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venerdì 18 marzo 2022

Disorder at the Border

 



Questo breve scritto fa parte di una serie di schede compilate per un laboratorio sulla storia del jazz, Percorsi Jazz. 



DISORDER AT THE BORDER

 

Il mito della frontiera, dello spostamento dei confini sempre più in là, fino alla conquista dell’intero continente, è stata una delle narrazioni più evidenti ed importanti delle vicende americane. E per quanto riguarda le arti, e il jazz in particolare, la ricerca e il superamento dei limiti hanno fatto da elemento propulsore delle dinamiche artistiche, in stretto rapporto con le vicende storiche e sociali. In circa un secolo di storia il jazz ha promosso una serie di trasformazioni tali da rivoluzionare in maniera profonda l’ascolto e la pratica musicale in tutto il mondo. Ovviamente questo è in stretta relazione con l’emergere e lo stabilizzarsi degli Stati Uniti come prima potenza mondiale, sia dal punto di vista economico che militare. E le evoluzioni tecnologiche, la radio e i dischi, hanno certo favorito l’espansione della musica jazz in tutto l’occidente, e non solo.

L’intreccio con le vicende storiche non è certamente circoscritto ad una dinamica di causa effetto, o posto in maniera meccanica, ma va interpretato e connesso dialetticamente. Come per tutte le arti, le vicende storico sociali, politiche ed economiche sono traslate, anticipate o interpretate dall’espressione artistica. La musica, in questo caso il jazz, è agente di storia, strumento di narrazione storica e fonte per la ricerca e siamo noi a dover interrogare la produzione artistica per rintracciare ed analizzare i rapporti che intercorrono tra essa e le vicende storiche. Agente di storia in quanto è presente ai mutamenti e, all’interno di essi, costruisce, delinea e organizza identità e partecipazione. Strumento di narrazione storica perché è in grado di narrare il passato, la storia e le storie delle vicende umane. Ed è, da ultimo, un materiale per la ricerca storica, una fonte certo difficile da maneggiare, stratificata e complessa[1].

Da questo punto di vista possiamo rintracciare, all’interno della storia del jazz che va dagli anni della Seconda guerra mondiale fino al 1959, anno di registrazione del disco Free Jazz a nome di Ornette Coleman, una tensione, un movimento spasmodico verso il superamento di confini, regole e comportamenti in ambito jazzistico. Il tutto strettamente intrecciato all’evoluzione storica degli Stati Uniti, alle sue contraddizioni interne e al suo ruolo esterno.

Il coinvolgimento degli USA nella Seconda guerra mondiale, nel dicembre del 1941 dopo l’attacco di Pearl Harbour, trova una nazione e una società ancora alle prese, seppur parzialmente, con la crisi economica innescata dal crollo di Wall Street del 1929. Il New Deal Roosveltiano aveva certo permesso un miglioramento generale delle condizioni di vita della popolazione ma la disoccupazione toccava, ancora nel 1940, il 14,5 per cento della popolazione, più di 8 milioni, e 5,6 milioni nel 1941[2]. La partecipazione in guerra riportò la piena occupazione e nuovi e grandi profitti per il sistema industriale americano, con conseguente rafforzamento del capitalismo americano anche in prospettiva mondiale[3]. L’entrata in guerra comportò uno stravolgimento dell’assetto sociale con il coinvolgimento, nella produzione e nel conflitto, di ampie fasce di popolazione fin lì escluse o emarginate. Le donne e gli afroamericani, ma anche gli operai, ora centrali nello sforzo della nazione per vincere la guerra, assunsero un ruolo importante che comportò un aumento di conflittualità e di richiesta di diritti. Si combatteva in nome di ideali progressisti e di uguaglianza all’esterno ma ovviamente quegli stessi principi dovevano essere messi in atto anche all’interno del paese. 

Il protagonismo delle masse popolari, e all’interno di esse della comunità afroamericana, ebbe riscontro anche nel campo delle arti, in particolare in ambito jazzistico. La guerra mise in crisi le grandi orchestre votate all’intrattenimento e al ballo, che tanto avevano spopolato negli anni ’30. Ma anche lo stesso ruolo del musicista, visto spesso come semplice esecutore, stava cambiando. La spinta a forzare i limiti sia della società che dal punto di vista artistico iniziò a manifestarsi in un momento cruciale come quello della Seconda guerra mondiale. Al successo della cinquantaduesima strada di New York, ricca di locali famosi con orchestre e star dello spettacolo, si andava contrapponendo in maniera sotterranea la Harlem dei Minton’s Playhouse e Monroe’s Uptown, piccoli locali dove si svolgevano jam session furiose e si sperimentavano nuovi linguaggi. L’iniziativa era nelle mani e nelle note dei musicisti neri, ora certamente in sintonia con il nuovo ruolo della loro comunità nella società americana. La mobilitazione della nazione americana in nome della libertà nella guerra contro il nazifascismo riportava a galla la questione razziale, e con essa un nuovo protagonismo degli afroamericani che si intrecciava alle rivendicazioni delle masse popolari bianche, impegnate nello sforzo bellico sia al fronte esterno che in quello interno. La crescita degli iscritti ai sindacati comportò anche la loro parziale apertura ai lavoratori neri, e un generale movimento di conquista di maggiori diritti serpeggiava in tutto il paese.

Il Be Bop, anche se in un momento particolarmente difficile, è segnale inequivocabile di maggiore dinamismo, di rottura di schemi preesistenti. La struttura dell’orchestra, con ruoli predeterminati, un leader, solisti per poche battute e in generale macchina per divertirsi, viene lentamente sradicata a favore di una musica che non è più d’intrattenimento ma è musica d’arte. I piccoli combo diventano i protagonisti e con loro una musica veloce, angolosa, irrequieta, lontana dalle atmosfere patinate dello swing. Ovviamente non si arriva a questo all’improvviso, ma la tendenza inizia a manifestarsi già a fine anni Trenta grazie ad alcuni musicisti che saranno poi fondamentali per la nascita e l’affermazione del Bop. Charlie Christian, chitarrista dell’orchestra di Benny Goodman, è uno di loro, così come ovviamente Charlie Parker nell’orchestra di Jay MacShann e Dizzy Gillespie, che grazie anche al sostegno di uno dei grandi del jazz come Coleman Hawkins, ha la possibilità di mettersi in mostra a fianco, per l’appunto, di uno dei padri dal jazz. In Disorder at the border (brano di Hawkins registrato nel 1944 https://youtu.be/IqEjHzusYUo) si può notare l’estrema differenza solistica e la ricerca, fatta da Dizzy, di infrangere alcune regole fin lì acquisite, come in una specie di moto ondoso che sempre più avanza.

Per quanto, dal punto di vista armonico, la rivoluzione bop non sia così profonda, richiamandosi in parte ad acquisizioni già avvenute in ambito classico, grazie a Debussy, Hindemith e Schoenberg, nondimeno all’interno del quadro jazzistico sono mutazioni che pesano, che incidono. Una caratteristica fondamentale delle innovazioni boppistiche è la diversa concezione ritmica rispetto allo swing. Una batteria che accentua momenti importanti all’interno del brano e non più limitata al solo 4/4 per ballare. In generale un diverso approccio ritmico più intraprendente, meno legato al sostegno e più in primo piano. Questa irruenza ritmica è una sorta di flusso che tende ad infrangere le regole, traslando nel jazz quel nuovo protagonismo delle masse popolari americane, tutte, impegnate sia nello sforzo bellico che nella ricerca di una società diversa, tese a rompere le dinamiche pre-guerra.

Un altro aspetto del rinnovamento e della tensione verso la rottura e lo spostamento dei confini, musicali e no, è la volontà di avere un nuovo repertorio o, in alcuni casi, di riscrivere totalmente vecchi brani e rimodularli sulle nuove concezioni armonico stilistiche. C’è da sottolineare, comunque, il solo parziale lavoro di rinnovamento della forma. Anzi, da questo punto di vista, è come se si segnasse una sorta di passo indietro rispetto alle elaborazioni fatte soprattutto sul repertorio delle grandi orchestre, Ellington su tutti. C’è una semplificazione, tema assoli tema, che da un lato permette lo sviluppo e la maggiore importanza del solo, ma dall’altra impoverisce, per l’appunto, il discorso formale, le modifiche e gli sviluppi sui temi che successivamente verranno ripresi in parte dal Cool jazz.

