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mercoledì 30 marzo 2022

Recensioni. Henry Cow "Western Culture"

 



                                                                         Henry Cow
                                                                 WESTERN CULTURE
                                                                       Broadcast 1978

E’ il loro ultimo disco, una sorta di testamento per le generazioni future e un affresco per nulla roseo della civiltà occidentale. Nel 1978 gli Henry Cow, nonostante i primi segnali di crisi e di affaticamento, decidono comunque di tornare  in studio per registrare un altro lp. Non ci sono più John Greaves, impegnato con i National Health, e Dagmar Krause, per problemi di salute. Il primo materiale registrato è composto per lo più da canzoni ma proprio per questo non sembra in linea con la storia e l’estetica di Henry Cow, così tutto quel repertorio va a finire nel primo disco degli Art Bears, formazione con Fred FrithChris Cutler e Dagmar Krause. Proprio queste discussioni intorno al repertorio portano alla decisione di terminare l’esperienza del gruppo,  con la registrazione di  nuovo materiale solo strumentale che sarà l’ultimo disco ufficiale degli Henry Cow, il primo in studio non per la Virgin ma per la loro etichetta, la Broadcast. 

l quartetto base  (Tim HodgkinsonLindsay CooperFred FrithChris Cutler) registra 7 tracce, le prime tre a nome di Hodgkinson, le altre tre di Lindsay Cooper e la settima scritta insieme dai due autori. 
Il primo brano, Industry, chiarisce immediatamente le coordinate musicali dell’intero disco: musica contemporanea, Zappa, dissonanze e improvvisazioni libere innestate su brani dai rapidi cambiamenti e dai tempi intricati, atmosfere inquietanti, aperture consonanti e spazi cerebrali. The decay of cities si apre con una chitarra acustica vagamente canterburiana (dalle parti di Hatfield e National Health) per poi sfociare in atmosfere tipicamente zappiane. Verso la fine del brano sembra di ascoltare i Soft Machine di Third. Il terzo brano, On the raft, ci porta in ambito jazz inglese, con  una intrigante melodia contraddistinta da un bell'impasto di fiati. I brani di Lindsay Cooper hanno un sapore più vicino alla musica “colta”, con passaggi Progressive e sperimentazioni varie. Gretel’s tale è impreziosito dalle improvvisazioni alla Cecil Taylor della pianista Irene Schweizer,  mentre il breve Look back, dalle atmosfere delicate, sembra quasi musica da camera. La chiusura è affidata alla stupenda e solare Half the sky,  attraversata da un sax soprano che improvvisa gemendo piccoli suoni e frasi spezzate, con un finale tipicamente prog. La ristampa in cd contiene tre bonus tracks. E’ la conclusione della vicenda Henry Cow, ma i protagonisti saranno comunque ben attivi per tutti gli anni ’80 e oltre con progetti e dischi di assoluto valore.




pop

lunedì 28 marzo 2022

Recensioni. Matthew Halsall "Salute to the Sun"

   




                                                                Matthew Halsall

                                                            SALUTE TO THE SUN

Gondwana Records 2020

C’è un fascino misterioso, ammaliante, che cattura al primo ascolto, in questo nuovo lavoro del trombettista di Manchester Matthew Halsall. Seppur non originalissimo come proposta, nondimeno Salute To The Sun ha una sua estetica ben definita e con alcuni lati assai pregevoli. Prima di tutto l’uso delle dinamiche, non così frequente in ambito popular, un saper espandere la materia sonora, allargarla e restringerla provocando un moto ondoso a bassa intensità. E poi lo spazio, il respiro, una profonda estensione dei confini che porta i brani a solcare distese illimitate: si potrebbe star lì ad ascoltarli per ore e ore, senza mai stancarsi.  Forse è il frutto della Meditazione Trascendentale, della quale Halsall è un seguace, comunque è musica, questa di Salute To the Sun, che profonde spiritualità e serenità, accanto a quel fascino impalpabile, quasi sotterraneo e che spesso fa affidamento sulle eccelse qualità dei musicisti coinvolti. Halsall ha un suono limpido, chiaro, definito, pulito. A tratti ricorda Ian Carr, e quindi è pienamente nel solco davisiano, ma possiede un proprio suono, originale e brillante nelle improvvisazioni, costruttore infaticabile di racconti sonori, meditativo. Grande spazio è riservato al sassofonista e flautista di Leeds Matt Cliff, anch’esso limpido e pulito sia nell’esposizione tematica che nelle improvvisazioni. E fondamentale, nell’economia del suono, appare anche l’arpa di Maddie Herbert, che porta Salute To The Sun nell’alveo coltraniano, ovviamente più quello di Alice che di John. Ritmica impeccabile, agile, leggera e allo stesso tempo incisiva nel sorreggere e stimolare le storie dei solisti, nell’adagiare con calma e precisione la musica. Liviu Gheorghe al piano, Gavin Barras al basso e Alan Taylor alla batteria forniscono una cornice adeguata alle introspezioni sonore, amalgamandosi con cura e rendendo mai noiosa l’atmosfera, che pur potrebbe correrne il rischio. Quasi non è necessario elencare i brani perché il livello è omogeneo per tutto il disco (ma The Energy Of Life, a chiusura dell’album, merita una menzione speciale con quel suo irresistibile tema), a farne di fatto un libro sonoro sulla meditazione e sull’uso delle improvvisazioni modali, con quel tocco di orientale che ogni tanto sposta l’accento sull’etno jazz. Ma davvero siamo lontani da banalità e formule stantie, la freschezza e l’estrosità di Salute To The Sun è ineccepibile, tale da farne uno dei migliori dischi del 2020. E con ragione.   

