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giovedì 27 febbraio 2020

Radio Gnome Invisible. La Trilogia del Pianeta Gong. Parte 2

Flying Teapot


Registrato dal 2 al 14 gennaio 1973, missaggio effettuato dal 26 febbraio e pubblicato dalla Virgin il 25 maggio (ma per precedenti accordi del gruppo con la BYG di Karakos il disco è edito a doppia etichetta BYG/Virgin), Flying Teapot si apre  con Radio Gnome Invisible, tipico brano a firma Allen, ricco di cromatismi, bizzarre melodie, orientalismi, sassofono decorativo e soffi e gorgheggi stralunati. Da questo punto di vista non troppo lontano da You Can’t Kill Me, brano di apertura del precedente Camembert Electrique. A predominare sono ancora, e lo saranno per gran parte del lavoro, basso, batteria, chitarra, sassofono e voce. Ma il secondo brano invece, Flying Teapot, a firma Allen e Moze, mostra decisi cambiamenti e illumina un percorso che verrà ancor più sviluppato nei  due successivi lavori della trilogia. Si tratta di una tipica fuga strumentale gonghiana, che inizia dalle parti di Echoes dei Pink Floyd di Meddle e poi si sviluppa lungo un classico riff di basso un po’ alla Hugh Hopper, dove si aggiungono i suoni del synth a dare spazialità e evocazione, inserti jazzati di Malherbe e cantilene alleniane, improvvisazioni e strappate alla Zappa, percussionismo alla Art Ensemble Of Chicago. Uno dei capolavori del pianeta Gong, che giustamente sarà parte significativa della loro architettura sonora e del loro repertorio live.


La seconda facciata si apre con The Pot Head Pixies, anche qui passaggi cromatici, basso batteria e chitarra energici e sostenuti dalle decorazioni del sassofono, solito campionario zappiano, un po’ di Captain Beefheart. Non lontani da Camembert Electrique, in questo denotando una certa difficoltà nel passare alle nuove sonorità, anche nell’integrare meglio gli ultimi arrivati come Hillage e Tim Blake, ovviamente ancora troppo nuovi per poter essersi inseriti pienamente.

Il secondo brano, The Octave Doctors & The Crystal Machine, è interamente suonato dal VCS3 di Blake, una sorta di brano ambient non lontano da certe atmosfere del Third dei Soft Machine.
Con Zero The Hero And The Witch’s Spell torniamo alle fughe strumentali, alla psichedelia dilatata, alla piena integrazione e sviluppo dei brani di Allen con le elaborazioni e gli inserimenti strumentali che trasportano l’ascoltatore in dimensioni differenti, tra etnicismi e soffi spaziali, improvvisazioni alternate a inserti cantati e sussurrati, pastiche e ipnotismi, riff e ostinati, assoli e caos organizzati. Da notare la forte somiglianza della parte inziale con Welcome To The Machine dei Pink Floyd di Wish You Were Here, pubblicato due anni dopo.
Il finale, Witch’s Song, I’m Your Pussy, a firma Smyth e Allen è affidato al canto sinuoso e improvvisamente delirante di Gilli che riporta le sonorità ai primi tempi del duo Gong, tra Barrett e Beefheart, accompagnati dal fido Malherbe.


Il primo atto della trilogia si conclude quindi con un lavoro in parte ancora acerbo, diviso com’è tra la vecchia formula tutta bizzarria e nonsense del primo periodo e l’evoluzione verso fughe strumentali e dilatazioni cosmiche già in parte definite. La parte testuale, che in questo caso, come anche nei precedenti lavori, riveste un ruolo importante la analizzeremo successivamente, cercando di definire in modo unitario la/le storia/storie del pianeta Gong attraverso l’intera trilogia.

Come abbiamo visto, le registrazioni di Flying Teapot hanno portato all’implosione del gruppo. Bob Bènamou, il loro manager, dopo tre anni al servizio della band e una grossa quantità di tempo e soldi spesi per lanciare il gruppo, decide di lasciare. Moze, Tritsch, Allan, Houari abbandonano i Gong, e persino Daevid e Gilli decidono di prendersi una delle loro ricorrenti pause tornandosene alle Baleari e occupandosi solo del missaggio del disco. 
A questo punto, di concerto con Gomelski, Didier Malherbe si incarica di continuare l’attività del gruppo sotto un nuovo nome, ParaGong, e di amalgamare i nuovi arrivati Blake e Hillage. Per una serie di circostanze particolari, amici comuni e voglia di mettersi alla prova con un gruppo rock, Pierre Moerlen diventa  il nuovo batterista. Percussionista, vibrafonista, batterista e compositore, Moerlen ha studiato al conservatorio di Strasburgo e ha fatto parte dell’ensemble Les Percussions Des Strasbourg, collaborando inoltre con piccoli gruppi di jazz rock come Hasm Congelateur in compagnia del futuro chitarrista dei Magma Gabriel Federow
All’inizio alquanto indeciso se intraprendere una carriera da percussionista classico o dare seguito alla sua passione per il rock, Moerlen, nonostante la crisi nella quale si dibatte il gruppo, accetta l’invito di partecipare a questo esperimento chiamato ParaGong, in compagnia di Malherbe, Blake, Hillage e del nuovo bassista Didier Thibault, ex Moving Gelatine Plates, gruppo alla Soft Machine, suggerito da Gomelski come sostituto di Francis Moze.


