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venerdì 9 agosto 2019

Tempo. O dell'indispensabile! Derek Bailey e Tony Coe.

"L'economia e la precisione, la ricerca del dettaglio significativo, insieme a un senso di mistero, di eventi che accadono appena sotto la superficie delle cose."
Come scritto in un precedente post, ritorno volentieri su Raymond Carver e sulle sue riflessioni riguardo la scrittura. In questo caso però il pretesto è dovuto ad un bellissimo doppio lp dal titolo Time, di Derek Bailey e Tony Coe. E ciò che ha scritto Carver sembra proprio perfetto per inquadrare al meglio questa uscita discografica, preziosa ristampa di un disco Incus del 1979 con, in aggiunta, materiale inedito, registrazioni effettuate il 4 aprile e il 14 maggio 1979  presso la BBC per il programma Jazz in Britain e che compongono le facciate 3 e 4 del presente doppio lp.



Per parlare di Derek Bailey servirebbero decine di post e probabilmente non avremmo ancora esaurito le argomentazioni e le riflessioni sulla sua opera di musicista, improvvisatore, studioso  e teorico. Qui, in questo disco, è in coppia con un musicista certamente non così affine ai territori di pertinenza del chitarrista, eppure siamo in presenza di un lavoro unico, di raro pregio. Prima di entrare un po' nel dettaglio, quindi, accenniamo brevemente qualcosa sulla figura del sassofonista e clarinettista inglese Tony Coe.


"Sofisticato, gentile e vago, Tony Coe ha un'aria di generale astrazione come se stesse cercando continuamente qualcosa che ha dimenticato. Per quanto riguarda la musica, l'impressione è ingannevole: qualunque cosa faccia, è con concentrazione totale e un'intelligenza che gli permette di essere a casa con qualsiasi genere musicale". 
Questo è quanto scriveva Ian Carr, storico trombettista inglese e leader dei Nucleus, nel suo bel libro Music Outside. Contemporary Jazz in Britain, del 1973.


 Effettivamente siamo in presenza di un musicista alquanto versatile: sassofonista di Henry Mancini per la colonna sonora del film La Pantera Rosa, membro di big band come quella di Kenny Clark e Francy Boland, co-leader di piccoli ensemble con Kenny Wheeler e Tony Oxley, ma anche clarinettista classico contemporaneo sotto la direzione di Pierre Boulez, autore di uno stupendo disco intriso di jazz, rock e sperimentalismo, Zeitgeist del 1977, con tra gli altri Phil Lee alla chitarra, Kenny Wheeler al flicorno soprano e una splendida Norma Winstone alla voce, e di altre di decine di lavori a suo nome. Insomma, un musicista dotatissimo e in grado di spaziare tra più generi mantenendo sempre un'alta qualità e un suo riconoscibile timbro strumentale. Vicino a Paul Gonsalves per quanto riguarda il sax tenore, al clarinetto ha una eccelsa tecnica e un suono a volte un po' nasale ma di grande limpidezza e virtuosismo. Pur avendo lavorato con Tony Oxley, con la Winstone e con Wheeler Tony Coe ha poco frequentato i territori della libera improvvisazione, non certo per chiusura mentale. Ma il suo eclettismo non poteva certo fermarsi di fronte ad un grande musicista quale è stato Derek Bailey, certamente la figura più autorevole della scena free impro, non solo inglese.

Bailey, nel 1977, inizia ad organizzare le Company Weeks, incontri semi occasionali di improvvisatori. Un anno prima, in occasione del primo concerto di Company, il chitarrista aveva cominciato a ragionare intorno alla creazione di nuove forme di incontro per l'improvvisazione: " La struttura di Company, per quanto si possa parlare di struttura, è basata sull'idea di una compagnia teatrale di repertorio, un gruppo di musicisti da cui diversi raggruppamenti possono essere tratti per specifiche occasioni e performance".  Ad attrarre Derek Bailey era l'idea di congelare per alcuni giorni quel breve periodo iniziale della nascita di un gruppo, prima che il processo di stabilizzazione e consolidamento influenzi in modo determinante la musica prodotta. Da qui nasce l'idea di raggruppare, dal 24 al 29 maggio 1977, presso l'Institute of Contemporary Arts (ICA) di Londra, 10 tra i più importanti musicisti attivi in ambito improvvisativo: Derek Bailey, Steve Beresford (piano), Lol Coxhill, Evan Parker, Steve Lacy, Anthony Braxton (sassofoni e flauti), Leo Smith (tromba), Maarten van Regteren Altena (basso), Han Bennink (batteria) e Tristan Honsinger (violoncello).  


