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lunedì 13 maggio 2019

Fusion/Thesis. L'arte del trio 2

FUSION/THESIS

Il personaggio è abbastanza particolare, tanto da meritare certamente più attenzione di quanta gliene sia stata data dalla storiografia jazzistica. Nato nel 1921 in Texas, a metà dagli anni ’50 Jimmy Giuffre è un tipico esponente della scena west coast, conosciuto non solo come sassofonista e clarinettista ma anche come ottimo arrangiatore e compositore; è lui infatti che scrive ed arrangia uno dei maggiori successi dell’orchestra di Woody Herman, Four Brothers, del 1947. Ma, contrariamente ad alcuni suoi colleghi come Gerry Mulligan, Stan Getz o Dave Brubeck, si allontana pian piano dai riflettori, dal successo commerciale preferendo sperimentare nuove soluzioni e sonorità. 


Ispirato dalla Sonata per flauto, viola e arpa di Debussy e con l’idea di sviluppare così ulteriormente il suo approccio contrappuntistico Jimmy Giuffre forma un trio drumless con Jim Hall alla chitarra e Ralph Pena al contrabbasso (più tardi al posto di Pena subentrerà Bob Brookmeyer al trombone a pistoni!). A questo aggiunge un lento abbandono del sax per suonare quasi esclusivamente il clarinetto, scelta decisamente controcorrente. 

Le sonorità del nuovo progetto di Giuffre sembrano condividere i parametri dell’estetica cool ma in realtà c’è qualcosa che lascia intravedere gli sviluppi futuri. Innanzitutto la scelta di non avere batteria: lo swing non sembra affatto risentirne ma è sempre presente sottotraccia, permettendo una maggiore libertà nelle improvvisazioni e lasciando emergere un forte interplay tra i tre musicisti che iniziano ad eludere i confini tra tema e improvvisazione. Il “blues-based folk jazz” di Jimmy Giuffre è alla ricerca di un’intensità e di un feeling che solo le atmosfere morbide e le sonorità contenute possono far emergere, lontano dalle grida e dal volume alto della maggior parte dei gruppi jazz dell’epoca. 

Nel 1957 si sposta a New York, e qui nuovi stimoli portano Giuffre lontano dai suoni west coast e vicini alla nuova scena free che sta emergendo sul finire dei ’50 inizi ’60 proprio nella Grande Mela. Il trio rimane la formazione ideale per Giuffre, ma cambiano questa volta i musicisti; Paul Bley al piano e Steve Swallow al contrabbasso. Nel 1961, a marzo e ad agosto, il nuovo trio registra due album per la Verve (poi ristampati in un doppio cd dalla ECM nel 1992): Fusion e Thesis.




La Fusione di Jimmy Giuffre è un materiale sonoro liquido ma non informe, composito ma fluido, ricco di stimoli e di suggestioni. Le dissonanze sono immediatamente stemperate da continue consonanze, il semplice sembra tramutarsi in complicato e viceversa. C’è una libera ricerca di nuove forme e le tonalità vengono in parte abbandonate per poi essere riprese. Questo disco sembra essere un’alternativa alla bollente energia dell’hard bop così come alle rivolte musicali e socio-culturali del free. Ma non lo è perché non si contrappone ad essi bensì ne rielabora alcune tematiche e ne sussurra nuovi aspetti. È fondamentale, come in passato, l’interplay fra i tre musicisti; piano e contrabbasso sembrano fondersi con quel suono così delicato eppur anomalo, sfuggente, alieno in certi casi, del clarinetto. Coraggiosa e vincente è la scelta stilistica di Giuffre; rinunciare in pieno alla tradizione virtuosistica dello strumento per costruire un proprio linguaggio innovativo che faccia respirare e parlare il clarinetto insieme agli altri strumenti, che lo faccia vibrare sommessamente senza dover per forza urlare. In Fusion c’è un dialogo pacato tra i musicisti che porta il trio ad improvvisare in una continua ricerca tematica, portando alla luce il blues del Texas come la Third Stream, il free come il Modern Jazz Quartet. Il volume basso, il suono soffice, il soffio permettono all’ascoltatore di percepire continuamente nuove suggestioni, richiami, visioni. 