L’attività dei Paragong, fino a fine aprile, sarà inaspettatamente fondamentale per il futuro dei Gong. Lontani dai tormenti creativi di Allen e Smyth, e finalmente stabilizzatisi con una formazione di assoluto valore, i cinque musicisti avranno tutto il tempo di perfezionare la loro intesa, provare i nuovi brani e affinare i live. 
Per Tim Blake in realtà l’esperienza non fu così positiva, con difficoltà a suonare il repertorio dei due dischi sin lì registrati, Camembert Electrique e Flying Teapot, e la mancanza di tempo per comporre nuovi brani. Ma in realtà questa parentesi effettivamente contribuì a costruire in modo definitivo il gruppo Gong e la sua  nuova architettura sonora che poi sarà quella classica al quale sia i fans che i musicisti stessi  faranno riferimento. Resta ancora il tempo per un ulteriore cambio di formazione, con l’arrivo al posto di Thibault, del bassista Mike Howlett, ascoltato a Londra da Allen, e scelto proprio dall’australiano per sostituire Didier Thibault. All’inizio il background funky rock del nuovo bassista si scontra con l’impostazione classica e precisa di Moerlen,  “ma alla fine siamo riusciti a trovare un buon equilibrio tra cuore e cervello, tra emozione e tecnica”, dirà poi Mike.

All’inizio di maggio Daevid e Gilli tornano dalle Baleari e trovano un gruppo ben affiatato, con un suono preciso e anche una serie di nuove idee. Nei concerti live di ParaGong la scaletta era formata da alcune vecchie composizioni, per esempio Why Are We Sleeping di Kevin Ayers o una rielaborazione di Fohat Digs Holes In Space, da Camembert Electrique, ma anche da nuovi brani che poi, con i contributi di Allen e Smyth, faranno parte del secondo lavoro della trilogia: I Never Glid Before, Sold To The Highest Buddha, The Other Side Of The Sky. Secondo Tim Blake a questa lista andrebbero aggiunti anche Inner Temple/Outer Temple e Oily Way. Un bel cd uscito per la GAS nel 1995 testimonia questo breve ma importante periodo dell’attività di ParaGong, Live 73.


Da maggio agli inizi di agosto la nuova formazione a sette dei Gong è impegnata nel tour promozionale di Flying Teapot, con concerti memorabili, brevi set organizzati dall’etichetta Virgin e live divisi a metà con il gruppo tedesco Faust. Dal 3 al 16 agosto presso il Pavillon du Hay, a Voisinesin Francia, la residenza collettiva dei Gong, grazie al Mobile Manor, il nuovissimo studio mobile della Virgin, vengono effettuate le sessioni di registrazione per il nuovo disco.  Mike Howlett, il nuovo bassista, racconta che venne registrata la sezione ritmica, cioè lui, Hillage e Moerlen, al piano terra, nella sala prove, Daevid Allen era invece nel piano di sopra, la sala meditazione, mentre Gilli, Malherbe e Tim Blake erano collocati in diversi punti della foresta circostante. 

Prima session dello studio Mobile Manor e tra i primi lavori in Europa ad essere registrati con un 24 piste, la registrazione fu condotta questa volta con assoluta efficacia da Simon Heyworth, coadiuvato da Daevid Allen. Su disco viene accreditato in qualità di produttore Giorgio Gomelski, ma secondo Mike quest’ultimo si presentò solo durante il missaggio, iniziato il 18 settembre 1973 al Manor. In realtà i produttori furono effettivamente Simon e Daevid, come confermò successivamente lo stesso Gomelski: “il rapporto molto efficace tra Simon e Daevid mi spinse a lasciare la produzione nelle mani di Simon”.

pop

martedì 25 febbraio 2020

Radio Gnome Invisible. La Trilogia del Pianeta Gong. Parte 1

Questa è la prima parte del lungo articolo che la rivista Prog Italia Magazine ha pubblicato nel numero 26, corredato di bellissime foto e di una pagina, non presente su questo blog, che annunciava l'uscita dello splendido cofanetto Love From Planet Gong: The Virgin Years 1973-1975, curato da Steve Hillage e comprendente ben 13 cd e un libretto di 63 pagine. Potete immaginare che solo questo cofanetto esiga un ampio e articolato commento a parte, che prima o poi farò. Nel frattempo qui sono raccontate le vicende e le musiche dei Gong nel loro momento migliore: gli anni della creazione della splendida trilogia, Radio Gnome Invisible,  e di un immaginario musicale fantastico, affascinante e coinvolgente.


Radio Gnome Invisible

Nell’agosto del 1967 i Soft Machine, reduci da una serie di concerti in Costa Azzurra, decidono di posticipare un loro già programmato concerto ad Amsterdam e continuare per alcuni giorni la loro permanenza in Francia. Il 24 dello stesso mese si recano al porto di Dover per fare finalmente rientro in Gran Bretagna e lì la polizia doganale, dopo controlli approfonditi, scopre che Daevid Allen ha il permesso  per risiedere e lavorare in Inghilterra scaduto. Il resto del gruppo parte mentre Allen non può far altro che rimanere in Francia e dirigersi verso Parigi, dove verrà poi raggiunto da Gilli Smyth.


