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mercoledì 18 settembre 2019

Ancora su scrittura e improvvisazione

Tornando ai collegamenti tra scrittura e musica vorrei soffermarmi ancora sull'argomento "indispensabile". Parlando di Bailey e Coe e del loro disco Time, ho fatto riferimento a delle frasi di Raymond Carver (Tempo. O dell'indispensabile!) perché la musica di quel duo sembra contenere quell'essenzialità, quella capacità di arrivare dritti al punto propria dello scrittore americano. Nulla è superfluo, ogni nota e ogni parola servono per costruire il racconto, musicale o letterario che sia.
Ma è l'unica modalità questa? Cioè siamo obbligati, al fine di raggiungere l'obiettivo, ad essere essenziali, avari di effetti? Di limitare la nostra azione all'indispensabile, di dosare con cura gli elementi a nostra disposizione per costruire una narrazione perfetta?


Prendiamo Philip Roth. Al di là del fatto che Carver scriva racconti e quindi, probabilmente, il format costringa l'autore alla stringatezza, la scrittura di Roth è per certi versi agli antipodi. 
In Pastorale Americana, in uno dei momenti più intensi del libro, lo scrittore di Newark riesce a prendere tempo descrivendo con cura il plastico in miniatura della nuova casa dello Svedese e di sua moglie, come se volesse ritardare volutamente il culmine, lo zenit della narrazione, posticipando la risoluzione in un continuo alternarsi di sottodominanti e dominanti che non risolvono, per usare un linguaggio musicale. 
In realtà Roth sembra utilizzare il fiume di eventi, descrizioni, deviazioni, per immergerci nel racconto, in un mondo che è proprio costruito attraverso un alto numero di percorsi, quasi a farci perdere la ragione. Immissione di una quantità di elementi che elaborano, chi in maniera decisiva chi secondariamente, la narrazione come fosse una sorta di uragano che ci prende e ci trasporta altrove. 
Ovviamente il trovarsi di fronte un romanzo o un racconto, ripeto, incide alquanto nella costruzione del linguaggio. Ma non è solo questo. E' proprio un approccio differente che prescinde dal formato. Questa modalità ha, come ulteriore caratteristica, quella di portare il lettore, o l'ascoltatore, in un continuo saliscendi di emozioni, come se non ci fosse un obiettivo finale ma un continuo, per l'appunto, alternarsi di tensioni senza soluzione di continuità. Laddove invece l'approccio "essenzialista" punta a crescendi con inaspettate risoluzioni, lasciando da parte gli orpelli e le divagazioni per puntare dritto al finale, alla catarsi.
Come tradurre tutto ciò in musica? Come riuscire a improvvisare costruendo una narrazione fatta di continui rimandi, divagazioni, tensioni e mancate risoluzioni?
In realtà sembra molto più facile questo approccio che l'altro. Siamo, di solito, portati a suonare molto, e ci riesce complicato fermarci, ascoltare gli altri, stringere all'essenziale. Ma la quantità di note non è automaticamente sinonimo di ampia costruzione, di racconto elaborato e ricco di percorsi. Anzi. Spesso produciamo solo confusione o indeterminatezza.
Un musicista che sembra essere una sorta di alter ego dello scrittore Philip Roth, almeno per quanto mi riguarda, è Lee Konitz.