Thesis, registrato qualche mese dopo, è diverso. Ma è una diversità insita in Fusion, non se ne percepisce al primo ascolto il carattere programmatico. Dove Fusion era materiale liquido Thesis sembra offrire rivoli solidi, spunti programmatici solitari inseriti in discorso complesso, vicino alla musica “colta”. Dove in Fusion c’era suono comune qui spesso gli strumenti appaiono isolati tra loro, intenti a elaborare i loro assunti, forti della precedente compattezza, della loro raggiunta fusione. Lo stesso clarinetto di Giuffre suona leggermente più alto, su registri acuti. Le composizioni sono più angolose, aggressive, libere da tonalità. Dopo essere riusciti a fondere i loro suoni, i tre musicisti manifestano la volontà di enunciare le loro idee uscendo dal materiale fuso e spargendo note e suoni nell’aria. Il tutto sempre in maniera sommessa, quasi a non voler disturbare troppo, come se fossero di lato rispetto al fluire degli eventi. 



Sarebbe finita qui se uno non considerasse il terzo capitolo della saga, Free Fall. Sempre lo stesso trio, qualche mese dopo Thesis e un tour in Europa. E può benissimo dirsi l’esplosione di un gruppo, di un’idea; lo scioglimento dei suoni nella libera improvvisazione quale naturale approdo dell’intero percorso artistico di Giuffre. Una sonorità ostica e sfrangiata, un oltrepassare i limiti e lanciarsi nel precipizio dell’ignoto. Il trio che ha fuso le sue molteplici influenze e ha teorizzato nuovi assunti, con Free Fall mostra la dissoluzione del tutto, una libertà angosciante, che sa di fine della storia. 

“Ci disperdemmo una notte in cui guadagnammo 35 centesimi ognuno”. Steve Swallow  

 




pop

martedì 23 aprile 2019

L’arte del trio

Ci sono alcuni elementi significativi che accomunano le uscite discografiche del trio di Andrew Cyrille, con Wadada Leo Smith alla tromba e Bill Frisell alla chitarra,  e quello di David Torn,  con Tim Berne al sax e Ches Smith alla batteria e all'elettronica. Non è solo la formazione, due trii con batteria, chitarra elettrica e strumento fiato, né la stessa etichetta discografica, la ECM, che in ogni caso determina un certo tipo di suono. No, è qualcosa di più profondo, intenso e allo stesso tempo luminoso, che Lebroba e Sun Of Goldfinger condividono.


Le due formazioni, pur avendo delle importanti differenze stilistiche, elaborano un procedimento compositivo esteso, largo, quasi fossimo in presenza di composizioni classiche, con un intento non lontano dalla sinfonia, soprattutto per quanto riguarda il trio di David Torn. Ma è nella capacità di evocare suggestioni paesaggistiche, nel delineare ambienti sonori coinvolgenti e intriganti che i due trii raggiungono l’eccellenza, ciascuno nel proprio ambito.
 Il terzetto di Cyrille sembra sognare gli spazi aperti della frontiera, una sorta di Ry Cooder trasformato ed evoluto, dove il groove  è completamente immaginato e il dialogo continuo tra i musicisti allunga lo sguardo sempre più lontano, lì dove non vi sono confini, sempre agganciati ad una tradizione blues resa elegante dalla chitarra di Frisell.
Il trio di Torn è invece immerso nella metropoli distopica, un Bitches Brew allucinato e inquietante, con crescendi angosciosi e improvvise quieti. I tre strumenti, coadiuvati dall’elettronica e, in Spartan, Before It Hit dai chitarristi Ryan Ferreira e Mike Bagetta, dal tastierista Craig Taborn e persino da un quartetto d'archi, conducono l’ascoltatore in un mondo altro, destrutturato e spigoloso.



I due dischi lavorano sul concetto di composizione in un modo  esemplare e per certi versi simile. Improvvisazione e scrittura sono continuamente alternati e inglobati all'interno di brani elastici, continuamente in movimento, come stormi di uccelli che si addensano e si rarefanno senza un ordine evidente ma con una loro inequivocabile forma. Spazi, silenzi, sferzate rock e sinuose ed ipnotiche improvvisazioni si delineano con chiarezza e originalità.
L’assoluto livello di sintonia, espressività e innovazione sembra proprio risiedere nella formazione del trio, atipica e allo stesso tempo unica e ineccepibile, che racchiude in sé ogni ambito possibile di suono e melodia e ne moltiplica gli effetti come onde che si propagano dal centro verso gli esterni. È musica, ottima, del presente ma con indubbi e illuminanti segnali verso/per il futuro.