Questo banale imprevisto, con un pesante intervento del fato che a Daevid sicuramente non sarà passato inosservato, in realtà ha determinato in modo significativo le vicende musicali di due fra i più importanti gruppi della storia del rock: Soft Machine e Gong. E’ proprio grazie all’impossibilità di tornare in Gran Bretagna che Daevid Allen si stabilisce a Parigi e, tra le innumerevoli attività che intraprende e i tanti avvenimenti, non ultimo il ’68 francese, che lo vedono protagonista, con insolita preveggenza mette in piedi quello che all’inizio altro non era che un collettivo dal nome Gong.

Mentre i Soft Machine continuano in trio e vanno in tour negli USA di spalla a Jimi Hendrix, Daevid Allen, insieme a Gilli Smyth, sembra barcollare tra progetti più o meno stabili, concerti importanti come quello di Stoccolma con Don Cherry, rimpatriate con Kevin Ayers e i Softs, collaborazioni saltuarie e serate soliste nei bar della Rive Gauche. In realtà la sigla Gong comincia subito a circolare negli ambienti parigini, all’inizio solo come duo con Gilli, poi radunando intorno a sé altri musicisti, “about eight of the maddest musicians imaginable” come dirà poi Daevid e incontrando immediatamente i favori del pubblico e della critica. Accanto alla sigla Gong Allen organizza ( non propriamente la parola più adatta per un tipo come l’australiano) un altro ensemble, Bananamoon, che registrerà del materiale poi pubblicato solo nel 1993.

Intorno al 1969 il progetto Gong inizia a stabilizzarsi con l’arrivo del sassofonista e flautista Didier Malherbe, il chitarrista e bassista Christian Tritsch e il batterista Rachid Houari,  questi ultimi due entrambi insoddisfatti delle loro carriere al fianco di star francesi come Johnny Hallyday e Claude Francois. Questo nucleo, escluso Tritsch,  registra il primo disco dei Gong, Magick Brother, anche se effettivamente il lavoro è intestato a Daevid Allen e Gilli Smyth. Come dirà Didier Malherbe, “era un album di Daevid, delle sue canzoni, non proprio un album dei Gong”.  


Insieme ad Allen, Smyth, Malherbe e Houari ci sono una serie di ospiti come Barre Philips al contrabbasso e Earl Freeman sempre al contrabbasso e al piano, entrambi esponenti dell’area free jazz, musicisti abituati all’improvvisazione sia libera che più propriamente jazzistica e con collaborazioni di tutto rilievo come Archie Shepp per quanto riguarda Freeman. Il disco esce per la BYG di Jean Karakos, etichetta che pubblicherà anche i lavori, tra gli altri,  dell’ Art Ensemble Of Chicago, Sun Ra, Steve Lacy

Il lavoro è una sorta di pastiche psichedelico, dalle parti di Syd Barrett e Kevin Ayers,  folk e pop dalla strumentazione scarna, filastrocche, scherzi musicali e prodromi futuri del pianeta Gong, soprattutto verso la fine del disco.
Decisamente più significativo è il successivo Camembert Electrique, vero e proprio primo lavoro del gruppo Gong. La formazione, rispetto a Magick Brother, vede al posto di Richard Houari Pip Pyle, batterista che sarà fondamentale per la scena di Canterbury (Hatfield And The North e National Health), presentato ad Allen da Robert Wyatt, Christian Tritsch al basso e il nucleo fondamentale dei Gong, Daevid Allen alla voce e alla sua glissando guitar, Gilli Smyth al soffio spaziale e Didier Malherbe ai fiati.


Pubblicato all’inizio solo in Francia sempre dalla BYG nel 1971, Camembert Electrique è disco compiuto, ben suonato, con dei brani che faranno parte del classico repertorio live del gruppo e intriso di glissandi, soffi, stranezze zappiane e un’incredibile energia. L’estetica gonghiana inizia a prendere forma, con passaggi psichedelici uniti a loop e bizzarrie cosmiche. Anche per quanto riguarda i testi iniziano ad emergere gli elementi portanti che saranno poi definitivamente sviluppati nella trilogia. 
Ultima annotazione: il 1971 vede anche la pubblicazione del disco solista di Daevid Allen, Banana Moon, con Robert Wyatt alla batteria, e altri strani progetti che vedono coinvolti i Gong, dalla colonna sonora per un documentario su due campioni di motociclismo, Giacomo Agostini e il suo rivale francese Jack Findlay, alla collaborazione con il regista cinematografico Martial Raysse per il suo film Le Grand Depart.


Ed arriviamo finalmente alla nostra trilogia.
Dopo la pubblicazione di Camembert Electrique i Gong intraprendono una serie di concerti, coadiuvati in questo dal  loro manager Bob Bènamou e dalla super visione di Giorgio Gomelsky, figura centrale dell’underground inglese. 
Ma Allen non è certo tipo da normale carriera musicale e quindi, tra continui cambiamenti di formazione e difficoltà gestionali, a metà agosto 1972 decide di interrompere brevemente l’avventura Gong per concentrarsi sulla vita familiare e sulla poesia. Bènamou cerca di persuadere Allen nel continuare, anche con nuovi musicisti e con un progetto suggeritogli da Gomelsky, una trilogia che lo stesso Gomelsky già aveva proposto al gruppo rock progressive francese Magma. Allen è incuriosito e ben disposto, decide quindi di iniziare a lavorare su questa proposta durante il suo soggiorno estivo a Deja (Isole Baleari), usuale ritrovo hippie frequentato anche da Wyatt, Ayers e altri musicisti. 
A settembre Daevid si reca in Inghilterra a visitare il nuovo studio di registrazione della neonata casa discografica Virgin di Richard Branson, il Manor , allestito in un maniero a nord di Oxford. 