 

Matthew Halsall, trumpet

Matt Cliff, saxophone, flute

Maddie Herbert, harp

Liviu Gheorghe, piano, kalimba, marimba

Gavin Barras, bass

Alan Taylor, drums

Jack McCarthy, percussion

Tom Harris, kalimba


pop

venerdì 25 marzo 2022

Lettere al Direttore (2)

 



Caro Direttore,

mi trovo di nuovo a scriverle sperando di non importunarla troppo. Immagino stia pensando di trovarsi di fronte ad una sorta di stalker, ma le assicuro che non intendo passare per quelle figure assai inquietanti che assillano quotidianamente qualsiasi persona abbia un minimo di notorietà. Insomma, vorrei solo fornirle di tanto in tanto spunti, riflessioni e quesiti che mi sembra possano aiutarla nel suo lavoro, o perlomeno possano suscitare interesse nei suoi lettori, tra i quali ovviamente ci sono anch’io.

L’altro giorno, mentre sfogliavo una delle riviste musicali che saltuariamente seguo, mi sono imbattuto in uno strano personaggio a me fino ad allora sconosciuto. Eric Chenaux, apprezzato chitarrista canadese, molto probabilmente ignoto alla grande massa, ma credo che anche lei non ne abbia mai sentito parlare, né tantomeno abbia avuto modo di ascoltarlo. Ebbene, caro Direttore, incuriosito dall’articolo sul musicista in questione, sono andato ad ascoltare la sua musica e ne sono rimasto assai colpito. Devo dirle, in tutta onestà, che comunque ho avuto difficoltà nel seguire i brani del suddetto chitarrista. trovandoli di complicata fruizione. Tuttavia, cosa assai rara, l’ascolto di Eric Chenaux mi ha portato a riflessioni bizzarre. Bizzarre perché, lo riconosco, assolutamente gratuite per certi versi, o comunque prive di particolare interesse. Ma, mi sono detto, forse sono riflessioni che possono suscitare una sua risposta, o magari incuriosirla per approfondire argomenti finora poco trattati. In ogni caso, la prego, non si faccia remore nel cestinare questa mia, nel caso la trovi assolutamente insulsa.

L’inconsueta musica di questo introverso e misterioso chitarrista sembra essere frutto di un particolare mix tra delicate e cantabili melodie e un tipo di improvvisazione dai caratteri assolutamente liberi, audaci.  In breve, l’ascolto procede in un continuo entrare ed uscire da consonanze, la delineazione di tratti melodici alternati a dissonanze, suoni morbidi ed effetti rumoristici, o meglio elettronicamente modificati in un senso profondo di ricerca. Insomma, se da un lato ci si sente appagati e rilassati da motivi soavi che confinano con territori pop, ballads dal vago sapore jazz, dall’altra si è continuamente sobbalzati verso terreni avventurosi, a volte anche irritanti, nondimeno con un loro particolare fascino. Tutto ciò mi ha portato a riflettere sullo stato assolutamente misero della nostra popular music, in particolare di quel pop e rock da classifica che giganteggia nei media occidentali. Eppure, basterebbe aggiungere, o mescolare, queste musiche prive di avventura con qualche sano e rivitalizzante inserto improvvisativo perché il tutto assuma un nuovo colore, nuovi e speziati sapori. Invece si è ormai bandita del tutto l’improvvisazione, relegata alle musiche di stretta derivazione afroamericana come il jazz, lasciando solo la continua ricerca del refrain cantabile, scontato, della canzoncina con i soliti accordi, o della finta provocazione estetica per vendere il prodotto. Sono banditi persino gli assoli di qualsiasi strumento, e il risultato è un piattume generale, a meno che non si vada alla ricerca di musiche di nicchia. Non crede, Direttore, che sia il caso di provare a rompere ogni tanto questa sensazione del già sentito, di incrinare queste musiche patinate che sorvolano le nostre orecchie e le nostre menti senza lasciare alcuna traccia? In fondo, improvvisare fa parte della nostra vita quotidiana, perché espungere quest’atto dalla musica?

Spero di non averla annoiata troppo.

Cordiali Saluti

Edmondo Fabbri, suo assiduo Lettore  

  

Lettere al Direttore (1)

 



Caro Direttore,

mi premetta di rivolgermi a lei in questo modo così confidenziale, anche se non ci conosciamo. O meglio, lei sicuramente non sa nulla di me, al contrario io credo di conoscere qualcosa di lei, perlomeno il suo pubblico pensiero, da suo assiduo lettore quale sono. Le scrivo in questi momenti certo drammatici del nostro tempo, con guerre e pandemie che tormentano i nostri animi (e i nostri corpi) e non le nascondo di avere un pizzico di nostalgia di epoche lontane, non tanto per la gioventù ormai perduta quanto per la nitidezza degli accadimenti passati, la possibilità di avere più certezze, maggiori convinzioni di quante ne abbia ora. Ma probabilmente è solo il corso degli anni che porta ad un continuo interrogarsi, mettere in dubbio, cercare argomenti, risposte e domande alle questioni in atto, provando a rintracciare le motivazioni e le ragioni altrui. 