Il protagonismo musicale e sociale si arresta nella seconda metà degli anni ’40, in pratica dopo la fine della Seconda guerra mondiale. La morte di Roosevelt e l’elezione a presidente del suo vice, Truman, nell’aprile del 1945 sposta gli assi della politica interna ed esterna degli USA. Il nuovo presidente è certamente più attento alle richieste degli industriali del nord e dei proprietari terrieri del sud, modificando di fatto il ruolo egemonico avuto sin lì dei settori popolari. Da questo punto di vista, l’avvio della guerra fredda avrà un duplice scopo: da una parte contrastare a livello mondiale l’URSS e, dopo la vittoria di Mao nel 1949, la Cina, ma dall’altra mettere a tacere le richieste e le rivendicazioni salariali dei sindacati all’interno e congelare ogni movimento con il terrore del comunismo.  

L’assenza di conflitti e la normalizzazione della società americana, portata avanti sia dai democratici (o almeno una grossa parte del partito) che dai repubblicani, determina anche cambiamenti nel mondo del jazz. La rivoluzione bop viene anch’essa normalizzata, come depotenziata. Se ne assumono alcune conquiste inserendole però in un contesto più rispettabile. I comportamenti provocatori, le sperimentazioni e l’irruenza tipici dei primi boppers vengono messi in crisi dalla soffocante politica di caccia ai comunisti e ai loro fiancheggiatori. E così un’orchestra valida e intraprendente come quella del bianco Woody Herman raccoglie e porta avanti i frutti della rivoluzione bop incanalandola in differenti ambiti, meno sovversivi se così vogliamo dire. Ma l’attestarsi sulla difensiva, il ritiro e poi la stasi delle masse popolari è come se si riflettesse anche nel jazz, con l’emergere di un tipo di musica più rilassata, ben arrangiata e priva di grosse asprezze. Il Cool jazz, preso atto delle sperimentazioni del Bop, ne sussume le conseguenze e le rielabora in forma differente. Complice anche il passaggio propulsivo dai musicisti neri a, in gran parte, quelli bianchi. E anche lo spostamento dell’iniziativa dalla costa est, New York in particolare, alla costa ovest, dove c’era Hollywood e le atmosfere erano certamente meno tese.

Nondimeno le sperimentazioni Cool, portate avanti agli inizi da Miles Davis, Gil Evans, Gerry Mulligan, John Lewis, tra gli altri, mostrano quanto profondo sia il sommovimento provocato dalla rivoluzione bop, e ne conferma, come dicevo sopra, alcune conquiste, prima fra tutte la trasformazione del jazz da musica di consumo a forma d’arte. E, ovviamente, anche le innovazioni stilistiche, dalla pronuncia alla differente concezione ritmica, all’uso di scale e accordi particolari. Ma l’esuberanza nera è come messa in sordina, vincolata a forme di sperimentazione che certamente molto devono al materiale armonico/teorico occidentale e bianco. Da questo punto di vista, pur perdendo di irruenza e spontaneità, le musiche di estrazione cool sono però contraddistinte da un profondo lavoro sulla forma e sulla struttura tematica, così come sulla sperimentazione armonica. Soggiace nelle atmosfere e nello spirito di questa musica, pur di stretta derivazione bop, come un senso di levigatezza e introspezione, un mettersi di lato rispetto all’evoluzione della società americana, quasi a non voler troppo disturbare o non essere disturbati. La prima metà degli anni ’50 è, per gli USA, il trionfo, perlomeno declamato e omaggiato dal cinema e dalla televisione, della classe media, delle villette unifamiliari nelle aree residenziali suburbane delle città. Questo sviluppo, segnato dalle dinamiche repressive maccartiste, comporta un’ulteriore emarginazione delle masse afroamericane, così come dei settori liberal o alternativi, fuori dalla cortina di consenso e assurti a nemici interni nella guerra contro l’URSS. Non è certo un giudizio di valore che viene dato a questo jazz così elaborato e patinato, di alto livello, bensì solo una sottolineatura dei legami che la musica afroamericana, in questo caso, ha avuto con le dinamiche politico sociali ed economiche statunitensi.

Non bisogna tuttavia generalizzare troppo, dare un segno univoco a quegli anni, renderli di un solo colore. Non tutti erano classe media e l’altra faccia dei suburbs erano i ghetti neri delle grandi città, la condizione di estremo sfruttamento della classe operaia, o perlomeno di una sua fascia, quella più povera ovviamente. E gli eventi, sia storici che artistici, non hanno inizi o termini precisi, netti, bensì innovazioni e tendenze anticipatrici si muovono sotterraneamente per poi uscire in maniera dirompente o meno allo scoperto. E quindi insieme agli esperimenti di Giuffre, al contrappuntismo[4] di Mulligan o al “progressismo” di Stan Kenton, convivono i laboratori sperimentali di Charles Mingus così come resiste l’orchestra di Ellington, senza parlare dei cosiddetti reduci bopper della prima ora come Davis (peraltro già protagonista con la nascita del Cool) o Monk. Tuttavia, c’è una data precisa che può essere presa a misura del cambiamento di rotta delle dinamiche sociali e politiche, oltreché artistiche, che avviene negli USA: il primo dicembre 1955, a Montgomery in Alabama, profondo sud, viene arrestata l’attivista afroamericana Rosa Parks per essersi rifiutata di cedere il suo posto in autobus ad un bianco. È come un segnale che accende la rivolta e le rivolte, soprattutto innesca di nuovo e con maggior forza il protagonismo delle masse afroamericane. Le lotte per i diritti civili e la fine del segregazionismo coinvolgono anche settori ampi della società americana bianca e poi si fonderanno con i movimenti contro la guerra in Vietnam agli inizi degli anni ’60. Dal punto di vista artistico e musicale in generale, questa effervescenza sociale e politica non può non avere ricadute ed effetti. Nel 1954 Art Blakey e Horace Silver fondano i Jazz Messenger, alfieri di quello che viene definito Hard Bop, nient’altro che una versione più nera, più funk del Be Bop, con una forte componente blues e uno sviluppo del solismo ad alti livelli. Clifford Brown, Sonny Rollins, Jackie McLean, Hank Mobley, Cannonball Adderley, Lee Morgan, ma anche la rinascita di Miles Davis, che avviene proprio nel 1955, con il suo quintetto insieme a John Coltrane o allo stesso Sonny Rollins, insomma un fiorire di grandi solisti che segnano la storia del jazz e che sviluppano la loro arte proprio in questo periodo, con evidenti connessioni alle dinamiche in atto nella società americana.

La corsa quasi spasmodica a rompere consuetudini, regole, confini, procede di pari passo con le conquiste sociali e politiche soprattutto degli afroamericani, un’esplosione creativa che probabilmente non avrà più eguali. È l’ampliamento della fase improvvisativa, a scapito per alcuni versi dell’elaborazione tematica, a far esplodere l’edificio armonico, orami percepito come gabbia, come costrizione. Le nuove concezioni e i nuovi approcci di Ornette Coleman e Cecil Taylor liberano completamente l’improvvisazione dalla progressione armonica dandole finalmente la libertà creativa totale, basata sull’ispirazione del/dei musicista/i e senza alcun vincolo. È come se ora l’afroamericano (ma non solo, pensiamo per esempio al trio di Jimmy Giuffre con Paul Bley e Steve Swallow) fosse fuori dalle regole che, seppur modificate e piegate alla propria espressività, erano state espressione della storia e della cultura bianca e occidentale, quelle leggi e formule armonico/teoriche che avevano comunque segnato il jazz, la sua storia. Se l’esperienza Cool, fatta di sperimentazioni colte e avanguardistiche, aveva infranto le forme provenienti dal mondo pop e traslate nel jazz, l’Hard Bop sfocia nell’affrancamento della fase improvvisativa dalla schiavitù dell’armonia, lasciando al tema la funzione di ispirazione, di guida. Va detto che questi due approcci troveranno molti punti di contatto, per esempio nelle elaborazioni della cosiddetta Third Stream, una corrente musicale che tentava di coniugare il mondo colto e classico occidentale/europeo con il jazz. Nondimeno l’arrivo di Ornette Coleman porta a compimento una spinta insita alla musica jazz all’infrangere il corpus di regole e leggi dell’armonia occidentale, una folle corsa alla piena espressività di un popolo che fin lì era stato ancora soggetto al predominio bianco. Non che non lo sarà più, ma quelle conquiste musicali, a fianco delle conquiste sociali e politiche pagate a caro prezzo, saranno fondamentali per il prosieguo della storia culturale e sociale afroamericana. Un’ultima annotazione: anche lo stesso Davis, con il suo jazz modale, rappresenta, con un altro approccio, quel desiderio di emancipare l’improvvisazione, di permettere al solista di comporre istantaneamente senza dover porre attenzione alla progressione armonica. È uno sviluppo assolutamente fertile che sarà forte fonte di ispirazione per tanta musica, non solo jazz. E avrà una sua importante declinazione nella fase elettrica del trombettista, dove Davis porrà al centro della sua musica il ritmo black a sostegno di una piena libertà, persino dal tema. Ma questo è un altro discorso!