Qui iniziano anche le audizioni per cercare una nuova sezione ritmica per il gruppo, che aveva visto avvicendarsi alla batteria Pip Pyle, Laurie AllanMac Poole (ex Warhorse) e Charles Hayward (ex Quiet Sun). La scelta cade su Rob Tait, ex batterista di Pete Brown, con la sua compagna Diane Stewart-Bond alla voce e alle percussioni. 
Per il ruolo di bassista Wyatt, presente alle audizioni, suggerisce l’ex Matching Mole Bill MacCormick, il quale dopo pochi giorni in Francia decide di lasciare. A quel punto Gomelski, in qualità di produttore del nuovo lavoro dei Gong, propone ad Allen Francis Moze, bassista del gruppo progressive francese Magma, con il quale avevano in passato diviso il palco. 
Per Gomelski il problema principale del gruppo era proprio la sezione ritmica, spesso instabile e non in grado di far decollare in modo significativo le composizioni di Allen. La sicurezza e la precisione di Moze avrebbero dato una base stabile e compatta al nuovo lavoro dei Gong.


Allen da parte sua decide di includere nel progetto Tim Blake, in passato roadie e collaboratore del gruppo, che si stava specializzando nell’uso del sintetizzatore. Aveva partecipato ad alcune performance del gruppo Musica Elettronica Viva e poi aveva sviluppato un suo progetto solista, Crystal Machine, proprio intorno all’utilizzo del synth. 
Inoltre nel dicembre del 1972 i Gong si recano a Fontainebleu a vedere il concerto del loro amico Kevin Ayers e del suo gruppo Decadence, nelle fila del quale è presente un chitarrista che Malherbe con Allen decideranno immediatamente di coinvolgere nelle registrazioni del nuovo disco: Steve Hillage.
Prima delle sedute di registrazione ancora una volta la sezione ritmica subisce l’ennesimo cambio, con l’abbandono di Tait e il ritorno di Laurie Allan alla batteria e Rachid Houari alle percussioni.
Le registrazioni avvengo in un clima difficile, teso, con Francis Moze che cerca di imporsi come direttore musicale del gruppo e il rapporto tra Tritsch e Allen sulla via della rottura, che poi effettivamente avverrà. 
Inoltre il tecnico del suono Simon Heyworth è in evidente difficoltà nel padroneggiare le attrezzature del nuovo studio e questo aumenta le tensioni e il nervosismo, con dimissioni e abbandoni a catena: il manager Bob Bènamou, Christian Tritsch, Francis Moze, Laurie Allan, Rachid Houari, e alla fine persino Daevid e Gilli. Ad aggiungere un elemento ancor più bizzarro c’è anche la cacciata dallo studio di un certo Mike Oldfield che era lì per registrare Tubolar Bells ma in quel momento i Gong avevano la precedenza in quanto clienti “paganti”!


Fin qui le vicende, per così dire di cronaca, che portano al primo lavoro della trilogia Radio Gnome Invisible, Flying Teapot. Soffermiamoci un attimo sulla composizione del gruppo e sul deciso, anche se non pienamente definito, cambio di estetica musicale che avviene con le registrazioni di questo nuovo lavoro.
Il primo nucleo dei Gong è caratterizzato musicalmente da tre elementi.
Le composizioni alquanto originali di Allen, ricche di cromatismi e nonsense musicali e testuali, figlie della psichedelia anni ’60 così come della sperimentazione, vicine a Zappa e Beefheart, il tutto colorato dalla sua glissando guitar, mutuata da Syd Barrett.
Il sassofono e il flauto di Didier Malherbe, non propriamente un jazzista ma un estimatore delle sonorità etniche, abile nel tematizzare e ricamare le strambe melodie di Allen.
Il soffio spaziale di Gilli Smyth, che fluttua attraverso le note dei Gong e ne definisce una sonorità eterea, cosmica.  
Il nuovo corso gonghiano, che possiamo già ascoltare in grossa parte su Flying Teapot, presenta alcune consistenti novità: innanzitutto il suono del synth VCS3 di Tim Blake che dà profondità, rafforza la componente spaziale (lo space rock tante volte evocato proprio per definire la musica dei Gong) e ammanta di fascino e mistero la musica del gruppo, in questo ricollegandosi in parte, e lo vedremo in dettaglio, ai Pink Floyd degli anni ’70.