L'accostamento può risultare ardito a prima vista, ma tutto sommato non penso sia così lontano dalla realtà. Non voglio solo fare riferimento alla comune origine ebraica, alla capacità e alle risorse che questa cultura possiede in fatto di narrazione e racconto. Nel caso dello scrittore americano questo retaggio è ben presente nelle sue opere, mentre Konitz non ha mai dato troppo peso a questa dimensione culturale (Andy Hamilton, Lee Konitz. Conversazioni sull'arte dell'improvvisatore, EDT, Torino, 2010). Eppure i due possiedono realmente quell'arte di raccontare le storie che rimanda alla millenaria cultura ebraica. Nel loro specifico campo costruiscono personaggi che intrecciano le loro vicende in un fluire narrativo avvincente. E mentre per Roth tutto ciò sembra in parte scontato, essendo uno scrittore, questo vale anche per Konitz. In Motion, uno dei suoi capolavori,  pubblicato dalla Verve nel 1961 e registrato con Elvin Jones alla batteria e Sonny Dallas al contrabbasso, il sassofonista delinea storie che contengono al proprio interno diverse trame, protagonisti e controsoggetti  che trasportano l'ascoltatore nel racconto. Lo fa con una musicalità descrittiva, senza il furore e la drammaticità dei musicisti afroamericani, ma nondimeno narra, crea short stories intricate, fitte di eventi e personaggi che fluiscono dentro le improvvisazioni.  Possiamo sederci all'ascolto di Motion come se stessimo leggendo un libro, pronti ad essere trascinati in avventure raccontate con passione e maestria, attraversati, talvolta, da un profondo senso di dolore subito stemperato dall'estro e dall'ironia. Trame millenarie che viaggiano nel tempo.

pop

venerdì 26 luglio 2019

Captain Capricorn

Lunga assenza di post dovuta alla scrittura di un corposo articolo su Radio Gnome Invisible, la trilogia dei Gong. Uscirà, spero, a settembre. Ma l'ascolto prolungato e le ricerche intraprese per l'elaborazione di questo scritto mi hanno portato ad alcune considerazioni.


Primo. Daevid Allen si conferma, forse suo malgrado, come la constatazione che spesso e volentieri la tecnica, se non accompagnata dalla creatività e dall'intelligenza, serve a molto poco in musica...e non solo. Tutta la carriera dell'australiano è connotata da una grande voglia di comunicazione, sensoriale ed extrasensoriale, una inesauribile forza creativa che trascende la tecnica musicale e riesce ad esprimere contenuti alti e altri al di là delle mere competenze tecniche. Certo, ha bisogno di avere intorno a se abili musicisti, ma cos'è la musica se non condivisione di idee e sentimenti, un'arte che quasi necessariamente si esprime in modo collettivo, presupponendo la presenza di sodali che partecipano alla creazione. E' solo dopo aver percorso questo processo che talvolta, non spesso, spunta fuori l'esigenza della creazione in solitudine.


Secondo. L'esperienza Gong, soprattutto nella trilogia, è qualcosa di particolare, unico per certi versi. Continui cambi di formazione, assenze del leader, conduzione collettiva e temporanee direzioni singole, tutto questo ha prodotto del materiale musicale di elevata qualità. Un mix di rock, jazz, musica etnica, psichedelia, sperimentalismo, Kosmische Musik, Terry Riley, tutto frullato insieme e offerto in una dimensione anche spirituale e fantastica, non solo come mero prodotto musicale.


Terzo. Uno dei rari esempi di non attaccamento alla fama, alla ricchezza, allo star system. Come per i Soft Machine, siamo in presenza di percorsi musicali che continuano con la stessa sigla ma senza i loro fondatori e leader. Anzi, essi stessi lasciano volentieri in altre mani ciò che loro hanno costruito nel corso degli anni. Come a dire basta, sono stanco ed è giusto che continuiate voi, se ne avete la forza e se le nostre idee non concordano più.
Quarto. Le avventure musicali di Allen andrebbero studiate in modo approfondito perché ancora ricche di spunti e di ispirazioni che farebbero la fortuna di molti musicisti. L'assenza di barriere stilistiche, un discorso complessivo riguardo i contenuti musicali e testuali che vanno da scenari fantasy a elementi ironici e nonsense, a riflessioni più profonde, spirituali e filosofiche. 
Quinto. Molto di quanto scritto ricorda le esperienze e la musica di un altro capitano, anch'esso "strano" e bizzarro, forse leggermente più ossessivo e inquieto di Daevid Allen: Captain Beefheart. E prossimamente vedremo di ragionarci sopra.