Da questo primo incontro, che ebbe un'ottima partecipazione di pubblico e un inequivocabile successo, Bailey pubblicò, con la sua Incus, ben tre lp (Incus 28 - 30). L'anno successivo, benché restio ad organizzare un'altra Company Week, Bailey alla fine si convinse per farne un'altra edizione, sempre all'ICA, dal 30 aprile al 6 maggio 1978. I musicisti questa volta furono Johnny Dyani (basso), Misha Mengelberg (piano), Maurice Horsthuis (viola), Leo Smith (tromba), Terry Day (percussioni) e lo stesso Bailey. Questo il programma di sala della seconda edizione: "Come nel 1977 l'obiettivo di questa settimana è di presentare la libera improvvisazione in un contesto che incoraggia le migliori possibilità di questo modo di fare musica. Company, il nome collettivo per i musicisti che vi prendono parte, è stata fondata con questo scopo. E' un gruppo di musicisti a formazione variabile i cui partecipanti rispecchiano una varietà di stili e di concezioni dell'improvvisazione. L'ampiezza e la composizione del gruppo verrà decisa dai musicisti ogni sera subito prima della performance". Da questa Company Week non venne pubblicato nessun disco.
E veniamo finalmente al 1979, l'anno dell'incontro tra Bailey e Coe.


"Dopo averla organizzata nel 77 (la Company Week)  non volevo più farla, ma fu un tale successo che chiunque poteva riconoscere e la pressione per rifarlo era abbastanza stupefacente, particolarmente dalle persone che mi avevano dato il denaro per organizzarla, l'Arts Council. Così feci un'altra Company Week nel 78 che pensai non fosse particolarmente riuscita e allora provai un differente format nel 1979, un concerto settimanale per quattro o cinque settimane. Era cumulativo. Partii con un solo, poi duo e trii fino ad arrivare ad una line up di otto, nove elementi. Ho pensato che avrei dovuto provare in quel modo. Neanche a me piacque tanto, erano solo concerti. Provai ancora nel 1980". 
Così, nelle parole di Bailey, le considerazioni sulle Company Week del 77 e del 78 e le idee riguardo l'edizione del 1979, abbastanza differente dalle precedenti. Uno dei concerti della Company  si svolge il 16 aprile 1979 presso la Purcell Room di South Bank a Londra e vede la partecipazione di Bailey con Paul Rutheford, Keith Tippett e il nostro Tony Coe. Una settimana dopo, il 23 e 24 aprile, negli studi Riverside di Londra, Derek Bailey e Tony Coe registrano Time, pubblicato dalla Incus lo stesso anno. I due, prima del concerto alla Purcell Room, si erano già incontrati per suonare nel programma radio della BBC Jazz in Britain il 4 aprile del 1979 e torneranno a suonare sempre per lo stesso programma il 14 maggio. Il tutto è ora su questo doppio lp pubblicato dalla Honest Jon's poco tempo fa.