Ancora non pienamente sfruttata, anzi decisamente sottoutilizzata in Flying Teapot, la chitarra di Steve Hillage. Probabilmente a causa della presenza nel gruppo di Christian Tritsch, il solismo così evocativo e sognante di Hillage, che sarà fondamentale nei capitoli successivi,  qui ancora non è presente, limitandosi a brevi apparizioni, perlopiù nascosto o immerso nel magma sonoro.  
La sezione ritmica inizia ad avere una sua stabilità e a sostenere quelle fughe strumentali che, seppur poco presenti in questo lavoro, già iniziano ad avere la loro importanza nell’estetica del gruppo.  


pop

mercoledì 18 settembre 2019

Ancora su scrittura e improvvisazione

Tornando ai collegamenti tra scrittura e musica vorrei soffermarmi ancora sull'argomento "indispensabile". Parlando di Bailey e Coe e del loro disco Time, ho fatto riferimento a delle frasi di Raymond Carver (Tempo. O dell'indispensabile!) perché la musica di quel duo sembra contenere quell'essenzialità, quella capacità di arrivare dritti al punto propria dello scrittore americano. Nulla è superfluo, ogni nota e ogni parola servono per costruire il racconto, musicale o letterario che sia.
Ma è l'unica modalità questa? Cioè siamo obbligati, al fine di raggiungere l'obiettivo, ad essere essenziali, avari di effetti? Di limitare la nostra azione all'indispensabile, di dosare con cura gli elementi a nostra disposizione per costruire una narrazione perfetta?


Prendiamo Philip Roth. Al di là del fatto che Carver scriva racconti e quindi, probabilmente, il format costringa l'autore alla stringatezza, la scrittura di Roth è per certi versi agli antipodi. 
In Pastorale Americana, in uno dei momenti più intensi del libro, lo scrittore di Newark riesce a prendere tempo descrivendo con cura il plastico in miniatura della nuova casa dello Svedese e di sua moglie, come se volesse ritardare volutamente il culmine, lo zenit della narrazione, posticipando la risoluzione in un continuo alternarsi di sottodominanti e dominanti che non risolvono, per usare un linguaggio musicale. 
In realtà Roth sembra utilizzare il fiume di eventi, descrizioni, deviazioni, per immergerci nel racconto, in un mondo che è proprio costruito attraverso un alto numero di percorsi, quasi a farci perdere la ragione. Immissione di una quantità di elementi che elaborano, chi in maniera decisiva chi secondariamente, la narrazione come fosse una sorta di uragano che ci prende e ci trasporta altrove. 
Ovviamente il trovarsi di fronte un romanzo o un racconto, ripeto, incide alquanto nella costruzione del linguaggio. Ma non è solo questo. E' proprio un approccio differente che prescinde dal formato. Questa modalità ha, come ulteriore caratteristica, quella di portare il lettore, o l'ascoltatore, in un continuo saliscendi di emozioni, come se non ci fosse un obiettivo finale ma un continuo, per l'appunto, alternarsi di tensioni senza soluzione di continuità. Laddove invece l'approccio "essenzialista" punta a crescendi con inaspettate risoluzioni, lasciando da parte gli orpelli e le divagazioni per puntare dritto al finale, alla catarsi.
Come tradurre tutto ciò in musica? Come riuscire a improvvisare costruendo una narrazione fatta di continui rimandi, divagazioni, tensioni e mancate risoluzioni?
In realtà sembra molto più facile questo approccio che l'altro. Siamo, di solito, portati a suonare molto, e ci riesce complicato fermarci, ascoltare gli altri, stringere all'essenziale. Ma la quantità di note non è automaticamente sinonimo di ampia costruzione, di racconto elaborato e ricco di percorsi. Anzi. Spesso produciamo solo confusione o indeterminatezza.
Un musicista che sembra essere una sorta di alter ego dello scrittore Philip Roth, almeno per quanto mi riguarda, è Lee Konitz.


L'accostamento può risultare ardito a prima vista, ma tutto sommato non penso sia così lontano dalla realtà. Non voglio solo fare riferimento alla comune origine ebraica, alla capacità e alle risorse che questa cultura possiede in fatto di narrazione e racconto. Nel caso dello scrittore americano questo retaggio è ben presente nelle sue opere, mentre Konitz non ha mai dato troppo peso a questa dimensione culturale (Andy Hamilton, Lee Konitz. Conversazioni sull'arte dell'improvvisatore, EDT, Torino, 2010). Eppure i due possiedono realmente quell'arte di raccontare le storie che rimanda alla millenaria cultura ebraica. Nel loro specifico campo costruiscono personaggi che intrecciano le loro vicende in un fluire narrativo avvincente. E mentre per Roth tutto ciò sembra in parte scontato, essendo uno scrittore, questo vale anche per Konitz. In Motion, uno dei suoi capolavori,  pubblicato dalla Verve nel 1961 e registrato con Elvin Jones alla batteria e Sonny Dallas al contrabbasso, il sassofonista delinea storie che contengono al proprio interno diverse trame, protagonisti e controsoggetti  che trasportano l'ascoltatore nel racconto. Lo fa con una musicalità descrittiva, senza il furore e la drammaticità dei musicisti afroamericani, ma nondimeno narra, crea short stories intricate, fitte di eventi e personaggi che fluiscono dentro le improvvisazioni.  Possiamo sederci all'ascolto di Motion come se stessimo leggendo un libro, pronti ad essere trascinati in avventure raccontate con passione e maestria, attraversati, talvolta, da un profondo senso di dolore subito stemperato dall'estro e dall'ironia. Trame millenarie che viaggiano nel tempo.

pop

venerdì 26 luglio 2019

Captain Capricorn

Lunga assenza di post dovuta alla scrittura di un corposo articolo su Radio Gnome Invisible, la trilogia dei Gong. Uscirà, spero, a settembre. Ma l'ascolto prolungato e le ricerche intraprese per l'elaborazione di questo scritto mi hanno portato ad alcune considerazioni.