Daevid Allen, Melbourne 13 gennaio 1938 - Byron Bay 13 marzo 2015
Captain Beefheart (Don Van Vliet), Glendale 15 gennaio 1941 - Arcata 17 dicembra 2010


pop

lunedì 13 maggio 2019

Fusion/Thesis. L'arte del trio 2

FUSION/THESIS

Il personaggio è abbastanza particolare, tanto da meritare certamente più attenzione di quanta gliene sia stata data dalla storiografia jazzistica. Nato nel 1921 in Texas, a metà dagli anni ’50 Jimmy Giuffre è un tipico esponente della scena west coast, conosciuto non solo come sassofonista e clarinettista ma anche come ottimo arrangiatore e compositore; è lui infatti che scrive ed arrangia uno dei maggiori successi dell’orchestra di Woody Herman, Four Brothers, del 1947. Ma, contrariamente ad alcuni suoi colleghi come Gerry Mulligan, Stan Getz o Dave Brubeck, si allontana pian piano dai riflettori, dal successo commerciale preferendo sperimentare nuove soluzioni e sonorità. 


Ispirato dalla Sonata per flauto, viola e arpa di Debussy e con l’idea di sviluppare così ulteriormente il suo approccio contrappuntistico Jimmy Giuffre forma un trio drumless con Jim Hall alla chitarra e Ralph Pena al contrabbasso (più tardi al posto di Pena subentrerà Bob Brookmeyer al trombone a pistoni!). A questo aggiunge un lento abbandono del sax per suonare quasi esclusivamente il clarinetto, scelta decisamente controcorrente. 

Le sonorità del nuovo progetto di Giuffre sembrano condividere i parametri dell’estetica cool ma in realtà c’è qualcosa che lascia intravedere gli sviluppi futuri. Innanzitutto la scelta di non avere batteria: lo swing non sembra affatto risentirne ma è sempre presente sottotraccia, permettendo una maggiore libertà nelle improvvisazioni e lasciando emergere un forte interplay tra i tre musicisti che iniziano ad eludere i confini tra tema e improvvisazione. Il “blues-based folk jazz” di Jimmy Giuffre è alla ricerca di un’intensità e di un feeling che solo le atmosfere morbide e le sonorità contenute possono far emergere, lontano dalle grida e dal volume alto della maggior parte dei gruppi jazz dell’epoca. 

Nel 1957 si sposta a New York, e qui nuovi stimoli portano Giuffre lontano dai suoni west coast e vicini alla nuova scena free che sta emergendo sul finire dei ’50 inizi ’60 proprio nella Grande Mela. Il trio rimane la formazione ideale per Giuffre, ma cambiano questa volta i musicisti; Paul Bley al piano e Steve Swallow al contrabbasso. Nel 1961, a marzo e ad agosto, il nuovo trio registra due album per la Verve (poi ristampati in un doppio cd dalla ECM nel 1992): Fusion e Thesis.




La Fusione di Jimmy Giuffre è un materiale sonoro liquido ma non informe, composito ma fluido, ricco di stimoli e di suggestioni. Le dissonanze sono immediatamente stemperate da continue consonanze, il semplice sembra tramutarsi in complicato e viceversa. C’è una libera ricerca di nuove forme e le tonalità vengono in parte abbandonate per poi essere riprese. Questo disco sembra essere un’alternativa alla bollente energia dell’hard bop così come alle rivolte musicali e socio-culturali del free. Ma non lo è perché non si contrappone ad essi bensì ne rielabora alcune tematiche e ne sussurra nuovi aspetti. È fondamentale, come in passato, l’interplay fra i tre musicisti; piano e contrabbasso sembrano fondersi con quel suono così delicato eppur anomalo, sfuggente, alieno in certi casi, del clarinetto. Coraggiosa e vincente è la scelta stilistica di Giuffre; rinunciare in pieno alla tradizione virtuosistica dello strumento per costruire un proprio linguaggio innovativo che faccia respirare e parlare il clarinetto insieme agli altri strumenti, che lo faccia vibrare sommessamente senza dover per forza urlare. In Fusion c’è un dialogo pacato tra i musicisti che porta il trio ad improvvisare in una continua ricerca tematica, portando alla luce il blues del Texas come la Third Stream, il free come il Modern Jazz Quartet. Il volume basso, il suono soffice, il soffio permettono all’ascoltatore di percepire continuamente nuove suggestioni, richiami, visioni. 

