse traslato le sue esperienze in un altro mondo che per lui è veramente presente, vivo, e non solo un artificio letterario. O forse, ipotesi altamente probabile, è soltanto un grande e spettacolare scherzo di un geniale folletto alle prese con la vita.



L’australiano fa risalire alla Pasqua del 1966 la sua prima visione del pianeta Gong che, già nei precedenti lavori prima della trilogia, inizia a lanciare timidi segnali di apparizione. Su Camembert Electrique compare per la prima volta la dea lunare Selene e su Magick Brother, in Gong Song, viene introdotta approssimativamente la mitologia del pianeta e dei suoi Pot Head Pixies.
Ma ovviamente con Flying Teapot abbiamo il vero inizio della storia. 
Radio Gnome è una sorta di radio pirata telepatica che trasmette da una teiera volante proveniente dal pianeta Gong. Questa teiera atterra in Tibet sul tappeto di preghiera di Lawrence l’alieno il quale, leggermente turbato, improvvisa una danza con i suoi tamburi. 
La teiera è colma di folletti chiamati Pot Head Pixies che rimangono affascinati dal loro primo incontro con un terrestre. Il grande yogi Banana Ananda porta in salvo i Pot Head Pixies e li presenta alla banda. Poi arrivano i Grandi Saggi, detti Dottori dell’Ottava che diffondono subliminali  e segrete saggezze attraverso la macchina di cristallo. Solo Zero The Hero poteva essere in grado di interpretare quei messaggi e canta per i folletti una canzone d’amore e devozione. Ma i Pot Head Pixies non vogliono essere adorati e portano Zero attraverso la terra di Scat e i campi magnetici di Bad De Grasse (il soprannome di Didier Malherbe), dove Zero vede una teiera volante e incontra la strega Yoni che seduce tutti con un flusso incantato. Poi canta la sua canzone I Am Your Pussy, con un dingo che le offre fish and chips.



Questa è la storia che appare all’interno della copertina di Flying Teapot e che presenta alcuni protagonisti  della trilogia. Zero The Hero è il personaggio principale, che abbandona la sua vita ordinaria grazie ad una visione in Charing Cross Road a Londra e decide di fondare il culto di Cock Pot Pixie, il primo Pot Head Pixie a sbarcare sulla Terra. Lo yogi Banana Ananda, lo yogi della birra che vive in una caverna in Tibet. 
I Pot Head Pixies, gli abitanti del pianeta Gong che viaggiano all’interno di una teiera volante.  Yoni, la buona strega che serve la divinità lunare Selene. I Dottori Dell’Ottava, i saggi protettori del pianeta Gong. A questi personaggi vanno aggiunti un allevatore di maiali egittologo, Mista T. Being, e un venditore ambulante di teiere antiche dal nome Fred The Fish. Costui vende un orecchino magico, in grado di captare i segnali del pianeta Gong irradiati da Radio Gnome, all’allevatore e insieme si recano in Tibet dallo yogi Banana Ananda.
La storia continua su Angel’s Egg e vede Zero The Hero fluttuare nello spazio dopo aver bevuto una pozione magica. Sul pianeta Gong conosce una prostituta che lo presenta alla dea lunare Selene mentre i Pot Head Pixies gli spiegano come riescono a volare sulle teiere volanti. Zero viene portato al Tempio Invisibile del pianeta Gong dove ci sono i 32 Dottori Dell’Ottava e gli viene rivelato un grande piano. Zero dovrà organizzare sulla Terra un grande banchetto di freaks e a ciascuno di loro verrà dato un terzo occhio dal Dottore Dell’Ottava della Terra, Switch Doctor, il quale vive presso l’Invisible Opera Company Of Tibet. Il terzo occhio è proprio Angel’s Egg, un mandala che sarà il simbolo dei Gong e che prefigura l’avvento di una Nuova Era sulla Terra.



Con You termina la saga di Radio Gnome Invisible. Zero fa ritorno sulla Terra e chiede a Hiram il capomastro come costruire il proprio Tempio Invisibile. Poi organizza il banchetto di freaks sull’isola di Everywhere e lo Switch Doctor fornisce il terzo occhio a tutti gli invitati eccetto proprio Zero che si è lasciato sedurre dalla Torta Di Frutta di Banana Ananda e per questo è costretto a ruotare sul ciclo della nascita e della morte avvicinandosi lentamente all’Angels Egg, il terzo occhio.

Questo universo fantasy, ricco di messaggi e stravaganze assortite, viene declinato attraverso i brani dei tre dischi in un fluire spontaneo, gioioso, quasi a voler mostrare all’ascoltatore la naturalezza e la veridicità delle avventure di Zero e del pianeta Gong. E’ un’impalcatura che, al contrario di molti altri concept album, alleggerisce ed esalta la musica, usando spesso l’ironia, il capriccio e il nonsense.
Ci sarà  lo spazio anche per un quarto e un quinto capitolo della saga.  Shapeshifter, pubblicato nel 1992, e Zero To Infinity, del 2000, con formazioni rimaneggiate ma ancora una sana e ironica visione della musica e del pianeta Gong. Come ha scritto il Daily Telegraph dopo la morte di Daevid Allen, avvenuta il 13 marzo 2015, “Allen si è divertito ad essere il giullare dell’hippie rock e non ha mai perso il suo entusiasmo per il potere trascendente dell’esperienza psichedelica. Una volta ha osservato: la psichedelia per me è un codice per quella profonda esperienza spirituale in cui esiste un legame diretto con gli dei. Il fatto che non abbia mai raggiunto la ricchezza e la fama di molti suoi contemporanei non lo riguardava”. 




Fonti
Daevid Allen, Gong Dreaming 1, GAS Publishing 1994
Aymeric Leroy, L’ècole De Canterbury, Le Mot Et Le Rest, 2016
Graham Bennett, Soft Machine, SAF Publishing, 2005
Michele Coralli, Swingin’ Canterbury, Tuttle Edizioni, 2007
Giancarlo Nanni, Rock Progressivo Inglese, Castelvecchi, 1998
Al Aprile Luca Mayer, La Musica Rock-Progressiva Europea, Gammalibri, 1980
Luigi Bontempi, I Racconti Di Canterbury, Nautilus, 2007
  



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