Primo. Daevid Allen si conferma, forse suo malgrado, come la constatazione che spesso e volentieri la tecnica, se non accompagnata dalla creatività e dall'intelligenza, serve a molto poco in musica...e non solo. Tutta la carriera dell'australiano è connotata da una grande voglia di comunicazione, sensoriale ed extrasensoriale, una inesauribile forza creativa che trascende la tecnica musicale e riesce ad esprimere contenuti alti e altri al di là delle mere competenze tecniche. Certo, ha bisogno di avere intorno a se abili musicisti, ma cos'è la musica se non condivisione di idee e sentimenti, un'arte che quasi necessariamente si esprime in modo collettivo, presupponendo la presenza di sodali che partecipano alla creazione. E' solo dopo aver percorso questo processo che talvolta, non spesso, spunta fuori l'esigenza della creazione in solitudine.


Secondo. L'esperienza Gong, soprattutto nella trilogia, è qualcosa di particolare, unico per certi versi. Continui cambi di formazione, assenze del leader, conduzione collettiva e temporanee direzioni singole, tutto questo ha prodotto del materiale musicale di elevata qualità. Un mix di rock, jazz, musica etnica, psichedelia, sperimentalismo, Kosmische Musik, Terry Riley, tutto frullato insieme e offerto in una dimensione anche spirituale e fantastica, non solo come mero prodotto musicale.


Terzo. Uno dei rari esempi di non attaccamento alla fama, alla ricchezza, allo star system. Come per i Soft Machine, siamo in presenza di percorsi musicali che continuano con la stessa sigla ma senza i loro fondatori e leader. Anzi, essi stessi lasciano volentieri in altre mani ciò che loro hanno costruito nel corso degli anni. Come a dire basta, sono stanco ed è giusto che continuiate voi, se ne avete la forza e se le nostre idee non concordano più.
Quarto. Le avventure musicali di Allen andrebbero studiate in modo approfondito perché ancora ricche di spunti e di ispirazioni che farebbero la fortuna di molti musicisti. L'assenza di barriere stilistiche, un discorso complessivo riguardo i contenuti musicali e testuali che vanno da scenari fantasy a elementi ironici e nonsense, a riflessioni più profonde, spirituali e filosofiche. 
Quinto. Molto di quanto scritto ricorda le esperienze e la musica di un altro capitano, anch'esso "strano" e bizzarro, forse leggermente più ossessivo e inquieto di Daevid Allen: Captain Beefheart. E prossimamente vedremo di ragionarci sopra.


Daevid Allen, Melbourne 13 gennaio 1938 - Byron Bay 13 marzo 2015
Captain Beefheart (Don Van Vliet), Glendale 15 gennaio 1941 - Arcata 17 dicembra 2010


pop

lunedì 13 maggio 2019

Fusion/Thesis. L'arte del trio 2

FUSION/THESIS

Il personaggio è abbastanza particolare, tanto da meritare certamente più attenzione di quanta gliene sia stata data dalla storiografia jazzistica. Nato nel 1921 in Texas, a metà dagli anni ’50 Jimmy Giuffre è un tipico esponente della scena west coast, conosciuto non solo come sassofonista e clarinettista ma anche come ottimo arrangiatore e compositore; è lui infatti che scrive ed arrangia uno dei maggiori successi dell’orchestra di Woody Herman, Four Brothers, del 1947. Ma, contrariamente ad alcuni suoi colleghi come Gerry Mulligan, Stan Getz o Dave Brubeck, si allontana pian piano dai riflettori, dal successo commerciale preferendo sperimentare nuove soluzioni e sonorità. 


Ispirato dalla Sonata per flauto, viola e arpa di Debussy e con l’idea di sviluppare così ulteriormente il suo approccio contrappuntistico Jimmy Giuffre forma un trio drumless con Jim Hall alla chitarra e Ralph Pena al contrabbasso (più tardi al posto di Pena subentrerà Bob Brookmeyer al trombone a pistoni!). A questo aggiunge un lento abbandono del sax per suonare quasi esclusivamente il clarinetto, scelta decisamente controcorrente. 

Le sonorità del nuovo progetto di Giuffre sembrano condividere i parametri dell’estetica cool ma in realtà c’è qualcosa che lascia intravedere gli sviluppi futuri. Innanzitutto la scelta di non avere batteria: lo swing non sembra affatto risentirne ma è sempre presente sottotraccia, permettendo una maggiore libertà nelle improvvisazioni e lasciando emergere un forte interplay tra i tre musicisti che iniziano ad eludere i confini tra tema e improvvisazione. Il “blues-based folk jazz” di Jimmy Giuffre è alla ricerca di un’intensità e di un feeling che solo le atmosfere morbide e le sonorità contenute possono far emergere, lontano dalle grida e dal volume alto della maggior parte dei gruppi jazz dell’epoca. 

Nel 1957 si sposta a New York, e qui nuovi stimoli portano Giuffre lontano dai suoni west coast e vicini alla nuova scena free che sta emergendo sul finire dei ’50 inizi ’60 proprio nella Grande Mela. Il trio rimane la formazione ideale per Giuffre, ma cambiano questa volta i musicisti; Paul Bley al piano e Steve Swallow al contrabbasso. Nel 1961, a marzo e ad agosto, il nuovo trio registra due album per la Verve (poi ristampati in un doppio cd dalla ECM nel 1992): Fusion e Thesis.