Siamo in presenza di una raccolta di racconti dall'andamento misterioso e avventuroso, con i due musicisti  che sembrano trovarsi alla perfezione nell'elaborare strutture narrative per poi virare improvvisamente verso scenari inaspettati. Tutto qui è semplicemente narrazione, storie, trame e vicende raccontate in modo egregio da due eccezionali artisti.
Il primo lato dell'lp è composto da composizioni brevi, semplici prose che si gustano una dopo l'altra. L'apertura, con Kuru, è misteriosa, caratterizzata dalle note lunghe del clarinetto e da intrigati arpeggi di chitarra. Sugu, breve e immediata, intreccia fraseggi sinusoidali dei due strumenti mentre Itsu e Koko hanno un andamento simile, seppur alternato. Nel primo è protagonista la chitarra con accordi strappati e note pizzicate e solo verso la fine il clarinetto allunga le sue ombre sul brano. Il secondo vede invece un Tony Coe rilassato, a suo agio con una serie di fraseggi morbidi, vellutati e rapidi, nel registro medio alto e con passaggi sugli acuti. A circa metà brano Derek accompagna le evoluzioni del clarinetto con una sequela di accordi strambi,  dissonanti.
Il resto della prima facciata scorre con caratteristiche simili, essenziale e conciso, con le anch'esse brevi Ima e Sarinu, mentre Omoidasu, l'ultimo brano,  è più lungo e sembra anticipare le atmosfere del secondo lato del disco. Qui la trama si fa più spessa, articolata. Le composizioni (Chiku, Taku, Toki) sono più estese e questo comporta maggiori evoluzioni strumentali, con i due musicisti abili nel condurre di volta in volta le impervie tematiche improvvisative verso territori inaspettati. Toki, lo stupendo brano che chiude il primo disco, è introdotto da una chitarra magica, eterea e puntillista con il clarinetto che sostiene le elaborazioni di Derek. Il filo del discorso poi si intreccia in un continuo dialogo, a volte buffo, serrato, per poi immediatamente placarsi, diventando un sussurro, un rivolo. Si ritorna a fraseggi impetuosi, sempre comunque ben controllati, fino ad arrivare ad elementi parossistici e poi defluire, ammorbidirsi e lasciare spazio, espandere il discorso, in un alternarsi levigato con Coe che a volte innervosisce il dialogo. Nel finale un morbido ostinato rumorista fa da base ad un clarinetto mosso, rapido e allo stesso tempo fuggente.


Il secondo disco, come detto, raccoglie materiale inedito, frutto della partecipazione del duo al programma della BBC Jazz in Britain. L'inizio, Burgundy,  ricorda certe atmosfere di musica contemporanea e porta con sè echi del Giuffre di Free Fall. Va detto che le suggestioni e le sonorità del trio di Jimmy Giuffre con Paul Bley e Steve Swallow percorrono sotterraneamente tutto Time, non potendo prescindere, questa musica, dalle intuizioni fondamentali di quel trio. Le facciate 3 e 4  sviluppano storie e tematiche in maniera incessante, con Tony Coe che lavora brillantemente sul registro acuto del suo strumento e il commento di Bailey fatto di accordi sghembi, note strappate, bicordi dissonanti, sempre in un proficuo dialogo tra i due musicisti. In Dumaine il discorso è tirato, flessuoso, irto e a tratti spigoloso, mentre il finale è delicato e soffuso. La chitarra di Derek disegna un paesaggio aspro in Chartres, nel quale il clarinetto si muove sommessamente, sempre con quel suono pulito, limpido, mentre Bailey costruisce sfondi per le scorribande di Coe. In South Rampart la protagonista, all'inizio, è una chitarra evocativa, che lascia spazi e silenzi e sembra solo suggerire ciò che avviene mentre Tony Coe suona con indeterminatezza, come se parlasse a se stesso, per poi all'improvviso piazzare quelle fiammate acute che stordiscono l'ascoltatore.


E veniamo a questo punto a Carver e alle sue osservazioni iniziali. Questo doppio lp ha in sè l'economia e la precisione, la ricerca dei dettagli importanti. Nulla è superfluo nella musica di Time, tutto è indispensabile. I due musicisti riescono a tradurre in musica eventi che suonano suggestivi, misteriosi, senza nulla di infruttuoso ma condensando nelle loro improvvisazioni il racconto degli avvenimenti. Effettivamente sembra di ascoltare un libro di Carver, ma è scritto (suonato) in tempo reale, non c'è possibilità di revisione, di riscrittura. Ed è per questo che Time è un bellissimo lavoro, per la grande efficacia e essenzialità con le quali Derek Bailey e Tony Coe compongono un' autentica raccolta di piccole storie sonore. Come direbbe Carver....vanno dritti al sodo!