 

pop


[1] Marco Pieroni, Il nostro concerto. La storia contemporanea tra musica leggera e canzone popolare, 2001, R.C.S. Libri, Milano

[2] Bruno Cartosio, Stati Uniti contemporanei. Dalla guerra civile a oggi, 2002, Giunti, Firenze

[3] Richard Boyer – Herbert Morais, Storia del movimento operaio negli Stati Uniti, 2012, Casa Editrice Odoya, Bologna

[4] Stefano Zenni “Storia del jazz. Una prospettiva globale” Viterbo, 2012, Stampa Alternativa, pag.329

mercoledì 16 marzo 2022

Eric Dolphy

 



Questa è la lista praticamente completa delle registrazioni effettuate da Eric Dolphy e poi pubblicate su disco. La quantità e la qualità sono impressionanti, tenuto conto dei pochi anni nei quali Dolphy ha suonato. Solo per fare un esempio: guardate le date del 19, 20 e 21 dicembre 1960 e cosa ha registrato in quei soli tre giorni. 



Eric Dolphy

 

1958

4 e 6 luglio CHICO HAMILTON C. Hamilton & E. Dolphy Complete Studio Recordings (Newport Jazz Festival)

22 agosto CHICO HAMILTON The Original Ellington Suite

26 e 27 ottobre CHICO HAMILTON With Strings Attached

29 e 30 dicembre CHICO HAMILTON Gongs East

 

1959

6 gennaio CHICO HAMILTON Gongs East

25 febbraio CHICO HAMILTON The Three Faces of Chico

19 e 20 maggio CHICO HAMILTON That Hamilton Man (o  Truth)

 

1960

1 aprile ERIC DOLPHY QUINTET Outward Bound

24 e 25 maggio CHARLES MINGUS Pre-Bird

27 maggio OLIVER NELSON Screamin’ the Blues

28 giugno KEN McINTYRE Looking Ahead

13 luglio CHARLES MINGUS Mingus At Antibes

16 agosto ERIC DOLPHY Out There

19 agosto LATIN JAZZ QUINTET + ERIC DOLPHY Caribè

20 ottobre CHARLES MINGUS Charles Mingus Presents Charles Mingus

1 novembre ERIC DOLPHY Candid Dolphy (con Abbey Lincoln)

11 novembre CHARLES MINGUS Mingus

19 e 20 dicembre JOHN LEWIS GUNTHER SCHULLER JIM HALL Jazz Abstractions

21 dicembre ERIC DOLPHY with BOOKER LITTLE Far Cry

21 dicembre ORNETTE COLEMAN Free Jazz

 

1961

22 febbraio ABBEY LINCOLN Straight Ahead

23 febbraio OLIVER NELSON The Blues and The Abstract Truth

1 marzo OLIVER NELSON Straight Ahead

17 marzo BOOKER LITTLE Out Front

4 aprile BOOKER LITTLE Out Front

11 aprile TED CURSON Ted Curson Quintet

8 maggio GEORGE RUSSELL SEXTET Ezz-thetics

25 maggio JOHN COLTRANE Olè Coltrane

7 giugno JOHN COLTRANE The Complete Africa/Brass Sessions

20 giugno RON CARTER Where?

27 giugno MAL WALDRON The Quest

16 luglio ERIC DOLPHY At Five Spot

1,3,8 e 9 agosto MAX ROACH Percussion Bitter Sweet

30 agosto ERIC DOLPHY Berlin Concerts

4 settembre ERIC DOLPHY The Complete Uppsala Concert

6 e 8 settembre ERIC DOLPHY In Europe

25 settembre ERIC DOLPHY Stockholm Sessions

1, 2, 3 e 5 novembre JOHN COLTRANE The Complete 1961 Village Vanguard Recordings

11 novembre JOHN COLTRANE QUINTET (Amsterdam)

19 novembre ERIC DOLPHY Berlin Concerts (solo Serene)

19 novembre ERIC DOLPHY Stockholm Sessions

1 dicembre ERIC DOLPHY QUARTET feat. Lalo Schifrin Complete Recordings (Munich)

2 dicembre ERIC DOLPHY Softly, As In A Morning Sunrise (Munich)

 

1962

10 marzo ERIC DOLPHY Vintage Dolphy

Aprile BENNY GOLSON AND HIS ORCHESTRA Pop + Jazz = Swing

5 ottobre JOHN LEWIS Essence

7 ottobre ERIC DOLPHY feat. Herbie Hancock Complete Recordings

12 ottobre CHARLES MINGUS The Complete Town Hall Concert

 

1963

12 gennaio ORCHESTRA U.S.A. diretta da JOHN LEWIS Debut

4 febbraio ORCHESTRA U.S.A. diretta da JOHN LEWIS Debut

27 febbraio ORCHESTRA U.S.A. diretta da JOHN LEWIS Debut

8 marzo FREDDIE HUBBARD The Body & The Soul

10 marzo ERIC DOLPHY The Illinois Concert

11 marzo FREDDIE HUBBARD The Body & The Soul

14 marzo ERIC DOLPHY Vintage Dolphy

18 aprile ERIC DOLPHY Vintage Dolphy

26 aprile TEDDY CHARLES AND THE ALL STARS Russia Goes Jazz – Swinging Themes From….

2 maggio FREDDIE HUBBARD The Body & The Soul

1 e 3 luglio ERIC DOLPHY Iron Man e Conversations

Settembre GIL EVANS The Individualism of Gil Evans

20 settembre CHARLES MINGUS Mingus Mingus Mingus Mingus Mingus

 

1964

25 febbraio ERIC DOLPHY Out to Lunch

18 marzo CHARLES MINGUS SEXTET Cornell 1964

21 marzo ANDREW HILL Point of Departure

4 aprile CHARLES MINGUS The Jazz Workshop Concert 1964-65

6 aprile GIL EVANS The Individualism of Gil Evans

10 aprile CHARLES MINGUS The Jazz Workshop Concerts 1964-65 (Amsterdam)

12 aprile CHARLES MINGUS The Jazz Workshop Concert Oslo

13 aprile CHARLES MINGUS The Jazz Workshop Concert Stockholm

14 aprile CHARLES MINGUS The Jazz Workshop Concert Copenaghen

16 aprile CHARLES MINGUS The Jazz Workshop Concert Bremen

17 aprile CHARLES MINGUS The Jazz Workshop Concert, Salle Wagram, Paris

19 aprile CHARLES MINGUS The Jazz Workshop Concert, Theatre Des Champs-Elysses, Paris

19 aprile CHARLES MINGUS The Jazz Workshop Concert Liege

20 aprile CHARLES MINGUS The Jazz Workshop Concert Marseille

24 aprile CHARLES MINGUS The Jazz Workshop Concert Bologna

26 aprile CHARLES MINGUS The Jazz Workshop Concert Wuppertal

28 aprile CHARLES MINGUS The Jazz Workshop Concert Stuttgart

2 giugno ERIC DOLPHY Last Date (Hilversum)

11 giugno ERIC DOLPHY Last Recordings (Paris)

 


pop


 

 

 

 

 

 

 

giovedì 10 marzo 2022

Gesto, movimento, sensorialità nell'improvvisazione musicale

 


Questo scritto è solo una parte di un mio più lungo articolo pubblicato tempo fa dalla rivista Adolescenza e Psicoanalisi (numero 1 anno XVI maggio 2021 Edizioni Scientifiche Ma.Gi.). Si ricollega direttamente alle riflessioni di un mio precedente post (https://impropop.blogspot.com/2020/01/limprovvisazione-come-costruzione-di.html?m=0). 