Thesis, registrato qualche mese dopo, è diverso. Ma è una diversità insita in Fusion, non se ne percepisce al primo ascolto il carattere programmatico. Dove Fusion era materiale liquido Thesis sembra offrire rivoli solidi, spunti programmatici solitari inseriti in discorso complesso, vicino alla musica “colta”. Dove in Fusion c’era suono comune qui spesso gli strumenti appaiono isolati tra loro, intenti a elaborare i loro assunti, forti della precedente compattezza, della loro raggiunta fusione. Lo stesso clarinetto di Giuffre suona leggermente più alto, su registri acuti. Le composizioni sono più angolose, aggressive, libere da tonalità. Dopo essere riusciti a fondere i loro suoni, i tre musicisti manifestano la volontà di enunciare le loro idee uscendo dal materiale fuso e spargendo note e suoni nell’aria. Il tutto sempre in maniera sommessa, quasi a non voler disturbare troppo, come se fossero di lato rispetto al fluire degli eventi. 



Sarebbe finita qui se uno non considerasse il terzo capitolo della saga, Free Fall. Sempre lo stesso trio, qualche mese dopo Thesis e un tour in Europa. E può benissimo dirsi l’esplosione di un gruppo, di un’idea; lo scioglimento dei suoni nella libera improvvisazione quale naturale approdo dell’intero percorso artistico di Giuffre. Una sonorità ostica e sfrangiata, un oltrepassare i limiti e lanciarsi nel precipizio dell’ignoto. Il trio che ha fuso le sue molteplici influenze e ha teorizzato nuovi assunti, con Free Fall mostra la dissoluzione del tutto, una libertà angosciante, che sa di fine della storia. 

“Ci disperdemmo una notte in cui guadagnammo 35 centesimi ognuno”. Steve Swallow  

 




pop

lunedì 29 aprile 2019

Musica 80

Tra le tante riviste musicali uscite negli ultimi 40 anni ce n'è una che è realmente passata sotto silenzio, subendo l'onta della scomparsa dai ricordi degli appassionati. 



Musica 80, questo è il nome del mensile che durò poco più di un anno, dal febbraio 1980 all'aprile dell'81. Un'intervista a John Lydon, un servizio di 8 pagine sull'Improvisers Symposium tenutosi a Pisa con interventi di  Derek Bailey, Paul Lovens e Barry Guy tra gli altri, i testi tradotti in italiano del primo disco degli X di Los Angeles, un articolo sui Throbbing Gristle con intervista a Genesis P. Orridge... questi erano i contenuti di uno dei primi numeri della rivista. Letti oggi sembrano fantascienza, o un sogno destinato ad esaurirsi velocemente. Eppure questa rivista è uscita nelle edicole, anche se non per molto.