P.S. Sempre nel 1979, il 5 agosto presso l'Institute of Contemporary Arts (ICA) di Londra, Derek Bailey organizzerà una nuova Company, con Frank Perry, Evan Parker, Keith Tippett, Paul Rutheford, Tristan Honsinger, Maarten Altena, Barry Guy e il nostro Tony Coe. Oltre a loro, una line up simile all'incontro del 16 aprile alla Purcell Room, ci saranno anche due musicisti giapponesi, Toshinori Kondo e Toshi Tsuchitori e il mimo clown olandese Ted Jolings. 


Fonti
John Wickes, Innovations In British Jazz. Volume one 1960-1980
Mike Pearson, Conversations In British Jazz
Ian Carr, Music Outside. Contemporary Jazz In Britain
Ben Watson, Derek Bailey And The Story Of Free Improvisation
Derek Bailey, Improvvisazione. Sua Natura E Pratica In Musica
Raymond Carver, Niente Trucchi Da Quattro Soldi


pop





venerdì 26 luglio 2019

Captain Capricorn

Lunga assenza di post dovuta alla scrittura di un corposo articolo su Radio Gnome Invisible, la trilogia dei Gong. Uscirà, spero, a settembre. Ma l'ascolto prolungato e le ricerche intraprese per l'elaborazione di questo scritto mi hanno portato ad alcune considerazioni.


Primo. Daevid Allen si conferma, forse suo malgrado, come la constatazione che spesso e volentieri la tecnica, se non accompagnata dalla creatività e dall'intelligenza, serve a molto poco in musica...e non solo. Tutta la carriera dell'australiano è connotata da una grande voglia di comunicazione, sensoriale ed extrasensoriale, una inesauribile forza creativa che trascende la tecnica musicale e riesce ad esprimere contenuti alti e altri al di là delle mere competenze tecniche. Certo, ha bisogno di avere intorno a se abili musicisti, ma cos'è la musica se non condivisione di idee e sentimenti, un'arte che quasi necessariamente si esprime in modo collettivo, presupponendo la presenza di sodali che partecipano alla creazione. E' solo dopo aver percorso questo processo che talvolta, non spesso, spunta fuori l'esigenza della creazione in solitudine.


Secondo. L'esperienza Gong, soprattutto nella trilogia, è qualcosa di particolare, unico per certi versi. Continui cambi di formazione, assenze del leader, conduzione collettiva e temporanee direzioni singole, tutto questo ha prodotto del materiale musicale di elevata qualità. Un mix di rock, jazz, musica etnica, psichedelia, sperimentalismo, Kosmische Musik, Terry Riley, tutto frullato insieme e offerto in una dimensione anche spirituale e fantastica, non solo come mero prodotto musicale.


Terzo. Uno dei rari esempi di non attaccamento alla fama, alla ricchezza, allo star system. Come per i Soft Machine, siamo in presenza di percorsi musicali che continuano con la stessa sigla ma senza i loro fondatori e leader. Anzi, essi stessi lasciano volentieri in altre mani ciò che loro hanno costruito nel corso degli anni. Come a dire basta, sono stanco ed è giusto che continuiate voi, se ne avete la forza e se le nostre idee non concordano più.
Quarto. Le avventure musicali di Allen andrebbero studiate in modo approfondito perché ancora ricche di spunti e di ispirazioni che farebbero la fortuna di molti musicisti. L'assenza di barriere stilistiche, un discorso complessivo riguardo i contenuti musicali e testuali che vanno da scenari fantasy a elementi ironici e nonsense, a riflessioni più profonde, spirituali e filosofiche. 
Quinto. Molto di quanto scritto ricorda le esperienze e la musica di un altro capitano, anch'esso "strano" e bizzarro, forse leggermente più ossessivo e inquieto di Daevid Allen: Captain Beefheart. E prossimamente vedremo di ragionarci sopra.