La Fusione di Jimmy Giuffre è un materiale sonoro liquido ma non informe, composito ma fluido, ricco di stimoli e di suggestioni. Le dissonanze sono immediatamente stemperate da continue consonanze, il semplice sembra tramutarsi in complicato e viceversa. C’è una libera ricerca di nuove forme e le tonalità vengono in parte abbandonate per poi essere riprese. Questo disco sembra essere un’alternativa alla bollente energia dell’hard bop così come alle rivolte musicali e socio-culturali del free. Ma non lo è perché non si contrappone ad essi bensì ne rielabora alcune tematiche e ne sussurra nuovi aspetti. È fondamentale, come in passato, l’interplay fra i tre musicisti; piano e contrabbasso sembrano fondersi con quel suono così delicato eppur anomalo, sfuggente, alieno in certi casi, del clarinetto. Coraggiosa e vincente è la scelta stilistica di Giuffre; rinunciare in pieno alla tradizione virtuosistica dello strumento per costruire un proprio linguaggio innovativo che faccia respirare e parlare il clarinetto insieme agli altri strumenti, che lo faccia vibrare sommessamente senza dover per forza urlare. In Fusion c’è un dialogo pacato tra i musicisti che porta il trio ad improvvisare in una continua ricerca tematica, portando alla luce il blues del Texas come la Third Stream, il free come il Modern Jazz Quartet. Il volume basso, il suono soffice, il soffio permettono all’ascoltatore di percepire continuamente nuove suggestioni, richiami, visioni. 

Thesis, registrato qualche mese dopo, è diverso. Ma è una diversità insita in Fusion, non se ne percepisce al primo ascolto il carattere programmatico. Dove Fusion era materiale liquido Thesis sembra offrire rivoli solidi, spunti programmatici solitari inseriti in discorso complesso, vicino alla musica “colta”. Dove in Fusion c’era suono comune qui spesso gli strumenti appaiono isolati tra loro, intenti a elaborare i loro assunti, forti della precedente compattezza, della loro raggiunta fusione. Lo stesso clarinetto di Giuffre suona leggermente più alto, su registri acuti. Le composizioni sono più angolose, aggressive, libere da tonalità. Dopo essere riusciti a fondere i loro suoni, i tre musicisti manifestano la volontà di enunciare le loro idee uscendo dal materiale fuso e spargendo note e suoni nell’aria. Il tutto sempre in maniera sommessa, quasi a non voler disturbare troppo, come se fossero di lato rispetto al fluire degli eventi. 



Sarebbe finita qui se uno non considerasse il terzo capitolo della saga, Free Fall. Sempre lo stesso trio, qualche mese dopo Thesis e un tour in Europa. E può benissimo dirsi l’esplosione di un gruppo, di un’idea; lo scioglimento dei suoni nella libera improvvisazione quale naturale approdo dell’intero percorso artistico di Giuffre. Una sonorità ostica e sfrangiata, un oltrepassare i limiti e lanciarsi nel precipizio dell’ignoto. Il trio che ha fuso le sue molteplici influenze e ha teorizzato nuovi assunti, con Free Fall mostra la dissoluzione del tutto, una libertà angosciante, che sa di fine della storia. 

“Ci disperdemmo una notte in cui guadagnammo 35 centesimi ognuno”. Steve Swallow  

 




pop

lunedì 29 aprile 2019

Musica 80

Tra le tante riviste musicali uscite negli ultimi 40 anni ce n'è una che è realmente passata sotto silenzio, subendo l'onta della scomparsa dai ricordi degli appassionati. 



Musica 80, questo è il nome del mensile che durò poco più di un anno, dal febbraio 1980 all'aprile dell'81. Un'intervista a John Lydon, un servizio di 8 pagine sull'Improvisers Symposium tenutosi a Pisa con interventi di  Derek Bailey, Paul Lovens e Barry Guy tra gli altri, i testi tradotti in italiano del primo disco degli X di Los Angeles, un articolo sui Throbbing Gristle con intervista a Genesis P. Orridge... questi erano i contenuti di uno dei primi numeri della rivista. Letti oggi sembrano fantascienza, o un sogno destinato ad esaurirsi velocemente. Eppure questa rivista è uscita nelle edicole, anche se non per molto.