Cosa avviene durante un’improvvisazione, come è strutturata e quali sono gli elementi fondamentali di questo processo creativo?

Per Michel Imberty, filosofo, musicologo e psicologo francese, il gesto musicale è al centro della costruzione musicale, è elemento sostanziale (Michel Imberty "Musica e Metamorfosi del Tempo" 2005, p. 99). Cosa s'intende per gesto? Un movimento del corpo che si muove nello spazio e nel tempo, energia dispiegata in una traiettoria temporale orientata, secondo la definizione di Imberty (2005, p. 90). Anzi, il gesto è composto da una serie di movimenti ed ha una motivazione, un agire determinato, momentaneo e inserito in contesti sociali e culturali. Se da un lato abbiamo la determinazione e l'intenzionalità, dall'altro c'è il carattere improvvisato, intuitivo o di reazione del movimento. Per raccordarci immediatamente all'agire improvvisativo, le nostre improvvisazioni sono frutto di gesti intenzionali, ma anche di movimenti di reazione o intuitivi rispetto ad altri gesti musicali. 

Secondo il semiologo francese Jean Molino, il gesto è presente nel cuore della musica ed è prodotto in tre diverse forme: il gesto strumentale, il gesto vocale e il gesto ritmico (in Imberty, 2005, p. 90). Questi tipi di gesti organizzano la forma musicale, la costruzione temporale. La organizzano seguendo due direttive, due ambiti generali. Il primo è quello di costruzioni realizzate a poco a poco, con un flusso continuo punteggiato di rotture, contrasti dinamici e d'intensità, varietà timbriche e sonore. Il secondo è una costruzione di tipo formalizzato in schemi determinati culturalmente e storicamente. Com'è facile intuire, il primo ambito è rapportabile sicuramente alle improvvisazioni libere, mentre il secondo a quelle idiomatiche e alle strutture compositive. Sempre per Molino, dei tre tipi di gesti quello ritmico riveste un ruolo fondamentale (in Imberty, 2005, p. 93). Rapportato all'attività motoria e sensoriale dell'essere umano, al battito vitale, il ritmo, la scansione regolare ordina il tempo e permette ai musicisti e agli ascoltatori di misurarlo e controllarlo. Anche nei momenti più caotici di un'improvvisazione la presenza di una pulsazione ritmica permette all'ascoltatore di afferrarsi all'esperienza sonora, seppur ostica e ai musicisti di avere un quadro temporale definito e stabile che àncora l'improvvisazione ad una traiettoria intenzionale. L'elemento ritmico fornisce, in generale, stabilità e strutturalità, mentre le variazioni producono instabilità. 

Nell'analizzare il gesto musicale nei bambini Imberty nota che il movimento ha la preminenza sulla struttura, l'elemento dinamico su quello sistematico, sintattico. Movimento che non è solo improvvisato, intuitivo o di reazione ma appoggio e perno del gesto intenzionale. Un gesto che ha un inizio, uno svolgimento e una fine. E che si traduce, come elemento fondamentale di ogni tipo di musica, nell'alternanza tensione/distensione (2005, p. 95). Il bambino, in altre parole, costruisce con i suoi gesti una costruzione temporale che si dà forma musicale a poco a poco, prendendo coscienza dei propri gesti e degli effetti che questi gesti producono sul materiale sonoro, organizzando passo dopo passo il tempo. L'elemento dinamico riveste un ruolo fondamentale, in rapporto alla presenza di stabilità, data spesso dalle ripetizioni ritmiche, e dell'instabilità, prodotta dalle variazioni.

Ma queste elaborazioni possono benissimo essere ricondotte all'improvvisazione libera, alla sua costruzione formale che si costruisce nel tempo, gradatamente, con forti elementi dinamici e utilizzando l'alternanza stabilità/instabilità, tensione/distensione. Che l'improvvisazione fosse stata spesso associata ai primi gesti musicali dei bambini non è certo una novità, ma in questo caso abbiamo dei precisi riferimenti analitici che dimostrano la comparazione. 

Tutto questo ha a che fare con la singolarità, nel senso di una gestualità musicale prodotta da una sola unità, in rapporto sensoriale con i suoi gesti, i suoi movimenti e l'ambiente interno ed esterno. Ma cosa succede in presenza di più unità?

La sensorialità è un mezzo usato dal cervello per ricevere informazioni dall'esterno e dall'interno del corpo. Il suo lavoro è caratterizzato dalla presenza di sensazioni e percezioni. La sensazione è una consapevolezza conscia o inconscia delle modificazioni degli ambienti interni ed esterni. La percezione è una consapevolezza cosciente che interpreta le differenti sensazioni. 

Questo doppio canale è in stretto rapporto con le funzioni cognitive, cioè con la conoscenza dell'ambiente esterno e le possibilità di metterlo in relazione al nostro interno, in una continua ricerca di relazioni e connessioni che ci portano a delineare una mappa ambientale, un quadro della realtà per potervi interagire. 

In una improvvisazione libera collettiva l'aspetto sensoriale deve essere al centro del nostro agire, del suonare. Dobbiamo rapidamente delineare una mappa della realtà per poter interagire e interpretare al meglio le continue sollecitazioni che ci vengono fornite e che a nostra volta forniamo. Per fare un parallelismo certamente arduo ma non del tutto fuori luogo, la sensazione delle modificazioni dell'ambiente è in stretto collegamento con i movimenti, la percezione interpretante è sicuramente gestuale, intenzionale. Per interagire ed improvvisare al meglio abbiamo bisogno di attivare contemporaneamente linguaggio (in questo caso musicale), memoria, attenzione, percezione, movimento, in altre parole le funzioni cognitive. 

pop

martedì 8 marzo 2022

Tatti, all'improvviso

 

 


Baffi, baffi lunghi e all’insù. Pizzetto e basette corte, capelli arruffati, leggermente lunghi. Naso aquilino e labbra fini, bocca grande. Si, era più o meno così Tatti, una sorta di D’Artagnan contemporaneo. Camminava a busto eretto, quasi rimbalzando sulle punte dei piedi, con un andamento curioso ma convincente. Di solito non salutava, se tu non lo facevi per primo. E dopo emetteva una sorta di rantolio, una specie di ciao sbiascicato quasi incomprensibile. Qualcuno, ed erano pochi, era omaggiato di un abbraccio con bacio, gesto estremamente raro per un tipo come Tatti. Ma, appunto, raramente accadeva. Poteva trattarsi di qualche sua vecchia amica, o amante, o tutte e due spesso e volentieri.

Ma non poteva dirsi antipatico Tatti, no. Magari a volte scostante, irascibile, ma di base aveva quella bontà che percepisci pur tra mille difficoltà. Ecco, diciamo che non era assolutamente falso, ambiguo: i suoi sentimenti, le sue sensazioni, i suoi pensieri te li buttava in faccia senza alcuna intermediazione, senza alcun filtro.

E certamente non potevi negare la sua abilità, il suo talento musicale. Con il suo sax era in grado di passare da sensazioni pacate, morbide, sinuose, a momenti di rara potenza, di grande energia e irruenza, per poi tornare a rilassarsi, ad ammaliare l’ascoltatore.  Era uno spettacolo vederlo e sentirlo suonare, con quel suo incedere sul palco quasi fosse un filosofo dell’antica Grecia, intento a educare e istruire i suoi discepoli. Purtroppo, quel suo incedere continuo durante i concerti creava qualche problema anche ai musicisti con i quali suonava. Dovevano sempre lasciargli molto spazio e spesso le condizioni non lo permettevano. Oltretutto l’ipotesi di suonare con un leggio era ovviamente sconsigliata. Ma Tatti era il primo a dichiararlo. Diceva: «se volete suonare insieme a me, beh, io non leggo la musica, io suono». Ed era un concetto non del tutto astruso anche se, per chi non conosceva Tatti, dava l’impressione di un suo sentirsi superiore al resto dei musicisti. E forse l’impressione non era del tutto sbagliata, ma quella sua espressione, quella sua idea di suonare senza leggere per lui era sincera, scevra da ogni idea di superiorità.