Daevid Allen, Melbourne 13 gennaio 1938 - Byron Bay 13 marzo 2015
Captain Beefheart (Don Van Vliet), Glendale 15 gennaio 1941 - Arcata 17 dicembra 2010


pop

lunedì 17 giugno 2019

Weird Tales. I Dream Syndicate e Karl Precoda

Il gruppo non è certo di quelli famosi, almeno non tra il grande pubblico. E' invece stata, e lo è ancora, una di quelle formazioni di culto, venerata da un ristretto numero di fans in giro per il mondo e che con gli anni ha incrementato, seppur di poco, la propria fama.


Parliamo dei Dream Syndicate, da un paio di anni di nuovo in carreggiata,  gruppo guida del Paisley Underground, quel piccolo movimento, o meglio corrente musicale, che agli inizi degli anni '80 riportò in voga la psichedelia, un certo rock grezzo, sicuramente influenzato dal punk, e un ritorno al sound chitarristico prettamente americano.
Arrivarono, Dream Syndicate, Green On Red, Rain Parade, True West, Three O' Clock, Opal, Long Ryders, Bangles, in un periodo di trionfo del sound sintetico, batterie elettroniche, tastiere, synth pop e brani dance. Con loro tornarono alla ribalta il sudore, le chitarre distorte, gli assoli e un certo rock primitivo che probabilmente non era mai andato via, semplicemente era rimasto sotto traccia, in attesa di riemergere più sporco che mai. 
E agli inizi i Dream Syndicate erano veramente sporchi, così impregnati di punk ma con forti legami con il Neil Young dei Crazy Horse, la psichedelia di Nuggets, la visionarietà del Verlaine dei Television, e le atmosfere scure e inquietanti dei Velvet Underground
Il tutto di provenienza West Coast, termine che già racchiude in sé un cumulo di suoni, atmosfere e significati tutto particolare ed alquanto caratteristico.


Steve Wynn, chitarra e voce, Karl Precoda, chitarra solista, Kendra Smith, basso, Dennis Duck, batteria, esordiscono nel 1982 con l'ep The Dream Syndicate, per poi pubblicare, sempre nello stesso anno, The Days Of Wine And Roses, loro primo lp prodotto da Chris D. dei Flesh Eaters.
Queste, fin qui, le note basilari, le informazioni primarie buone per avere un quadro, seppur sommario, della situazione.
In realtà non voglio fare un excursus critico dei lavori dei Dream Syndicate, ma affrontare particolari aspetti e curiosità.
Iniziamo dall'effettivo ruolo che hanno i membri del gruppo. La leadership è chiaramente nelle mani di Steve Wynn, cantante, frontman e autore della maggior parte dei brani. Sezione ritmica essenziale, non particolarmente brillante, poche variazioni, qualche buona linea di basso di Kendra Smith e drumming costante a supporto della musica da parte di Dennis Duck. Ma, come spesso accade nel rock, e non solo, tutto questo sembra funzionare alla perfezione con, in aggiunta e per nulla secondario in quanto a peso effettivo nel gruppo, la chitarra solista di Karl Precoda. E qui c'è il primo elemento da sottolineare. Come in tutte le storie rock che si rispettano, anche la musica dei Dream Syndicate vive e sgorga furiosa e ammaliante dall'opposizione di due personalità: quella dell'autore dei brani, del songwriter un po' sghembo ma pur sempre affidabile e alla ricerca del Nuovo Racconto Americano, e quella del folle visionario, chitarrista acido (il più acido d'America si diceva ai tempi!), irrequieto e irriducibile all'ordine, alla regolarità.