Vede Direttore, non che io non abbia convinzioni, anzi: ma in questi ultimi anni tento disperatamente di aderire appieno ad esse, cercandone ragioni profonde che me ne diano la legittimità, e non ci riesco. Anzi, sempre più provo forme di disagio di fronte alle scelte di campo nette, senza sconti. Non so, è come se rintracciassi nelle opinioni a me avverse piccole verità che riconosco legittime, con un senso di fondatezza. Credo, caro Direttore, che le sfumature e le dialettizzazioni siano molto più importanti ora che in passato. Ma questa nostra società sembra invece favorire le scelte di campo assolute e l’arruolamento nei rispettivi schieramenti. Chi tenta di argomentare viene sommerso dalle facili risposte, dai semplici commenti e dalle narrazioni spesso superficiali, ma alquanto efficaci da portare avanti. 

Una guerra non può non essere avversata, e ne ho avversate tante in passato. Eppure, mi sembra importante cercarne le ragioni, anche se folli o totalmente sbagliate. Trovo indispensabile tentare di capire le motivazioni, i perché di azioni che non condivido assolutamente, ma che penso non nascano da insensatezza o pazzia. E quant’anche possano sembrare tali, è importante trovarne comunque le possibili cause, almeno per evitare che si ripetano. Ciononostante, questi tentativi di ragionamento sembrano perdenti, arrendevoli di fronte alle tragedie della storia, e appaiono come futili distinguo per placare le mie diffidenze rispetto alle narrazioni di parte. Ma non trovo altra via che quella di soppesare, ragionare, comprendere, condannare certo, per provare a far tacere le armi, rimuovere dal consesso umano lo strumento della guerra che non porta certo soluzioni, semmai acuisce i mali, con lugubre corredo di morti innocenti. La finisco qui, per ora, sperando di non averle recato troppo disturbo. Se mi permette, come chiosa finale, vorrei dirle che ho anche nostalgia di quelle lettere al Direttore di tanti anni fa, di quell’epistolario che mostrava i sentimenti e le idee del semplice lettore di fronte ad una figura rispettabile come quella di un onesto e preparato direttore di un giornale. Rispetto alla cagnara dei commenti social, quella ponderatezza, quel bizzarro mix di pubblico e privato appaiono una sorta di luogo fantastico, certo di altri tempi. E di altri modi.

Cordiali Saluti

Edmondo Fabbri, il suo assiduo Lettore

giovedì 24 marzo 2022

Weird Tales. Henry Grimes e il suo The Call


 





Ci sono quei dischi che hanno un potere magnetico, ti incuriosiscono e ti affascinano al solo sentirne parlare, prodotti unici e colmi di un loro potere seduttivo misterioso. E in quanto a unicità, fascino, mistero, The Call, a nome Henry Grimes Trio, ne ha da vendere!

Iniziamo dalla casa discografica, la ESP dell’avvocato Bernard Stollman, folgorato dalle sonorità free dei vari Ornette ColemanAlbert AylerSun Ra, nei primi anni Sessanta in quel di New York. E che dà l’opportunità di registrare il primo disco a suo nome ad uno dei grandi protagonisti di quella stagione, il contrabbassista Henry Grimes. E qui passiamo alle vicende, senz’altro avventurose e avvolte dal mistero, di questo grande musicista ahimè morto poco tempo fa, possiamo dire per la seconda e definitivamente ultima volta.  La lista dei musicisti con i quali ha collaborato è impressionante per quantità e qualità: Anita O’DayBobby TimmonsLee MorganGerry Mulligan e Chet BakerArt FarmerBenny GoodmanTony ScottSonny RollinsThelonius MonkLee Konitz. E poi la svolta, agli inizi degli anni ’60: Cecil TaylorDon CherryAlbert AylerPharoah SandersArchie SheppSteve Lacy, fino a diventare IL contrabbassista free per eccellenza. Un monumento della musica afroamericana che però misteriosamente scompare dalle scene alla fine del decennio, per oltre trent’anni dato per morto salvo poi riapparire miracolosamente nel 2002, senza più il suo strumento e in condizioni disagiate ma con ancora una grande voglia di rimettersi in cammino, cosa che poi effettivamente avverrà.  Nella sua prima vita, nonostante le numerose collaborazioni e il suo talento Grimes ha a suo nome un solo album, proprio questo The Call, e ovviamente solo una casa discografica avventurosa e sperimentale come la ESP poteva dargli questa opportunità.

Ma le peculiarità di questo disco non finiscono qui. Curiosamente la carriera di Grimes ha più volte incrociato le note e  i suoni di uno strumento che nel secondo dopoguerra certo non era più così comune come un tempo: il clarinetto. Tra i musicisti con i quali il contrabbassista ha collaborato spiccano i nomi di Benny Goodman e di Tony Scott. E, sorprendentemente, di un altro clarinettista che fin qui abbiamo taciuto ma che è uno dei suoi compagni di avventura in The CallPerry Robinson.  