A dirla tutta c’era anche un’altra motivazione per quel suo rifiuto: effettivamente non era molto abile nel solfeggiare e gli costava enorme fatica la lettura a prima vista di un brano. Quelle poche volte che si trovava a dover leggere uno spartito iniziava a toccarsi i capelli, a sbuffare, a muoversi nervosamente. Chi lo conosceva bene evitava di riprenderlo, di dirgli che stava sbagliando, di cercare di aiutarlo. Sapeva che doveva solo aspettare, aspettare che Tatti prendesse confidenza con la parte assegnatagli, che la digerisse lentamente, che ne prendesse possesso a modo suo. Al massimo gli si poteva appena accennare la linea melodica della sua parte oppure, magari rivolgendosi a qualcun altro del gruppo, solfeggiare quella figurazione particolare che Tatti non riusciva a decifrare. Il più delle volte bisognava aspettare la prova successiva dove, dopo essersi portato a casa lo spartito, tornava sicuro e perfettamente in grado di suonare la sua parte.

 Tatti e la musica erano una cosa sola, unica, inscindibile. Era sempre disponibile, non si tirava mai indietro, e questa sua disponibilità levigava le sue asprezze, i suoi modi spesso bruschi, adirati.  Non faceva differenza se a chiamarlo erano musicisti di gran levatura, famosi e importanti, oppure gruppi o situazioni più dilettantesche, non proprio alla sua altezza. Non passava giorno che non dovesse suonare con qualcuno, che non studiasse o si preparasse per un concerto.

Tuttavia, la sua amabilità, come detto, spesso si scontrava con alcuni atteggiamenti che lo configuravano come uno scostante e presuntuoso, e per questo da evitare. Era contraddittorio, ai limiti della follia. Potevi chiedergli suggerimenti e consigli e lui magari si prodigava nel darteli, rimaneva con te fino a tardi e ti offriva birre e amari in continuazione. Il giorno dopo lo rivedevi e neanche ti salutava. Non sapevi mai quale sarebbe stato il vero Tatti. Il generoso e ciarliero musicista oppure il personaggio altero, scontroso e indisponente. Potevi trovartelo in platea a sentire il tuo concerto e ad applaudire convinto, a sostenerti a gran voce e a complimentarsi con te alla fine della serata. Oppure potevi vederlo alzarsi dopo il primo brano, muovere rumorosamente la sedia ed andarsene con fare disgustato. Ci passavi una sera tranquilla a bere e a parlare di jazz, blues, rock, di musicisti amici e di personaggi famosi. E lui riusciva a trovare parole e giudizi buoni per tutti. Sembrava essere in pace con il mondo, distante e illuminato come fosse un Buddha. Beh, il giorno dopo potevi trovarlo demoniaco, scuro e curvo in un silenzio carico di odio. E ce n’era per tutti, amici e parenti, musicisti e pubblico e locali.

Così alla fine eravamo in pochi ad apprezzarlo veramente per quello che era, e cioè un gran musicista con degli aspetti caratteriali alquanto bizzarri. E avevamo imparato a contenerlo e a rapportarci a lui a seconda dei suoi stati d’animo. Ovviamente tutto andava bene nei momenti dove c’era il Tatti solare e illuminato. Quando si presentava la sua versione scura, come un alter ego, allora si mettevano in atto una serie di accorgimenti. Il primo era quello di eclissarsi, con estrema attenzione e gradualità ci si allontanava adducendo improvvisi impegni o cattivo stato di salute, mal di testa o febbre. Il secondo era quello di stringere una specie di cordone sanitario intorno a Tatti, fatto di discorsi e discussioni che si allontanavano dall’argomento musicale cercando di interpellarlo il meno possibile, magari sperando in un suo repentino cambio d’umore, che effettivamente talvolta poteva succedere. Questa seconda opzione spesso veniva attuata quando si era in presenza di persone che conoscevano poco Tatti, e quindi si tentava di evitare bruschi litigi o cattive figure. L’ultima opzione era quella di farlo bere o fumare cercando in questo modo di obnubilarlo e renderlo inoffensivo. Ma era una soluzione che, francamente, non era di grande spessore umano e ne ricorrevamo in rarissime occasioni.

Una sera ci si era dati appuntamento nel locale dove eravamo solito vederci e suonare, ascoltare concerti o semplicemente farci due chiacchiere a fine prove. Eravamo intorno alla classica birra e, quasi di soppiatto, con quel suo incedere molleggiato, armonioso e mosso, apparve Tatti. Aveva uno strano sorriso, quasi inquietante e anomalo, come fosse fuori posto sul suo viso. Lo salutammo calorosamente perché effettivamente era un po’ di tempo che non ci si vedeva. Stava suonando con un nuovo gruppo, giovani musicisti che però promettevano bene e, soprattutto, avevano diversi contatti in giro per l’Italia e per questo erano riusciti a inanellare una lunga serie di date.  

Gli offrimmo una birra ma lui rilanciò offrendoci a tutti un amaro. Insistemmo un po’ nel rifiutare, ma alla fine accettammo. Con i bicchierini in mano, pronti a sorseggiare, Tatti ci fermò e disse che voleva brindare. Ovviamente chiedemmo per quale motivo, ricorrenza, occasione. Allora quel suo sorriso estraneo si sciolse in un viso colmo di gioia, con gli occhi luccicanti e le guance distese, rilassate.

Era stato invitato a suonare con uno degli ultimi grandi musicisti di jazz che stava per arrivare in tour in Italia, a partire proprio dalla nostra città. Un grande trombettista afroamericano che era ancora attivo e, anzi, sembrava aver trovato una seconda giovinezza, con nuovi dischi e tour mondiali. Di solito, per alcuni concerti in città importanti, invitava a suonare con il suo gruppo qualche musicista locale, non di quelli già famosi, così da instaurare anche un rapporto amichevole con le scene musicali e, aspetto non secondario, attirare ancora più pubblico.

E questa volta la scelta era caduta su Tatti. E, detto tra noi, non poteva essere altrimenti. Era lui l’unico in grado di condividere il palco con una leggenda del jazz americano, ed era solo lui che non avrebbe certo sfigurato in un live del genere.

Così, per settimane, non si parlò d’altro. Le circostanze per le quali avvenne questa chiamata furono dibattute, argomentate, ingigantite e travisate. C’è chi diceva che il trombettista già da tempo conosceva Tatti per averlo ascoltato su alcuni dischi. Chi raccontava di un furtivo incontro a Londra dove Tatti suonava in piccolo locale. Chi semplicemente diceva che alla richiesta al suo manager di segnalargli un musicista bravo e promettente questi gli avesse segnalato per l’appunto Tatti, che era amico di alcuni suoi conoscenti. Insomma, voci che si rincorrevano spesso senza alcun fondamento, il tutto alimentato dall’alone di mistero che Tatti si procurò di alimentare intorno alla vicenda.

Alle nostre insistenti domande su come fosse avvenuto il contatto, in che ambito, se avesse già parlato con lui o con il suo manager, Tatti rimaneva evasivo, spesso cambiava versione, si contraddiceva, salvo poi concludere che c’era poco da dire su questa vicenda. L’importante sarebbe stato il concerto, non le modalità organizzative. Cosa, peraltro, vera e incontestabile.

E finalmente arrivò il grande giorno. Il concerto era ovviamente previsto per la sera ma Tatti era stato convocato al locale nel primo pomeriggio per una prova e relativo soundcheck. Fino ad allora le discussioni intorno all’evento vertevano per lo più sulle modalità dell’incontro, sui pettegolezzi, sugli sviluppi futuri. Sembrava che il fattore musicale vero e proprio fosse un accessorio, una sorta di appendice, tutto sommato scontata e priva di interesse. In effetti era il solo Tatti che più volte aveva posto l’accento sulla musica che sarebbe uscita da quel concerto, sulle emozioni e sensazioni che quell’incontro avrebbe sprigionato.

Il trombettista afroamericano era un personaggio abbastanza particolare. Amava stupire di continuo i suoi ascoltatori e da quando era rientrato in scena, circa quattro anni prima, aveva prodotto una serie di dischi uno differente dall’altro. Tra scrittura elaborata e libera improvvisazione non sapevi mai cosa aspettarti dalla sua musica, anche se la qualità era alta in ogni caso. Il suo ultimo prodotto discografico era uscito da qualche mese ed era ricco di ospiti che contribuivano a spiazzare l’ascoltatore di brano in brano. Era come se avesse voluto concentrare in 50 minuti, tale era la durata del cd, tutte le sue esperienze precedenti. Si andava da un brano orchestrale a brevi momenti in solo, duo improvvisati e atmosfere hard bop con il suo quartetto.