pop 

domenica 24 marzo 2019

Eric Dolphy, l’inaudito

Si fa un gran parlare ( anzi, riparlare) di Eric Dolphy in questo periodo, per via di una nuova uscita discografica che contiene alcune sue registrazioni mai pubblicate prima e cose invece già note, con in aggiunta uno splendido ed esauriente booklet.
Ma non è di questo cd che voglio parlare , non ora perlomeno, ma di un altro disco, meno conosciuto e che ho avuto la fortuna solo da poco di conoscere ed apprezzare.
Eric Dolphy ha inciso ben tre album con Oliver Nelson, tutti e tre a nome di quest’ultimo. Il più famoso è The Blues And The Abstract Truth, registrato per la Impulse il 23 febbraio del 1961. Quasi un anno prima la coppia registra per la Prestige, il 27 maggio 1960, Screamin’ The Blues. Per il disco della Impulse la ritmica è formata da Roy Haynes alla batteria, Paul Chambers al contrabbasso e Bill Evans al pianoforte. In aggiunta ai sassofoni di Dolphy e Nelson ( qui Dolphy suona anche il flauto) c’è la tromba di Freddie Hubbard. L’altro disco vede alla batteria sempre Roy Haynes ma con George Duvivier al contrabbasso, Richard Wyands al pianoforte e Richard Williams alla tromba.

Il terzo disco è Straight Ahead, registrato per la Prestige qualche giorno dopo The Blues And The Abstract Truth, il primo marzo 1961. Stessa formazione del primo disco ma senza il trombettista Richard Williams. Ed è proprio su quest’ ultimo che mi voglio soffermare.
Non voglio fare un’analisi particolareggiata, né lanciarmi in accurate disamine tecnico musicali che non è il caso di postare qui su questo blog. Semplicemente, commentare e raccontare con estrema leggerezza questo terzo disco, del quale non avevo conoscenza.



È un disco sorprendente, per molti versi paragonabile al capolavoro della Impulse. Straight Ahead colpisce immediatamente l’ascoltatore per una freschezza unica e per un’altissima qualità compositiva. I sei brani sono uno più bello dell’altro, la solita e mai banale combinazione di blues e funky, sempre elegantemente arrangiati e strutturati con originalità da Oliver Nelson, tra sapienti introduzioni, cambi di tempo e code inaspettate. Ma quello che emerge da questo album è l’eccezionale capacità improvvisativa di Dolphy, qui al sax, al clarinetto basso e al flauto. Il contrasto, la grande differenza stilistica tra i due fiati produce una continua sorpresa, un meravigliarsi inatteso che tiene l’ascoltatore inchiodato all’ascolto. L’irruenza di Dolphy, la sua libertà espressiva rendono l’eleganza, in alcuni casi un po’ di maniera, di Nelson per certi versi sorprendente e  inaspettata. 
Vorrei un po’ soffermarmi su Dolphy, sul suo approccio improvvisativo. A volte sembra un sismografo impazzito, che produce diagrammi quasi sempre fuori dai limiti, ma quei limiti vengono allo stesso tempo travalicati e rispettati, come in una continua sfida. Eric sembra non avere alcun problema nel liberarsi dalla griglia armonica dei brani pur, nei fatti, seguendola. L’inaudito suona conforme, quasi rassicurante, e trascina la mente in un vorticoso viaggio ai confini del già noto. Molto probabilmente Dolphy è l'unico musicista di area free che riesce a collocare il suo approccio improvvisativo, così originale e libero, anche all'interno di strutture e composizioni per così dire regolari, consuete.
 I suoi strumenti, sax alto, clarinetto basso e flauto, vengono sottoposti a continue pressioni, quasi dilatati per poter contenere tutta l'energia e la quantità enorme di idee e frasi, suoni e rumori che Eric produce come in un flusso continuo. Il suo stile si modifica a secondo dello strumento che suona, affermandosi come vero multi strumentista capace di approcciare in modo originale i diversi strumenti musicali.

"Io penso al mio modo di suonare come a qualcosa di tonale. Suono note che non sono normalmente considerate presenti nell'accordo dato, ma le sento giuste. Non penso di abbandonare la struttura armonica: ogni nota che suono ha qualche rapporto con gli accordi del brano". 
Eric Dolphy

pop




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