Figlio del compositore e folk singer Earl Robinson, cresciuto a New York in un ambiente liberal e naturalmente orientato verso le arti e la musica in particolare, Perry Robinson è uno dei rari clarinettisti “puri” degli anni ’60, cioè di coloro che hanno scelto e praticato il clarinetto come primo e unico strumento. Scelta assolutamente controcorrente, come abbiamo già ricordato, ma che non ha precluso al nostro una carriera interessante pur se di nicchia. Sicuramente poco conosciuto e non certo un virtuoso dello strumento, Robinson ha avuto il merito di trovarsi al momento giusto nel posto giusto. Suona con Archie Shepp in Mama Too Tight ma soprattutto partecipa a due grandi dischi dal respiro collettivo,  Liberation Music Orchestra di Charlie Haden e Escalator Over The Hill di Carla Bley. Non male per un clarinettista, che aggiunge alle sue frequentazioni album con Jeanne LeeAnnette Peacock, persino il gruppo rock alternativo The Fugs e operazioni soliste dedicate allo yoga kundalini e alla musica klezmer.  Oltre a, naturalmente, questo The Call con Henry Grimes. I due hanno un profondo rapporto di amicizia nato a metà anni ’50 durante una jam session e sugellato nel 1962 proprio con l’esordio come solista di Perry Robinson, con il suo Funk Dumpling.  Nel 1965, dopo il servizio militare, Robinson torna a New York e finisce per andare a vivere nel frizzante East Village proprio con Grimes e il terzo protagonista di questa nostra piccola storia, il batterista Tom Price. Amico di Robinson fin dai tempi di scuola e membro dell’ Uni Trio con lo stesso clarinettista e il bassista Bill Folwell (anche lui nella stessa scuola!), Tom Price è stato un allievo di Alan Dawson e, rispetto a Grimes e Robinson, non vanta grosse collaborazioni, a parte concerti con Jaki Byard e un bel disco a nome del sassofonista Frank Wright con lo stesso Grimes al contrabbasso, sempre edito dalla ESP. The Call nacque durante il periodo di convivenza dei tre musicisti, in una zona dove vivevano moltissimi jazzisti e si respirava una grande energia, qual era l’East Village a metà anni ’60. Ancora un particolare: talmente forte era il legame che li univa che trent’anni dopo, quando Henry Grimes riemerse dalla nebulosa nella quale era scomparso, si ritrovarono insieme a suonare.

Il disco è un classico del free jazz di quegli anni. Batteria tumultuosa, contrabbasso irruento ma nitido e strumento a fiato libero di scorrazzare tra i flussi sonori impetuosi. Tre strumenti che dialogano da pari, a sovvertire di continuo i ruoli. Ma The Call ha alcune sue particolarità che lo rendono diverso, lo discostano in parte dai cliché del genere. Innanzitutto, come dicevamo, la presenza del clarinetto che da quelle parti si era visto raramente, a parte i bellissimi lavori di Jimmy Giuffre con Paul Bley e Steve Swallow. Ma lì le atmosfere erano pacate, a stretto contatto con suggestioni contemporanee, mentre The Call aderisce in pieno alla tipica estetica free. Tuttavia, il clarinetto di Robinson, dal suono nasale e angoloso, devia le sonorità in una landa fino ad allora poco frequentata, una sorta di veemenza morbida, talvolta gentile, persino giocosa. Il suono complessivo è coinvolgente e mostra un alto tasso di interplay, probabile effetto della convivenza, con un’essenzialità unica, senza rivoli infruttuosi o superflui. Oltre la metà dei brani è fra i tre e i quattro minuti, mentre For Django, di Henry Grimes, è una suite ariosa, che lascia spazio ai singoli strumenti ma che vede anche melodie all’unisono e atmosfere sospese, quasi di impronta classica, unite a momenti più nervosi e con un contrabbasso portentoso, dallo swing eccezionale. L’altra composizione di durata estesa è quella che dà il titolo al disco, The Call, scritta da Robinson, che la suonerà nel corso di tutta la sua carriera nei contesti più disparati. È una sorta di breve richiamo, composto anni prima, provando a suonare insieme ad un calabrone e cercando di imitare il suono di altri insetti.  Walk On, sempre dello stesso Robinson, ha striature bop, mentre Son Of Alfalfa, di Grimes, è il seguito di Farmer Alfalfa (un cartone animato che Grimes amava vedere, una specie di Braccio di Ferro!), sempre composta dal contrabbassista e pubblicata su Funk Dumpling, il disco d’esordio di Robinson.

In definitiva, The Call è un disco che avrebbe meritato certamente più fortuna, come l’avrebbero meritata i tre musicisti, non fosse altro per aver registrato questo meraviglioso album.  Dal quale emerge una musica che, pur essendo segnata profondamente dall’estetica del tempo, non ha perso bellezza e comunicatività, come solo i grandi dischi sanno avere. A fronte di un monumentale Henry Grimes, con il suo energico e allo stesso tempo limpido  e ancestrale contrabbasso, sia Robinson che Price contribuiscono alla riuscita dell’opera con performance probabilmente mai più raggiunte nel prosieguo della loro carriera. Dei tre l’unico ad essere rimasto in vita è il batterista, mentre Robinson ci ha lasciato nel 2018.  