Non voglio fare il retromane, oppure rimpiangere i bei tempi passati ma riflettere brevemente sul significato di tale esperienza, vissuta peraltro da semplice lettore. 
E' chiaro che i tempi sono radicalmente cambiati e con internet il ruolo della stampa è mutato, ma ritengo abbia ancora un'importanza vitale per l'informazione e, soprattutto, la controinformazione. Devo dire che sfogliando in questi giorni Musica 80 mi sembra risenta poco del tempo passato, anzi penso che tuttora potrebbe essere benissimo in grado di lasciarsi leggere con curiosità e interesse. Perché?
Alcune questioni mi sembrano fondamentali: l'approfondimento, la riflessione, la lettura di vicende da punti di visti inusuali e/o alternativi, l'interrogazione di avvenimenti sotto diverse chiavi di lettura. Sono elementi che hanno una validità ancor più pronunciata in questi tempi, dove la capacità di attenzione è nettamente diminuita. E, a differenza delle tante fonti che ci balzano agli occhi durante le nostre ricerche, possiedono un filtro e una autorevolezza che è data dalla rivista stessa, dai suoi redattori e collaboratori. 
L'altro aspetto importante è la ricerca a tutto campo, l'investigazione che non conosce barriere e stili, scene o generi prestabiliti. Un indagine che rimescola e produce informazione profonda, a volte anche scanzonata, che non vive sulle scelte stilistiche ovvie e scontate ma approfondisce e scava dentro e fuori le etichette. 
La rivista riuscì a cogliere gli stimoli nuovi che provenivano dal post punk e dalla new wave e a coniugarli con le aree sperimentali e di ricerca, con la scena impro e persino con le storie classiche del rock. Il tutto senza pregiudizi e cercando di stimolare la curiosità del lettore, di indurlo a sperimentare egli stesso un ascolto differente.
Al di là di qualche ingenuità o di articoli non sempre così ben calibrati, Musica 80 aveva anche quell'attenzione all'aspetto grafico che di lì a poco sarebbe diventato così importante, spesso a scapito dei contenuti.  
Ma alla fine durò poco, e bisognerebbe interrogarci anche sul perché questo esperimento ebbe vita breve. Una motivazione può essere proprio la scaltrezza e la difficoltà ad essere inserita in un genere preciso. Non propriamente e solamente rock, né jazz, né folk, né punk.
Insomma, quello che pensiamo sia un punto di forza probabilmente è la principale ragione della sua fine, soprattutto in presenza di un mercato che vuole certezze e scelte di campo. Una platea che corre al riparo di confini estetici ed è spaventata dalle sfumature o dai rumori di fondo, dalle eresie e dalle devianze. 
Anche l'eccessivo intellettualismo, soprattutto in un periodo come quello degli inizi 80, può aver determinato in maniera significativa la fine precoce della rivista. 
In ogni caso non sarebbe male condurre una ricerca sulla storia delle riviste musicali in Italia, provando a tratteggiare attraverso di esse le vicende, gli usi e costumi dei giovani nella storia italiana dal dopoguerra ad oggi. Soprattutto perché alcuni elementi che hanno determinato la crisi e la fine di alcune prestigiose riviste, tra le quali appunto Musica 80, sembrano comunque persistere e anzi accentuarsi sempre più.
Ma probabilmente già è stata fatta....o no?


pop

martedì 23 aprile 2019

L’arte del trio

Ci sono alcuni elementi significativi che accomunano le uscite discografiche del trio di Andrew Cyrille, con Wadada Leo Smith alla tromba e Bill Frisell alla chitarra,  e quello di David Torn,  con Tim Berne al sax e Ches Smith alla batteria e all'elettronica. Non è solo la formazione, due trii con batteria, chitarra elettrica e strumento fiato, né la stessa etichetta discografica, la ECM, che in ogni caso determina un certo tipo di suono. No, è qualcosa di più profondo, intenso e allo stesso tempo luminoso, che Lebroba e Sun Of Goldfinger condividono.


Le due formazioni, pur avendo delle importanti differenze stilistiche, elaborano un procedimento compositivo esteso, largo, quasi fossimo in presenza di composizioni classiche, con un intento non lontano dalla sinfonia, soprattutto per quanto riguarda il trio di David Torn. Ma è nella capacità di evocare suggestioni paesaggistiche, nel delineare ambienti sonori coinvolgenti e intriganti che i due trii raggiungono l’eccellenza, ciascuno nel proprio ambito.
 Il terzetto di Cyrille sembra sognare gli spazi aperti della frontiera, una sorta di Ry Cooder trasformato ed evoluto, dove il groove  è completamente immaginato e il dialogo continuo tra i musicisti allunga lo sguardo sempre più lontano, lì dove non vi sono confini, sempre agganciati ad una tradizione blues resa elegante dalla chitarra di Frisell.
Il trio di Torn è invece immerso nella metropoli distopica, un Bitches Brew allucinato e inquietante, con crescendi angosciosi e improvvise quieti. I tre strumenti, coadiuvati dall’elettronica e, in Spartan, Before It Hit dai chitarristi Ryan Ferreira e Mike Bagetta, dal tastierista Craig Taborn e persino da un quartetto d'archi, conducono l’ascoltatore in un mondo altro, destrutturato e spigoloso.