 Steve Wynn e Karl Precoda sembrano incarnare le due anime del gruppo, quella psichedelica e avventurosa e quella del rock ruvido e tradizionale. In realtà, dobbiamo dirlo, in tutti e due vive la fiamma dell'irrazionale, della fuga in avanti pur ancorati alle esperienze rock del passato,  elettrizzare improvvisamente la musica per poi lentamente raffreddarla in eterei fluidi cangianti. Tuttavia sono ben chiari gli approcci e i contributi di entrambi; scrittura di brani, splendide melodie con testi intriganti e distorsione degli stessi con scorribande dissonanti e incalzanti, apertura dei confini e correnti psicotiche.
Si è molto parlato, in passato, di Steve Wynn, della sua leadership e delle sue qualità come songwriter, grazie anche ad una buona carriera lontana dal gruppo. Ma, ed è qui il senso di questo post, troppo poco si è parlato della personalità di Precoda, la chitarra solista dei primi Dream Syndicate. Di chiara ispirazione hendrixiana, Karl Precoda è chitarrista anomalo, per certi versi irrispettoso e inaffidabile. C'è molto di suo nella proposta sonora dei Dream Syndicate così fresca e coinvolgente. Non si lascia irretire dalle efficaci melodie intrise di blues e roots di Wynn, non le accarezza con sagacia e virtuosismo, bensì le graffia, le assesta colpi distorti per allungarle, stirarle verso ignoti viaggi mentali e le trasforma in autentici brani psichedelici.
Il solismo di Precoda è abbastanza particolare perché di solito non segue i consueti canoni del chitarrismo rock. Non è un virtuoso ma sa dosare bene le sue capacità elaborando degli interventi musicali affatto originali, inaspettati direi. Là dove ti aspetteresti un fiume di note, un insieme di pentatoniche una dopo l'altra, lui cambia completamente strada, si incammina in territori inesplorati evocando molto con poco. E' come se dicesse, ok qui si dovrebbe fare così ma io faccio un'altra cosa, anche se al primo ascolto non vi piace. Un esempio significativo è il brano che dà il titolo al loro primo Lp, The Days Of Wine And Roses.

https://www.youtube.com/watch?v=f-_G7A0RbjU

Splendida canzone strutturata su strofe, ritornelli, brevi bridge, e poi una lunga parte centrale dove Precoda mostra le sue peculiarità di chitarrista "acido". In un brano così ti aspetteresti un assolo di chitarra pieno di fraseggi blues, e invece ci troviamo di fronte ad un lungo, estenuante e inquietante magma sonoro, fatto di rumore, brevi frasi distorte costruite sulle note basse della chitarra che si confondono con la ritmica di Wynn. Non sembra neanche essere un solo bensì una macchia sonora che emerge e poi riaffonda all'interno dello scorrere del tempo, così deforme ed allo stesso tempo originale. E poi, alla fine, una breve sequenza cromatica che finisce su un Mi ossessivo, lancinante, minimalista e inquietante, lungo, che sembra non voler finire mai e che lancia il ritorno della voce di Wynn, per concludersi in un assalto sonoro con il ritornello ripetuto più volte, sempre più urlato, sempre più sporco. Il finale, secco ed inarrivabile (con evidente errore ritmico!), lascia l'ascoltatore esausto. Si potrebbe benissimo dire: ecco, questo è Precoda. Forse nessun altro chitarrista rock avrebbe avuto il coraggio di suonare così in un brano. Molto con poco, è la sua filosofia.
Altro esempio è Until Lately, sempre sullo stesso lp, dove si produce in una linea di chitarra che fa da contrappunto alla voce di Wynn, per poi sporcare le strofe , in sottofondo, con rumori e feedback, note singole distorte e penetranti.  Anche qui nel finale la chitarra esplode sotto le frasi sempre più urlate di Wynn e un'armonica a bocca che ricorda il primo blues. Il brano di apertura di The Days Of Wine And Roses è, anch'esso a suo modo, una sorta di manifesto dell'approccio per molti versi minimalista, di Precoda. Tell Me When It's Over è una splendida ballata, si potrebbe dire tipica dei Dream Syndicate. Un bel riff, una suggestiva linea melodica e poi, quando ci sarebbe tutto lo spazio per un assolo di chitarra, Precoda preferisce suonare una sola nota, ripetuta, dolce e sognante (una delle poche sovraincisioni del disco, quasi tutto suonato in diretta). Tutto qui, nient'altro. Mentre su When You Smile, autentico gioiello, l'inizio è affidato ad una serie di feedback che Precoda sembra governare con maestria, lasciando emergere con grazia il dolce arpeggio della chitarra di Wynn. A tutto questo va aggiunto il suono generale del disco: la voce vicina al Lou Reed più alienato, una generale noncuranza degli aspetti esteriori come  la qualità del suono, registrazione in presa diretta, errori, ma quanta energia, quanto sudore e quanta musica. Il tono generale è sporco, ruvido, e questo esalta le caratteristiche di Precoda così come le splendide composizioni di Wynn. All'epoca si diceva ricalcassero troppo i primi Velvet Underground, ed in parte poteva essere anche vero. Ma, a differenza del gruppo newyorchese, c'è meno arte e più istintività, meno elaborazioni intellettuali e più viaggio acido.