“Henry was so beautiful, and we were so close. He was a genius on bass, and even with all his problems he was still able to play. He’s one of the unsung heroes of jazz”. Perry Robinson 


pop

Weird Tales. Il "modernismo" di Pee Wee Russell


 


Il clarinetto è stato uno strumento sfortunato in ambito jazzistico. Tra i protagonisti agli albori, addirittura strumento simbolo durante la swing era, con l’avvento del be bop diventa praticamente obsoleto, vecchio, fuori moda. Soppiantato dal sassofono, il clarinetto rimane in vita grazie a pochissimi musicisti, tra gli anni 40 e i settanta, quando c’è un timido riaffacciarsi sulle scene del jazz contemporaneo. Tony ScottBuddy De FrancoJimmy Giuffre, Pee Wee Russell e poi John Carter, sono tra i pochi jazzisti di un certo livello che suonano esclusivamente o, nel caso di Giuffre e Carter, alternandolo al sax, lo strumento che fu protagonista, insieme alla cornetta e al trombone, della nascita del jazz. Ma in questo breve elenco la figura di Pee Wee Russell emerge con un ulteriore anomalia rispetto agli altri suoi colleghi; è sempre stato considerato un musicista dixieland pur non avendo mai suonato, propriamente, dixieland. Sembra un paradosso ma effettivamente è proprio così.

Andiamo con ordine.

Charles Ellsworth Russell nasce il 27 marzo 1906 a Maplewood, in Missouri, ma la sua famiglia è originaria di Muskogee, in Oklahoma ed è lì che cresce e inizia a suonare vari strumenti musicali, su impulso del padre. Violino, pianoforte e batteria finché, dopo aver assistito ad un concerto del clarinettista di New Orleans Alcide “Yellow” NunezPee Wee Russell opta definitivamente per il clarinetto. Nel 1920 la famiglia si trasferisce a St. Louis e qui inizia l’avventura musicale di Russell, accanto a musicisti del calibro di Bix Beiderbecke e Frankie Trumbauer, per poi spostarsi a New York e aggregarsi al trombettista Red Nichols e al chitarrista e bandleader Eddie Condon, con il quale suonerà e registrerà praticamente durante tutta la sua carriera.

Come dicevamo, Pee Wee Russell è sempre stato associato al dixieland, e i suoi compagni di palco sono quasi sempre stati in quell’ambito, anche se lo stile e l’approccio improvvisativo distano notevolmente dai cliché del genere, così come dall’estetica swing. Ma come suona Russell, perché è così particolare, così intrigante per certi versi?

“Non è un virtuoso e il suo suono è ansimante e stridulo, ma dimentichi quei difetti quando senti la beatitudine, la tristezza, la compassione e l’umiltà che sono lì nelle note che suona”. George Frazier, giornalista e critico jazz.

Queste definizioni racchiudono in gran parte il fascino di Pee Wee Russell, quel suo costruire le improvvisazioni con un accento “moderno”, dove il rumore, il soffio, le note storte e le spigolosità sono parte integrante della musica. Pee Wee improvvisa in modo bizzoso, con frequenti suoni disarticolati e improvvisi slanci melodici, inserendo elementi grotteschi e lavorando spesso sui toni bassi dello strumento. La scelta delle note a volte può sembrare errata ma la costruzione delle anomale melodie è così efficace da tratteggiare assoli imprevedibili e originali. Il bello è che anche la sua faccia e i suoi atteggiamenti sul palco corrispondono a quel suono, con un andamento goffo e un’espressione triste, quasi fosse una sorta di Buster Keaton del jazz.

Tuttavia, questa sua modernità non lo ha portato a frequentare altri ambienti e musicisti se non, appunto, il giro dixieland, probabilmente per una sua pigrizia, per i suoi problemi con l’alcool, o semplicemente per un’ingiusta sottovalutazione delle sue qualità. Ma agli inizi degli anni ’60 qualcosa cambia, le acque si smuovono.

Dopo una crisi dovuta al suo cattivo stato di salute nella prima metà degli anni 50, sul finire della decade Pee Wee riprende a suonare con regolarità e con i giusti apprezzamenti, anche da parte della critica. Le prime avvisaglie del cambio di rotta sono un incredibile duo con Jimmy Giuffre e un disco registrato insieme all’altro grande clarinettista, Tony Scott (Tony Scott And The All Stars52nd St. Scene, registrato il 6 agosto del 1958). Inoltre, inizia a partecipare ad importanti festival jazz, suonando accanto a Coleman Hawkins e a Lester Young. E arriviamo così al febbraio del 1961 quando Russell incide il bellissimo Pee Wee Russell – Coleman Hawkins All Stars, insieme allo storico sassofonista e con, tra gli altri, Bob Brookmeyer al trombone a pistoni e Nat Pierce al piano e agli arrangiamenti, il tutto prodotto da Nat Hentoff. Questo nuovo interesse e rivalutazione del clarinettista attira l’attenzione del trombonista, arrangiatore e direttore di big band Marshall Brown, ansioso di accrescere la sua reputazione nel mondo jazz e intenzionato ad investire i suoi soldi su un progetto abbastanza audace: inserire in modo stabile Pee Wee Russell in un contesto moderno, vicino alle nuove tendenze del jazz degli anni 60. E quindi, insieme al contrabbassista Russell George e al batterista Ron LundbergBrown Russell allestiscono un quartetto pianoless (sulle orme del famoso gruppo di Gerry Mulligan e Chet Baker) con un repertorio da far spalancare gli occhi. Composizioni di John ColtraneThelonious MonkTadd Dameron e persino Ornette Coleman!