I due dischi lavorano sul concetto di composizione in un modo  esemplare e per certi versi simile. Improvvisazione e scrittura sono continuamente alternati e inglobati all'interno di brani elastici, continuamente in movimento, come stormi di uccelli che si addensano e si rarefanno senza un ordine evidente ma con una loro inequivocabile forma. Spazi, silenzi, sferzate rock e sinuose ed ipnotiche improvvisazioni si delineano con chiarezza e originalità.
L’assoluto livello di sintonia, espressività e innovazione sembra proprio risiedere nella formazione del trio, atipica e allo stesso tempo unica e ineccepibile, che racchiude in sé ogni ambito possibile di suono e melodia e ne moltiplica gli effetti come onde che si propagano dal centro verso gli esterni. È musica, ottima, del presente ma con indubbi e illuminanti segnali verso/per il futuro.

pop 

martedì 16 aprile 2019

Impro, Prog e Punk!

In un mio precedente post (https://impropop.blogspot.com/2019/04/a-proposito-di-progressive.html) avevo accennato alla pratica improvvisativa in ambito rock, poi debellata in gran parte nello sviluppo del Progressive. Ne avevo dato una lettura centrale per quanto riguardava il triennio 1966/69, con l'esplosione della Psichedelia e le sperimentazioni ad ampio raggio compiute dalla stragrande maggioranza dei gruppi.

Quando parliamo di improvvisazione nel rock facciamo riferimento a quella che Derek Bailey ha chiamato improvvisazione idiomatica, circoscritta in maggior parte a lunghi assoli chitarristici o di tastiere. Ma in alcuni casi si è fatto uso di improvvisazioni più o meno libere, cioè non propriamente idiomatiche. I primi Pink Floyd, Soft Machine, in alcuni casi King Crimson, un certo Zappa e gli Henry Cow, ma anche le lunghe suite psichedeliche dei Grateful Dead o i Gong hanno in parte un'attitudine libera. Possiamo comunque convenire con il fatto che di improvvisazione il rock non ne abbia fatta molta, o comunque non ne costituisce l'essenza, o la priorità. Ma perché allora diventa centrale? Perché se fosse stata sviluppata e incrementata come sembrava potesse esserlo avremmo avuto un corso differente degli eventi storici del rock. Quella musica così affascinante e rigogliosa non sarebbe caduta nell'asfissia di certo Prog e non sarebbe stata spazzata via così facilmente.
Nel bel libro di Simon Reynolds, Retromania, c'è un interessantissimo capitolo che riguarda il Punk. L'autore lo considera un fenomeno nato da impulsi reazionari, regressivo, che comunque guarda al passato, al primo rock suonato con pochi accordi, in maniera semplice e concisa, privo di improvvisazioni. Non sono del tutto d accordo con questa definizione ma è vero che, esaurita la prima spinta propulsiva del punk, la musica rock si è via via incanalata in un percorso sempre più ristretto, da una parte con lo sguardo all'indietro, dall'altra con la commercializzazione e l'atrofia creativa. Ecco perché l'improvvisazione avrebbe potuto svolgere un ruolo decisivo nell'alterare gli accadimenti verso un'altra direzione, e allora il punk non avrebbe avuto così vita facile. O forse ne sarebbe stato influenzato indirizzandosi verso un'estetica differente, più aperta e meno iconoclasta.


Voglio dire: non necessariamente l'improvvisazione è la giusta terapia per crisi più o meno creative, e non sempre assolve al suo compito, cioè quello di veicolare la musica su lidi sorprendenti e inauditi. Per quanto riguarda un certo rock, quello garage, straccione e sporco, privo di assoli ma pieno di adrenalina e immensamente caustico, quel punk urlato e distorto che distrusse in un solo anno i muri dei castelli del rock e ne ricostruì le fondamenta, ecco quello non aveva e non ha assolutamente bisogno dell'improvvisazione. E'  ben definita la sua estetica e risponde all'urgenza di energia e rassicurazione allo stesso tempo, di certezze scolpite e elettrificate con vigore e risolutezza. Ma quelle musiche che avevano infranto i confini della composizione breve, la strofa e il ritornello, il ritmo regolare e le melodie accattivanti, avevano assolutamente necessità di improvvisazione per poter continuare il loro percorso creativo.  Non fu così ed allora si tornò, pur modificati, ai vecchi codici, alle radici. Ma la linfa vitale è durata pochi anni, e tutto si è esaurito in un ritorno al pop più o meno commerciale e a presunte musiche alternative o indie che dir si voglia; la fine della spinta propulsiva del rock. 