Il giorno del concerto, finalmente, si manifestò con tutta la sua potenza e invasività la domanda che molti di noi avevano evitato fino ad allora: che musica avrebbero suonato il trombettista e Tatti? Avrebbero improvvisato liberamente, come era nei nostri propositi e come tutti, in fin dei conti immaginavano e speravano, oppure avrebbero suonato brani originali, o magari qualche standard, o arrangiamenti elaborati appositamente per quel concerto? Qualcuno di noi provò ad inviare un messaggio a Tatti per sapere come era andata la prova e il soundcheck, se era tutto ok, ma non ricevette alcuna risposta. Non restava che attendere la sera e l’inizio del concerto per soddisfare la nostra curiosità e le nostre aspettative.

E la sera arrivò, placida e leggera, con quel suo incedere ammaliante, avvolgente e allo stesso tempo dolorante, di un sapore agrodolce. C’era la fila fuori dal locale, e non si faceva in tempo a salutare un amico che immediatamente ne sbucava un altro, e poi un altro ancora. Sembrava quasi di conoscerci tutti ma, effettivamente, era una di quelle sere dove avresti potuto incontrare chiunque, anche i tuoi vicini di casa o il tuo vecchio insegnante al liceo.

Ci affrettammo a prendere posto proprio davanti al palco, e nel frattempo cercavamo con lo sguardo di intravedere la sagoma di Tatti, dietro al palco o in giro per la sala, in uscita dai camerini. Ma nulla, neanche l’ombra. C’erano tutti i suoi amici e le sue amiche, c’era tutto il suo pubblico e c’era la folla delle grandi occasioni. Ma lui sembrava essersi dissolto, svanito nei meandri della città. Provammo al bancone del bar, nelle toilette, fuori nel cortile di lato al locale. E poi iniziammo a chiamarlo al cellulare, a tempestarlo di messaggi e WhatsApp. Ma non c’era risposta. Per un attimo iniziammo a temere qualcosa di grave, una sua improvvisa defezione dovuta a malore o a qualsiasi altro problema. Una lite improvvisa con il manager, con qualcuno del gruppo, con lo stesso trombettista. Da Tatti potevi aspettarti qualsiasi cosa, effettivamente, ma sapevamo che non avrebbe mai potuto perdersi un’occasione come quella.

Finalmente, dopo lunga attesa, uscirono sul palco il trombettista con il suo gruppo, pianoforte contrabbasso e batteria. Di Tatti nessuna traccia. Ma sapevamo le modalità organizzative di quel tipo di concerto: una mezz’ora il gruppo e poi il resto del concerto con l’ospite.

La musica fu subito entusiasmante, così calda e avvolgente da penetrare all’interno delle superfici cutanee e risalire su per tutto il corpo, alimentare il battito del cuore e aprire universi velati all’interno delle menti. Era effettivamente in gran forma il trombettista, e con lui tutto il gruppo. Alternavano composizioni a lunghe suite improvvisate, assoli infuocati e placidi momenti meditativi, minimalisti. Tuttavia, nei nostri pensieri, pur completamente obnubilati dall’ondata di musica che si riversava su di noi, in un angolo nascosto ma pur sempre attivo si celava l’attesa per l’arrivo di Tatti. Non avevamo dubbi che sarebbe uscito, c’era lo spazio per un altro musicista con relativa cassa spia sul palco.

Dopo circa una quarantina di minuti il trombettista prese il microfono e, con grande enfasi, invitò sul palco Tatti. Eravamo eccitatissimi e rispondemmo all’incitazione con un grido di gioia incommensurabile e liberatorio. L’attesa, la lunga attesa era finalmente terminata e tutti avrebbero goduto del trionfo di Tatti, non avevamo dubbi.

Passarono circa trenta, quaranta secondi e Tatti non usciva. Il trombettista era rivolto verso i camerini e con lui il resto del gruppo, in un’attesa nervosa, stizzita. Noi eravamo passati dal massimo dell’eccitazione all’angoscia per qualcosa che non riuscivamo a spiegarci, a comprendere. Iniziammo a battere le mani, a chiamarlo per nome e finalmente, dopo più di un minuto di attesa lui uscì.

Non facemmo in tempo a gioire e rallegrarci per la sua entrata perché subito, contestualmente al suo apparire sul palco notammo che aveva con sé un leggio, il sax a tracolla e nell’altra mano degli spartiti.

Fu come una pugnalata sul petto, come una scossa elettrica che ci passò da capo a piedi. Solo pochi di noi sapevano del suo difficile rapporto con la musica scritta, e solo noi potevamo intuire le enormi difficoltà che Tatti aveva incontrato il pomeriggio durante le prove, e l’ansia e la tensione che si apprestava a vivere durante quel concerto. La nostra unica speranza era nella facilità della musica scritta, speranzosi di una certa comprensione da parte del trombettista americano per gli ospiti che si trovavano a dover leggere e suonare le sue parti in così poco tempo.

Tatti prese posizione alla destra del palco, proprio di fronte al contrabbassista, e molto vicino al trombettista che ovviamente, come tutto il suo gruppo, non aveva né spartiti né leggii. Posò il leggio davanti a sé, mise sopra gli spartiti, levò il copri bocchino e bagnò leggermente l’ancia. Era molto teso, ma allo stesso tempo sembrava fosse assente, lontano da quel palco, da quei musicisti, da quella folla che lo aspettava. Provammo a salutarlo, a farci vedere, ma il suo sguardo andava oltre la platea, lontano oltre le porte del locale, del parcheggio e della via, sopra i palazzi e tra le nuvole, in alto nel cielo, oltre la luna e più su ancora, immerso nella galassia.

Iniziarono a suonare. Un’improvvisazione molto probabilmente libera, ma con dei riferimenti tematici, quieta e riflessiva. Il sax di Tatti dialogava alla meraviglia con la tromba, e il piano accompagnava i due fiati con discrezione, quasi in punta di piedi. Poi partì la batteria con un tempo velocissimo, seguita subito da contrabbasso e pianoforte. A quel punto il trombettista iniziò a suonare un tema abbastanza articolato al quale Tatti rispondeva con brevi frasi. Il tema si ripeteva più volte, spostandosi d’accento e divenendo ancora più complesso. Iniziammo a vedere Tatti un po’ difficoltà, curvo sul leggio, come se tentasse di pararsi dai fendenti di un pugile. E le frasi iniziarono a farsi smozzicate, incerte, deboli, fuori tempo fino a che Tatti smise di suonare e alzò lo sguardo oltre la terra, laggiù nel cosmo dove solo lui poteva esserci.

Il trombettista lo guardò di soppiatto ma continuò a suonare e con lui il resto del gruppo. Tatti rimase immobile senza suonare per quasi cinque minuti che a noi sembrarono ore, giorni, mesi. Era là con il suo sax e fisso osservava un punto lontano nell’infinito, senza luce nei suoi occhi, totalmente impermeabile a ciò che gli accadeva intorno. Il brano finì e ci fu un applauso timido, quasi preoccupato. Tutti avevano compreso la difficile situazione che si era creata sul palco, ma altresì tutti erano speranzosi per il prosieguo del concerto.

Il trombettista fece cenno a Tatti di iniziare. Spostò il primo spartito, ne prese uno dietro e lo mise davanti a sé. Lo osservò sempre con quel suo sguardo assente, liquido, debole. Iniziò a suonare da solo ma immediatamente il trombettista lo fermò. «Again», disse con una voce metallica. Tatti ricominciò ma lui lo fermò di nuovo. «Sorry», disse rivolto al pubblico. «Once again, please». E Tatti allora lo guardò con un fare interrogativo, quasi a dire perché, cosa vuoi. Tatti spostò leggermente lo spartito e lo mise più al centro del leggio. Lo guardò attentamente e riprese a suonare. Ma per l’ennesima volta il trombettista lo fermò e si avvicinò a lui. Tatti si spostò leggermente e il trombettista iniziò a suonare lo spartito di Tatti. Finito di suonare guardò Tatti con occhi accesi e un sorriso di compassione, invitandolo a suonare correttamente, come lui aveva fatto, ciò che era scritto sulla parte.