Pee Wee è interessato alla sfida e vuole finalmente mettersi alla prova con musicisti e brani lontani dal suo abituale giro, anche se la figura di Marshall Brown non lo convince del tutto, con quel fare da istruttore nei suoi confronti. Alle prime prove, agli inizi del 1962, assistono anche Kenny Davern e Roswell Rudd che spronano Russell a continuare questo esperimento, convinti che il contesto fosse finalmente quello giusto per un musicista come Pee Wee.  

Il 15 ottobre del 1962 il Pee Wee Russell Quartet with Marshall Brown debutta dal vivo a Toronto. E, com’era facile attendersi, il nuovo gruppo scontenta totalmente i suoi vecchi fans e non convince i “modernisti”, ancora restii ad accettare il nuovo corso del clarinettista. Il quale, tuttavia, nelle interviste più volte sostiene di non aver mai suonato dixieland, bensì solo e soltanto jazz. E quindi non c’è nessuna rivoluzione in corso, semplicemente un repertorio diverso. Che in effetti non è del tutto sbagliato.

New Groove, il disco del quartetto, esce per la Columbia Records nel maggio del 1963, dopo sedute di registrazione svolte con tensione e incomprensioni, tra la rigida disciplina di Brown e la rilassatezza e l’indolenza di Russell. Tra i brani presenti nell’lp c’è una Red Planet di Coltrane, la ‘Round Midnight di Monk e Good Bait di Tadd Dameron, più altri standard come Moten Swing o Chelsea Bridge. Il disco è ben arrangiato, con un suono complessivo elegante e corposo, una ritmica puntuale e precisa e un affabile impasto fra trombone a pistoni e clarinetto.  Pee Wee Russell finalmente improvvisa in un ambito a lui consono, e costruisce assoli inusuali, linee storte e note inattese sia su classici come Taps Miller di Count Basie che su brani “moderni” come Good Bait. Discreto e di supporto armonico nel tema di ‘Round Midnight, commovente nell’enunciazione di Chelsea Bridge, con quel soffio intenso e le vibrazioni di un suono che viene da lontano ma che colpisce per la sua contemporaneità ancora adesso. A suo agio in Red Planet, dove mostra la sua capacità di improvvisare con un linguaggio ricco di echi free, Russell è eccezionale nella sua Pee Wee Blues, con un solo di altissimo livello. A mancare, nel disco, è un contraltare all’altezza, perché va detto che il buon Marshall Brown fa il suo compitino ma nulla di più, ed è un peccato perché contrabbasso e batteria suonano egregiamente. Le recensioni sono buone, dal vivo il gruppo riceve consensi entusiasti, addirittura Pee Wee vince il critics’ poll di Down Beat come miglior clarinettista dell’anno, ma i pregiudizi sono duri a morire e il disco non vende, non quanto dovrebbe. Tuttavia, questo non ferma il nuovo corso di Russell e nel luglio del 1963 il clarinettista suona insieme a Thelonious Monk al Festival Jazz di Newport, suscitando clamore tra il pubblico e critiche positive tra i giornalisti.  Prima di questo concerto il quartetto con Marshall Brown conclude le registrazioni e vende alla Impulse il secondo album, Ask Me Now (che però verrà pubblicato solo nel 1965), con una track list di tutto rispetto: insieme a brani scritti dallo stesso Brown, e a classici come Prelude To A Kiss di Ellington o How About Me? di Irving Berlin, figurano Ask Me Now e Hackensak di MonkSome Other Blues di Coltrane e un’incredibile Turnaround di Ornette Coleman 

Tuttavia, le sedute di registrazione per il secondo disco hanno evidenziato ulteriormente il malessere di Pee Wee Russell nei confronti di Marshall Brown, quella sua eccessiva rigidità nel registrare e allo stesso tempo l’inconsistenza improvvisativa che, a detta di Russell, ha pregiudicato i due lavori fin lì conclusi. Tanto è vero che i due provano a cambiare line up, a modificare qualcosa per tentare di raddrizzare il gruppo. E allora, a settembre del 1963, in previsione di una settimana di concerti al Village Vanguard di New York, il quartetto viene ampliato con l’inserimento del pianista Bob HammerJack Six al posto di Russell George al contrabbasso e Ronnie Bedford alla batteria, che già aveva partecipato alle registrazioni di Ask Me Now in luogo di Lundberg. Ma ormai non c’è più nulla da fare, il progetto è al capolinea e queste saranno le ultime esibizioni del gruppo, che si scioglie subito dopo, molto prima della pubblicazione del secondo album. A conclusione dell’esperienza Pee Wee dirà che non ricordava di aver mai preso così tanti ordini dai tempi della scuola militare. E oltretutto, dal punto di vista economico, fu un completo fallimento.

Resta da commentare l’ultimo disco, quell’ Ask Me Now pubblicato addirittura dalla Impulse.  Anche questo lavoro è ben arrangiato, in modo abbastanza tradizionale ma con garbo ed eleganza. E complessivamente è leggermente superiore al lavoro d’esordio, sia per una prestazione migliore di Brown che per un’ottima scelta dei brani, tra i quali gli originali del trombonista certo non sfigurano. L’apertura è affidata al brano di Ornette Coleman, una Turnaround suonata come un blues d’altri tempi, il suono caldo e quelle note appena accennate di Russell che emozionano e incuriosiscono. In Some Other Blues, di John ColtranePee Wee alterna richiami dixie a passaggi moderni, a note strozzate, in un solo di rara creatività, mentre Ask Me Now di Monk ha tutto il calore e il sapore dell’ebano, della tradizione jazz. Licorice Stick, uno dei brani originali, dall’andamento monkiano, è significativo per l’alternanza dei soli, tra un Brown discreto, ordinato, e un Russell pieno di passaggi inusuali, avventurosi, come se il più giovane fosse lui invece del trombonista. Hackensack, sempre di Monk, è divertente, briosa, mentre lo standard Angel Eyes, privo di improvvisazione, è ben suonato da Marshall Brown, che qui fa intravedere le sue qualità di narratore tematico.