La critica è inutile, non può esistere che soggettivamente, ciascuno la sua, e senza alcun carattere di universalità.
Tristan Tzara

pop

mercoledì 10 aprile 2019

L'arte della cover

Nella terminologia della musica (principalmente pop e rock), una cover è la reinterpretazione o il rifacimento di un brano musicale - da altri interpretato e pubblicato in precedenza - da parte di qualcuno che non ne è l'interprete originale.
Questo è ciò che scrive Wikipedia, in una lunga scheda informativa peraltro ben fatta.
Non voglio dibattere sul fenomeno cover o tribute band, ampio e triste scenario che impazza da nord a sud dell'Italia. In realtà sono più interessato all'approccio ad una cover, alle sue  tecniche compositive.


Innanzitutto, reinterpretazione o rifacimento? Direi che dovremmo partire proprio dall'originale. Sembrerà strano ma il fatto che sia famoso o poco conosciuto determina il nostro primo approccio. Mi sembra quasi ovvio che in presenza di un celebre brano il rifacimento è la scelta meno opportuna. Lo si ascolta o lo abbiamo ascoltato tante volte nella versione originale, che senso ha risuonarlo esattamente uguale o quasi? Magari può essere divertente, o può farci passare momenti piacevoli, non lo metto in dubbio, ma qui vorrei mettere la questione quasi in termini filosofici.  Approcciare una cover di un brano famoso significa dargli una forte impronta personale, rendere il brano altro dall'originale ma allo stesso tempo mantenerne il legame, il ricordo. Il rifacimento più o meno fedele sembra quasi un dichiararsi sconfitti dall'altrui creatività, un avrei potuto ma non l'ho fatto. Cercare di dare un'impronta personale ad un brano famoso è effettivamente un lavoro complicato, direi quasi come riscrivere o reimpostare totalmente la composizione. Dovremmo, nel migliore dei casi, lasciare una traccia appena accennata, quasi fosse un medicinale omeopatico, dove il ricordo dell'originale è diluito all'ennesima potenza eppure è ancora presente e attivo. La reinterpretazione consiste nel selezionare alcune sostanze principali e diluirle all'interno di una nuova composizione, mostrarne il contenuto ed allo stesso tempo mascherarlo. La canzone originaria deve poter manifestarsi sotto differenti forme inducendo l'ascoltatore ad accendere il ricordo e immediatamente a sentirsi sorpreso dall'identità e dalla sua trasformazione. Come in un incontro di pugilato chi ascolta è colpito al volto per ben due volte ripetutamente, nel riconoscimento e nella sua apparente negazione. La reinterpretazione promossa dal solo cambio di strumentazione e/o ambientazione promuove in parte questo aspetto. Il riconoscimento è quasi immediato e la sorpresa dovuta alle differenti sonorità è epidermica, superficiale. 


Con un brano poco conosciuto la questione è certamente più semplice. Possiamo anche permetterci di suonarlo e interpretarlo come l'originale o quasi. In questo caso la possibilità di far conoscere una composizione fino ad allora sconosciuta ci dà l'abilitazione, per così dire, a riprodurla come l'autore l'ha scritta e suonata. E' una sorta di omaggio al compositore originario. 


Tutto questo per segnalare quella che per molti aspetti è una tra le migliori, se non la migliore, cover mai registrata. (I Can't Get No) Satisfaction, dei Rolling Stones, reinterpretata dai Devo. Ho sempre pensato sia un piccolo capolavoro, un'impresa ardua superata nel migliore dei modi. Come riuscire a scardinare e ricomporre un brano così famoso, così oggettivamente ricco e forte caratterialmente senza cadere nel banale rifacimento o in un totale stravolgimento privo dell'essenza del brano? I Devo ci sono riusciti. Sonorità devolute, esasperazione della linea vocale, ritmo e intreccio di riff in versione sintetica e poi, il colpo di genio: l'inserimento del riff originario della chitarra di Keith Richards alla fine del brano. Perfetto, oserei dire!






Recensioni. Kevin Ayers and The Whole World "Shooting at the Moon"

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