Eravamo increduli e allo stesso tempo oppressi da una sofferenza indicibile, un’angoscia che trafiggeva i nostri cuori, lacrime represse che irroravano tutto il nostro corpo. Avremmo voluto andarcene via, oppure che il concerto terminasse immediatamente, o che Tatti iniziasse ad improvvisare coinvolgendo il trombettista ed il suo gruppo per poi concludere un concerto di quelli che si ricordano per tutta la vita.

Ma la realtà, scura e tetra, continuò a colpirci con furore e spietatezza. Il trombettista era là, con la sua tromba in mano in attesa che Tatti suonasse, che Tatti facesse il suo ennesimo tentativo pronto a correggerlo nuovamente, di questo eravamo certi. E Tatti prese di nuovo il sax e avvicinò il bocchino alle labbra. C’era del sudore sulla fronte e gli occhi erano lucidi. Poi, ad un tratto, notai una leggera increspatura sulla sua bocca, quel suo strano sorriso che talvolta inquietava. I suoi occhi presero luce, si illuminarono intensamente, spargendo di fronte a sé dardi velenosi. E nel momento stesso in cui compresi ciò che stava per accadere, senza neanche avere il tempo di allarmarmi o di urlare qualcosa, Tatti prese il sax con tutte e due le mani e colpì con forza il viso del trombettista, che cadde tramortito sul palco. Ci fu un silenzio innaturale, e Tatti era già sul corpo del musicista e continuava a colpirlo con i pugni sul volto. A quel punto gli altri del gruppo si lanciarono su di lui, seguiti immediatamente da altre persone dell’organizzazione. E anche noi salimmo sul palco cercando di difendere Tatti. Fu una rissa clamorosa, con pugni che volavano da tutte le parti e il sax di Tatti che colpiva a ripetizione chiunque provasse ad aggredirlo. Si sentì il suono delle sirene e l’avvicinarsi di macchine, le urla del pubblico e dei contendenti, il fumo e la polvere, la batteria che rotolava sul palco e il legno del contrabbasso orrendamente squarciato. Nel caos generale riuscii ad intravedere Tatti con il suo sax fuggire via da una porta laterale mentre al mio fianco, sdraiato e immobile, il trombettista con il volto coperto di sangue.

Di Tatti si persero completamente le tracce. Non lo vedemmo più e le rarissime notizie che circolavano ogni tanto su di lui lo davano a Berlino o addirittura in Islanda. Qualcuno sosteneva che aveva abbandonato la musica ed era diventato un insegnante di yoga, qualcun’ altro aveva sentito di un suo concerto in solo a Edimburgo. Il trombettista dovette interrompere la sua attività per molti mesi ma alla fine tornò a suonare e ad incidere dischi.

A noi rimase il ricordo dei suoni del suo sax e per molti anni a venire la possibilità di raccontare una storia, una di quelle incredibili, assurde, straordinarie. «C’era molta tensione sul palco, e allora Tatti, all’improvviso…».


pop

 

 

 

 



mercoledì 9 giugno 2021

La moltitudine dei Clash

 

Qualche mese fa (dicembre 2020) è stato possibile vedere in streaming, gratuitamente e solo per 4 giorni, il documentario di Rubika Shah White Riot, vincitore al London Film Festival 2020, a Krakow 2020 e alla Berlinale 2019 come miglior documentario. Si narrano le vicende che portarono alla nascita del movimento Rock Against  Racism in Gran Bretagna culminato con il mega concerto a Londra nel 1978 davanti a più di 100.000 persone.  E il 12 dicembre è caduto l’anniversario dei quarant’anni dall’uscita del triplo album Sandinista dei Clash, tra i maggiori esponenti e artefici del successo di quel movimento.



Che il regista di White Riot abbia fatto riferimento ad un brano dei Clash (il loro primo 45 giri!) non ci deve meravigliare perché il gruppo è un po’ il simbolo di quella sottocultura, il punk, che fu coinvolta in quegli anni nella mobilitazione contro il gruppo neofascista inglese National Front. Nel contrastare la violenta campagna d’odio portata avanti dall’organizzazione di estrema destra, i ragazzi e le ragazze soprattutto provenienti dall’area di immigrazione caraibica, e giamaicana in particolare, con la cultura e la musica reggae come punto di riferimento, incontrarono il punk, quel movimento anarchico, provocatorio e fatto in gran parte da bianchi, che tanto aveva scandalizzato la società inglese ma che certo non si era proposto con fini politici. Insomma, quell’incontro tra due sottoculture non era per niente scontato, tantomeno su un terreno di mobilitazione politica, quale fu a tutti gli effetti Rock Against Racism. 

Ma i Clash non sono stati soltanto un simbolo di quel movimento, o del punk in generale. Partiti da quel suono rudimentale, istintivo, grezzo eppur già contaminato da altri suoni e altre culture, Strummer, Jones, Simonon e Headon hanno incarnato per almeno un decennio l’idea e l’icona del gruppo rock per eccellenza. È stata la band che nessuno poteva ignorare, alla quale tutti in qualche modo si rapportavano, da ascoltatori e da musicisti, un ensemble che racchiudeva in sé l’intraprendenza artistica e la valenza sociale e politica. Non potevi non amare i Clash, non potevi non sorprenderti di fronte alla loro inesauribile vena artistica, al loro rapido percorso verso una maturità sonora inimmaginabile ai loro esordi.




Si può dire che il punk abbia portato a felice conclusione le sue istanze di ribellione proprio grazie ai Clash, anche se non va dimenticato il contributo di John Lydon e dei suoi PIL. Ma Strummer e co erano certamente un’altra cosa. Nessuno poteva immaginare che dopo un capolavoro come London Calling, sarebbero riusciti ancora a stupirci, meravigliarci, con un triplo lp come Sandinista. Se London Calling aveva rappresentato la compiutezza dello sporco rock da strada, confluito in un suono ribelle e sfaccettato, che avrebbe rinnovato alla base l’estetica rock, Sandinista dipinge una multiforme partitura, un trionfo di colori in un mondo di suoni. London Calling ambisce ad essere un manuale del rock, un’opera compatta, finita, a sugellare il trionfo del punk e allo stesso tempo la sua dissoluzione in un suono sì grezzo ma anche raffinato, elegante, fiero delle sue molteplici influenze, tutte ricondotte ad un’unicità che è quella dei Clash, il gruppo che rimette il rock al posto giusto, lo ri/vitalizza e lo modernizza, mostrandone le radici e il futuro. Sandinista, invece, è qualcosa di indecifrabile, la moltitudine che assale il fortino delle certezze. Stracolmo di idee, di riferimenti, di suoni e di linee di basso, di melodie indimenticabili e di bizzarri esperimenti, Sandinista porta le ricche culture di origine africana al trionfo vero e proprio, all’esplosione creativa.  È come leggere un libro pieno di avventure e colpi di scena, senza mai un attimo di sosta, senza indulgere sulle raggiunte capacità artistiche ma mettendosi di nuovo in gioco, sperimentando per l’appunto. Riascoltarlo oggi viene quasi la rabbia perché non ci sia un gruppo, ora, in grado di fare almeno in parte quello che hanno fatto i Clash con Sandinista. Il coraggio e la volontà di comunicare al mondo il mondo stesso, la ricchezza e la varietà delle musiche che hanno sempre la stessa provenienza, lo stesso retaggio culturale, sempre lo stesso infinito patrimonio, che è quello afroamericano e africano in particolare. Sandinista ricorda a tutti e tutte che la nostra musica viene da lì, non se ne esce. E i Clash riescono nell’impresa di onorarla e allo stesso tempo arricchirla, di modificarne certe istanze e di rafforzarle, di esaltare il/i ritmo/ritmi, di riscaldare i corpi con i bassi e di accendere le menti con le parole, con i testi. Perché va oltremodo sottolineato anche l’alto valore poetico e di critica sociale e politica dei testi del gruppo, qui per la prima volta autore collettivo, anche se ovviamente Strummer ne aveva la prerogativa. Se Washington Bullets è l’accusa all’imperialismo statunitense (con uno sguardo anche all’URSS e alla Cina), Something About England attraversa la storia inglese con l’occhio dei perdenti, Lose This Skin tocca le tematiche transgender in anticipo sui tempi e l’antimilitarista Call Up affianca la ribelle Rebel Waltz.