Come dicevamo, il disco esce nel 1965, quando il gruppo già non esiste più e Pee Wee Russell è tornato ai suoi vecchi amori, al suo classico giro di musicisti dixieland, Jack TeagardenBud FreemanEddie Condon. C’è ancora spazio per concerti insieme al trombettista Henry “Red” Allen con una ritmica che vede Steve Kuhn al piano, Charlie Haden al contrabbasso e Marty Morell alla batteria e, nel 1967, un’insolita produzione di Bob ThielePee Wee insieme ad una big band con musiche dirette e arrangiate da Oliver Nelson. Purtroppo, nonostante la buona prova del clarinettista, l’esperimento non sembra del tutto riuscito anche perché il suono e lo stile di Russell non sono propriamente adatti alla forza e all’estetica di una big band.

Finisce così l’avventura “modernista” di Pee Wee Russell, e c’è un grande rammarico per quanto avrebbe potuto ancora dare se fosse stato più deciso nel continuare la svolta e magari avesse cambiato i partner. Ma così non è stato e, in ogni caso, pur in ambiti particolari, Charles Ellworth Russell ha continuato a regalarci ottima musica fino alla sua morte, avvenuta il 15 febbraio 1969.   

“Per trent’anni abbiamo tutti creduto che Russell facesse delle note sbagliate e lui ce lo ha lasciato credere; in realtà sapeva esattamente quello che suonava e noi abbiamo impiegato quasi trent’anni per capirlo!”

Coleman Hawkins


pop

lunedì 21 marzo 2022

L'Europa tra jazz e improvvisazione libera






Anche questo scritto fa parte della serie di schede informative del laboratorio sulla Storia del Jazz, Percorsi Jazz. 


L’Europa tra jazz e improvvisazione libera

 

“Il jazz afferma di essere una forma d’arte. Tutta l’arte è espressione del tempo in cui ha origine, un riflesso dell’ambiente in cui viviamo. Ecco perché un musicista jazz europeo non dovrebbe mai suonare come un musicista nero a New York o Chicago”

Albert Mangelsdorff

 

Se l’arrivo del jazz in Europa data già dai primi anni Venti, in corrispondenza più o meno della nascita di questa musica sul continente nordamericano, è altresì vero che fino al secondo dopoguerra questa musica vivrà in ambiti ristretti e non avrà certo ampia diffusione all’interno delle società europee. In Francia, in Gran Bretagna e nella Germania di Weimar le musiche afroamericane avranno anche i loro momenti di successo, ma ovviamente stiamo parlando di settori sociali esclusivi, avanguardie, circoli artistici, intellettuali. Va comunque sottolineato che il jazz, in molti casi, ricevette maggiori attenzioni ed ebbe un trattamento migliore, da parte degli ambienti culturali europei, di quanto ne avesse avuto negli Stati Uniti. Il primo libro sulla musica jazz è di Hugues Panassiè (“Le Jazz Hot”), un francese amante della nuova musica afroamericana, e molti jazzisti, quando attraversarono l’oceano per esibirsi in Europa, troveranno un atteggiamento di assoluto rispetto, che invoglierà molti di loro a tornarci o, in alcuni casi, a stabilirsi definitivamente.

Ostacolo alla piena diffusione del jazz in Europa furono l’instaurarsi delle dittature fasciste e naziste, in Italia e Germania, e delle ripercussioni che tali regimi provocarono sul resto dei paesi del continente, così come il consolidarsi del regime staliniano soffocò, anche qui, le sperimentazioni artistiche e il favore che il jazz, nei primi anni dopo la rivoluzione, aveva riscosso in Russia. A parte qualche influenza sulle musiche da ballo, del jazz non rimarrà molto fino alla Seconda Guerra Mondiale, con l’arrivo delle truppe americane e dei loro Vdisc, dischi espressamente registrati dalle big band per l’esercito statunitense. Se questo vale per Italia e Germania, per quanto riguarda Francia e Gran Bretagna, la penetrazione del jazz sarà più costante e duratura, nonostante appunto crisi economica e venti di guerra. Django Reinhardt, chitarrista di origine rom, e il violinista Stephan Grappelli, saranno popolari anche nella Francia del maresciallo Petain e persino tra alcuni gerarchi nazisti, mentre il fascino del jazz tradizionale, quello di New Orleans, manterrà solide radici in tutto il Regno Unito, dando vita ad un grande circuito di jazz tradizionale che si svilupperà ancor di più dopo la Guerra.