Non voglio fare il retromane, oppure rimpiangere i bei tempi passati ma riflettere brevemente sul significato di tale esperienza, vissuta peraltro da semplice lettore. 
E' chiaro che i tempi sono radicalmente cambiati e con internet il ruolo della stampa è mutato, ma ritengo abbia ancora un'importanza vitale per l'informazione e, soprattutto, la controinformazione. Devo dire che sfogliando in questi giorni Musica 80 mi sembra risenta poco del tempo passato, anzi penso che tuttora potrebbe essere benissimo in grado di lasciarsi leggere con curiosità e interesse. Perché?
Alcune questioni mi sembrano fondamentali: l'approfondimento, la riflessione, la lettura di vicende da punti di visti inusuali e/o alternativi, l'interrogazione di avvenimenti sotto diverse chiavi di lettura. Sono elementi che hanno una validità ancor più pronunciata in questi tempi, dove la capacità di attenzione è nettamente diminuita. E, a differenza delle tante fonti che ci balzano agli occhi durante le nostre ricerche, possiedono un filtro e una autorevolezza che è data dalla rivista stessa, dai suoi redattori e collaboratori. 
L'altro aspetto importante è la ricerca a tutto campo, l'investigazione che non conosce barriere e stili, scene o generi prestabiliti. Un indagine che rimescola e produce informazione profonda, a volte anche scanzonata, che non vive sulle scelte stilistiche ovvie e scontate ma approfondisce e scava dentro e fuori le etichette. 
La rivista riuscì a cogliere gli stimoli nuovi che provenivano dal post punk e dalla new wave e a coniugarli con le aree sperimentali e di ricerca, con la scena impro e persino con le storie classiche del rock. Il tutto senza pregiudizi e cercando di stimolare la curiosità del lettore, di indurlo a sperimentare egli stesso un ascolto differente.
Al di là di qualche ingenuità o di articoli non sempre così ben calibrati, Musica 80 aveva anche quell'attenzione all'aspetto grafico che di lì a poco sarebbe diventato così importante, spesso a scapito dei contenuti.  
Ma alla fine durò poco, e bisognerebbe interrogarci anche sul perché questo esperimento ebbe vita breve. Una motivazione può essere proprio la scaltrezza e la difficoltà ad essere inserita in un genere preciso. Non propriamente e solamente rock, né jazz, né folk, né punk.
Insomma, quello che pensiamo sia un punto di forza probabilmente è la principale ragione della sua fine, soprattutto in presenza di un mercato che vuole certezze e scelte di campo. Una platea che corre al riparo di confini estetici ed è spaventata dalle sfumature o dai rumori di fondo, dalle eresie e dalle devianze. 
Anche l'eccessivo intellettualismo, soprattutto in un periodo come quello degli inizi 80, può aver determinato in maniera significativa la fine precoce della rivista. 
In ogni caso non sarebbe male condurre una ricerca sulla storia delle riviste musicali in Italia, provando a tratteggiare attraverso di esse le vicende, gli usi e costumi dei giovani nella storia italiana dal dopoguerra ad oggi. Soprattutto perché alcuni elementi che hanno determinato la crisi e la fine di alcune prestigiose riviste, tra le quali appunto Musica 80, sembrano comunque persistere e anzi accentuarsi sempre più.
Ma probabilmente già è stata fatta....o no?


pop

martedì 23 aprile 2019

L’arte del trio

Ci sono alcuni elementi significativi che accomunano le uscite discografiche del trio di Andrew Cyrille, con Wadada Leo Smith alla tromba e Bill Frisell alla chitarra,  e quello di David Torn,  con Tim Berne al sax e Ches Smith alla batteria e all'elettronica. Non è solo la formazione, due trii con batteria, chitarra elettrica e strumento fiato, né la stessa etichetta discografica, la ECM, che in ogni caso determina un certo tipo di suono. No, è qualcosa di più profondo, intenso e allo stesso tempo luminoso, che Lebroba e Sun Of Goldfinger condividono.


Le due formazioni, pur avendo delle importanti differenze stilistiche, elaborano un procedimento compositivo esteso, largo, quasi fossimo in presenza di composizioni classiche, con un intento non lontano dalla sinfonia, soprattutto per quanto riguarda il trio di David Torn. Ma è nella capacità di evocare suggestioni paesaggistiche, nel delineare ambienti sonori coinvolgenti e intriganti che i due trii raggiungono l’eccellenza, ciascuno nel proprio ambito.
 Il terzetto di Cyrille sembra sognare gli spazi aperti della frontiera, una sorta di Ry Cooder trasformato ed evoluto, dove il groove  è completamente immaginato e il dialogo continuo tra i musicisti allunga lo sguardo sempre più lontano, lì dove non vi sono confini, sempre agganciati ad una tradizione blues resa elegante dalla chitarra di Frisell.
Il trio di Torn è invece immerso nella metropoli distopica, un Bitches Brew allucinato e inquietante, con crescendi angosciosi e improvvise quieti. I tre strumenti, coadiuvati dall’elettronica e, in Spartan, Before It Hit dai chitarristi Ryan Ferreira e Mike Bagetta, dal tastierista Craig Taborn e persino da un quartetto d'archi, conducono l’ascoltatore in un mondo altro, destrutturato e spigoloso.



I due dischi lavorano sul concetto di composizione in un modo  esemplare e per certi versi simile. Improvvisazione e scrittura sono continuamente alternati e inglobati all'interno di brani elastici, continuamente in movimento, come stormi di uccelli che si addensano e si rarefanno senza un ordine evidente ma con una loro inequivocabile forma. Spazi, silenzi, sferzate rock e sinuose ed ipnotiche improvvisazioni si delineano con chiarezza e originalità.
L’assoluto livello di sintonia, espressività e innovazione sembra proprio risiedere nella formazione del trio, atipica e allo stesso tempo unica e ineccepibile, che racchiude in sé ogni ambito possibile di suono e melodia e ne moltiplica gli effetti come onde che si propagano dal centro verso gli esterni. È musica, ottima, del presente ma con indubbi e illuminanti segnali verso/per il futuro.

pop 

Recensioni. Kevin Ayers and The Whole World "Shooting at the Moon"

  Kevin Ayers And The Whole World SHOOTING AT THE MOON Harvest 1970 Il secondo album solista di Kevin Ayers vede al suo fianco, al co...