Ma tutto il lavoro trasuda impegno e passione, in un tempo che già mostrava le profonde crepe dell’utopia socialista compromessa dalle derive staliniane dell’URSS e dall’avvento dell’ideologia liberista con il trionfo della Thatcher. In un quadro del genere i Clash seppero mostrarci la speranza di un altro mondo, una moltitudine colma di suoni e di gioia, strettamente ancorata alle nostre radici africane e afroamericane, come a volerne sugellare il trionfo. Tutto sommato, per il valore di Sandinista, poco spazio è stato dato al quarantennale di un’opera fondamentale della popular music. La speranza, ora, è di riuscire a vedere, nelle nostre sale, White Riot, questo splendido documentario che affronta tematiche ancora attualissime e che suggerisce percorsi di lotta e di organizzazione da non sottovalutare, pur in contesti differenti sia a livello temporale che sociale e politico. Certo, non avremo più al nostro fianco una musica così ricca e ribelle come quella che seppero donarci i Clash. Peccato.


pop

lunedì 8 marzo 2021

Rivoluzioni!

A novembre del 2008 Vladimir Luxuria, ex parlamentare di Rifondazione Comunista e simbolo transgender, vinceva L'isola dei famosi, noto programma Fininvest ed emblema dei reality show. Il quotidiano del partito, Liberazione, allora diretto da Piero Sansonetti, paragonava questa vittoria all'elezione a presidente degli Stati Uniti di Obama, mettendo la foto di Luxuria in prima pagina e dando una lettura dell'evento di assoluta rottura, di fenomeno "rivoluzionario" per la società italiana. Sarebbe ingrato ora chiederne riscontri, sia per quanto riguarda il percorso di Vladimir Luxuria (non mi sembra faccia più politica ma saltabella da una trasmissione all'altra in qualità di opinionista di costume) che per quanto riguarda il quotidiano Liberazione o il Partito della Rifondazione Comunista, definitivamente chiuso il primo e certo non in buone acque il secondo. Ma sarebbe ancora più imbarazzante chiedere riscontri di quella fantomatica rivoluzione del costume in un paese come il nostro oggi, dove i due partiti dalle ideologie reazionarie, omofobe e sessiste raggiungono oltre il 40%, o dove continuano con straziante continuità i femminicidi. E così, di quell'evento tutto mediatico, prodotto televisivo di mercato, rimane ben poca traccia, assorbito dal consumo e infantilmente paragonato ad eventi di ben altra natura. 



"Con i Maneskin (e non solo) a Sanremo 2021 ha vinto la rivoluzione. Questa edizione ha avuto il suono di una generazione nuova e ha segnato uno strappo fortissimo con il passato. Artisti che sfuggono alla grande industria, crescono nei nuovi media, e segnano una profonda distanza dalle generazioni precedenti". Questo uno dei titoli di Repubblica online, a firma del ben noto critico musicale Ernesto Assante, che nel suo facebook commenta ulteriormente e rincara la dose.

Confesso di non aver visto nulla di Sanremo 2021, come molte altre volte, ma poi, incuriosito dai commenti, sono andato a vedere i video di qualche brano, in particolare dei vincitori ovviamente. Dunque, il problema non è Sanremo nè i Maneskin o il resto dei cantanti. Il festival della canzone italiana è un prodotto commerciale, lo è sempre stato, e più che alla creazione artistica è interessato al mercato, alla vendita di spazi pubblicitari e all'audience. Tuttalpiù, come ogni prodotto commerciale, può registrare, inconsapevolmente o meno, dei cambiamenti in atto all'interno della società, delle modificazioni dei gusti o dei comportamenti. E Sanremo, con notevole ritardo rispetto a ciò che si muoveva nel paese dal punto di vista artistico/musicale, lo ha sempre fatto. D'altronde è un prodotto, e come tale deve essere venduto e per venderlo al meglio deve cercare di interpretare i gusti da una parte e dall'altra anche indirizzarli. Non a caso in queste ultime edizioni c'è sempre stato il trionfo di interpreti che venivano dai talent, certificando, anche qui con ritardo, il successo di questi format. Saranno rivoluzionari anch'essi?

Ma andiamo avanti. Che si tratti di rivoluzione per quel che concerne Sanremo 2021 Assante lo attribuisce a tutta una serie di fattori, tra i quali la vittoria di un gruppo di giovani che fa rock, la presenza di artisti poco conosciuti e fuori dalla grande industria (?), l'esecuzione di cover particolari come brani di CCCP/CSI o Guccini, e in definitiva l'esulare dal gusto medio, il rifuggire dagli ascolti tipici del nostro "fornaio, tassista, medico di base".

Per un gruppo che ha partecipato a X Factor essere definiti poco conosciuti e fuori dal mercato può benissimo considerarsi un successo, molto più della vittoria a Sanremo. E credo che Assante, in fatto di gusti sia rimasto un po'  indietro, se pensa che il nostro tassista o il fornaio oppure il medico di base non conoscano i Maneskin. Va detto, comunque, che l'ascoltatore medio spesso non conosce, o non conosce bene, i vincitori del festival, che sappiamo essere frutto di manovre particolari e non certo sinonimo di qualità. Ma vorrei dire che anche il fatto di essere giovani non rappresenta in sè l'essere rivoluzionari. Il Volo, quella sorta di brutta copia di Andrea Bocelli, è formato da tre giovanissimi e non penso gli si possa dare quell'appellativo. Per quanto riguarda il rock: credo che proprio questa vittoria ne certifichi la crisi profonda. Ormai è come musica leggera (anzi, leggerissima!) e il brano dei Maneskin può certamente essere definito rock, ma solo superficialmente, ne è come colorato, ne porta lontanamente il sapore. A parte il fatto di essere banale, sia nei suoni che nel testo, nell'interpretazione e nella forma, questo "rock" ha perso totalmente le caratteristiche di espressione giovanile di protesta, di canale espressivo artistico che sperimenta, che osa, per trasformarsi in cover di se stesso, in riproduzione scadente dell'originale totalmente slegato dalle dinamiche sociali se non come prodotto commerciale. 

Ma, come dicevo prima, il problema non è certamente il Festival o i suoi partecipanti. Fanno il loro mestiere, più o meno bene. Sono prodotti televisivi che hanno un determinato target, devono rispettare alcune formule, producono senso comune. E, con buona pace di Assante, non penso che questa vittoria dei Maneskin porterà, in futuro, un innalzamento del livello medio artistico/musicale del nostro paese. Il problema è proprio questo: a fronte di un format che privilegia il prodotto di mercato, di facile consumo, c'è poco o nulla che si muova al di fuori di esso. Sanremo c'era anche negli anni Sessanta e Settanta, ma c'era anche molto altro. Io non accuso Sanremo di essere Sanremo, ma accuso coloro che hanno responsabilità intellettuali (sempre meno va detto) di veicolare messaggi falsi in ciò contribuendo pesantemente all'isterilimento artistico. Parlare di rivoluzione a Sanremo significa far credere che quel brano, quelle canzoni, quei presentatori siano altro da ciò che sono, e cioè canzonette, qualcuna buona qualcun'altra meno, e stantii personaggi da avanspettacolo. Dare dignità di messaggio rivoluzionario a un banale "rock" significa ingabbiare all'altare del mercato e della mediocrità le spinte creative che ogni giovane generazione deve avere, significa indirizzare le idee verso un modello che nulla ha di rivoluzionario, nè dal punto di vista artistico nè dal punto di vista del costume. Se pensiamo che sia sufficiente urlare una brano dei CCCP vestiti in modo stravagante per fare una performance "eversiva", allora non avremo più nulla di certamente eversivo, ma solo banali riproposizioni e caricature. Il problema non è Sanremo. Il problema è il realismo sanremese, o il realismo dei talent, l'idea che tutto debba passare da quel contesto che non è neutro ma è materialmente responsabile di un certo tipo di elaborazione artistica, quella che funziona, quella che vende. E che certo non può essere rivoluzionaria. 


pop

Recensioni. Kevin Ayers and The Whole World "Shooting at the Moon"

  Kevin Ayers And The Whole World SHOOTING AT THE MOON Harvest 1970 Il secondo album solista di Kevin Ayers vede al suo fianco, al co...