Il peso degli USA, non solo economico ma anche culturale, condizionerà l’Europa occidentale dopo il 1945, dando vita al modello politico e sociale delle democrazie occidentali, in netta contrapposizione con il blocco sovietico, e questo comporterà, fino al 1989, una netta divisione del continente che solo marginalmente verrà scalfita dai movimenti artistici. Il jazz sarà un elemento fondamentale della penetrazione culturale americana e diverrà velocemente una musica di riferimento non solo per i musicisti professionisti e dilettanti, ma anche per laghi settori della popolazione europea. Il ballo fece da traino ai ritmi delle big band e, anche se in patria il movimento era in netta crisi travolto dall’esplosione del be bop, lo swing sarà sinonimo di jazz nell’Europa degli anni Cinquanta. Ma presto le nuove tendenze presero piede anche nel vecchio continente, grazie ancora una volta ai numerosi concerti di musicisti americani in Scandinavia, Francia, Gran Bretagna, Olanda, Belgio, Germania e la stessa Italia. Questo comportò un consistente sviluppo del jazz europeo, con musicisti di assoluto valore, valga l’esempio degli svedesi Lars Gullin e Arne Dohnerus, oppure degli inglesi Ronnie Scott e Stan Tracey o del contrabbassista danese Niels-Henning Orsted Pedersen, che pur posizionandosi su un terreno di emulazione degli stilemi afroamericani, tra bop e cool, grazie alle loro capacità avranno la concreta possibilità di suonare accanto ai musicisti americani. Tuttavia, nonostante difficoltà e ritardi, tra revival del jazz tradizionale, emulazioni e musica di intrattenimento, l’esplosione del free jazz negli Stati Uniti non tardò molto ad avere ripercussioni anche in Europa. Il nuovo linguaggio permise a tutta una schiera di giovani jazzisti europei di poter approcciare finalmente la materia in modo originale e non seguendo semplicemente le tracce dei musicisti americani. Quell’approccio libero, creativo, fu la scintilla per far esplodere definitivamente la scena europea, questa volta su posizioni innovative, dando vita ad un movimento che travalicò le frontiere pur mantenendo alcune specificità nazionali. Un primo elemento di distinzione fu, in molti casi, la contaminazione con la musica colta, con le pratiche aleatorie e improvvisative dei compositori americani quali Cage, Feldman, Wolff, soprattutto in Gran Bretagna ma anche in Italia. Giorgio Gaslini e la sua musica totale, o il Gruppo Romano Free Jazz, sono mirabili esempi di creazione di un nuovo linguaggio che al suo interno contiene spunti, suggestioni ed elementi di ambedue i mondi sonori, quello accademico e quello jazz. Ma anche le esperienze inglesi del Joseph Holbrooke Trio, oppure dello Spontaneous Music Ensemble intrattengono forti contatti e pratiche con l’aleatorietà e l’improvvisazione colta. Lo stesso si può dire per la scena tedesca, mentre per quanto riguarda i Paesi Bassi, qui c’è un uso più irriverente e giocoso degli stilemi jazz intrecciati all’improvvisazione libera, con sviluppi alquanto originali. Altre caratteristiche sono le pratiche collettive, la formazione di orchestre più o meno stabili e transnazionali come la Globe Unity Orchestra di Schlippenbach, l’Instant Composer Pool di Misha Mengelberg, gli ensemble di Mike Westbrook e la London Jazz Composers’Orchestra, il Willem Breuker Kollektif. Ma anche Centipede, doppio album registrato da ben cinquanta musicisti inglesi, tra jazz, rock e improvvisazione libera, le etichette indipendenti come la Incus di Derek Bailey ed Evan Parker, oppure la tedesca FMP, i concerti autogestiti e i circuiti alternativi. E certo non potevano mancare i contatti con il nuovo rock, soprattutto in Inghilterra, così come forte fu l’influenza dei musicisti sudafricani che aprirono il jazz inglese alla ritmicità, agli intrecci tematici. Altrettanto importante fu il rapporto con le musiche tradizionali, sia in Italia (ad esempio Mario Schiano e il suo bel disco “Sud”), che in Scandinavia, dove peraltro operò con successo anche George Russell, influenzando profondamente la scena di quei luoghi. Ma va detto che molti musicisti americani si stabilirono, in quegli anni, spesso in Europa, dando nuova linfa ma anche ricevendone altrettanta, alla scena europea. Steve Lacy, Don Cherry, l’Art Ensemble Of Chicago, (Albert Ayler ed Eric Dolphy ebbero importanti collaborazioni con musicisti europei) furono tra i molti che seguirono l’esempio del vecchio Sidney Bechet, stabilitosi definitivamente in Francia nel Secondo dopoguerra.

In conclusione, il jazz europeo si inserì all’interno di quel vasto movimento, politico, sociale e culturale, che negli anni Sessanta rivoluzionò le società del vecchio continente e ne fu una delle espressioni artistiche di maggior rilievo. L’esperienza del free jazz ha permesso la nascita di un linguaggio comune europeo improntato alle pratiche di improvvisazione libera, quel territorio che prende spunti e insegnamenti sia dal mondo delle musiche afroamericane che da quello della musica contemporanea. E quest’approccio ha consentito l’emancipazione del jazz europeo dall’estetica americana, pur non negandone certamente le influenze, ma riuscendo a declinare la propria creatività con un linguaggio personale, ricco e composito, variegato ma allo stesso tempo con un substrato comune, valicando confini e cortine di ferro, ed arrivando effettivamente ad unificare, sotto la bandiera dell’arte libera, l’Europa.

 

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