Che succede a questo punto? Tutto sembra funzionare, almeno alle nostre orecchie, ma evidentemente non è così. L'approdo ad una grossa etichetta (A&M Records) comporta una serie di modifiche che saranno determinanti per il futuro del gruppo. Partiamo da una delle più evidenti: il cambio del produttore. Da Chris D. si passa a Sandy Pearlman, da un esponente del punk acido americano al creatore del suono Blue Oyster Cult, così perfetto, pulito, preciso. Anche con i Clash di Give 'Em Enough Rope  Pearlman aveva tentato di ricondurre il punk grezzo e riottoso ad una levigata forma metallica assolutamente fuori luogo per una formazione come i Clash. E questa stessa operazione viene riproposta con The Medicine Show, secondo lp dei Dream Syndicate. Non che il suono sia lo stesso dei Clash, ma è quell'approccio ordinato, distinto, da rock adulto, che viene riproposto, scardinando di fatto quell'equilibrio sonoro raggiunto nel precedente lavoro. Ad aggiungere una patina di "serietà" viene aggregato alla formazione il pianista Tom Zvoncheck mentre al posto delle soavi linee di basso di Kendra Smith, che lascia il gruppo per formare gli Opal, arriva Dave Provost.


Non vorrei parlare troppo male di The Medicine Show perché, alla fine, è comunque un bel disco. Ma la magia di quel suono graffiante, acido, irruento, quel viaggio tra i lidi psichedelici che The Days Of Wine And Roses aveva compiuto con rara efficacia, viene deliberatamente eroso da un sound più levigato, gentile e rispettoso dei canoni del buon rock. Ed ovviamente chi ne farà più le spese sarà proprio la chitarra di Precoda, irregimentata in un suono che lascia poco spazio ai rumori, alle fantasie e alle scorribande soniche. Un esempio è il brano John Coltrane Stereo Blues, che dovrebbe in parte ricoprire il ruolo che aveva, nel precedente disco, la title track; una lunga composizione fatta di improvvisazione e viaggio psichedelico. Ecco, qui Precoda avrebbe potuto essere determinante, avrebbe dovuto esplodere con rumori, distorsioni, note lancinanti. E invece rimane timido, ordinato, quasi timoroso di sporcare il brano, e con esso l'intero disco, cosa che invece non era certo accaduta in The Days Of Wine And Roses. Da questo punto di vista è certamente meglio la out take piuttosto che la versione ufficiale presente su disco.
https://www.youtube.com/watch?v=ScO27FcpzNs


Peraltro, a fronte di questa parziale delusione, Precoda piazza uno dei suoi più begli assoli in Bullet With My Name On It, uno dei rarissimi brani da lui composto. E' uno solo melodico, struggente, che riprende la melodia del ritornello modificandola e lanciandola in alto, una sorta di Dave Gilmour acido e spostato.
Mi fermo qui, senza voler andare troppo oltre. La pubblicazione del mini lp This Is Not The New Dream Syndicate Album...Live, conferma ed accentua la tendenza di Medicine Show, con la massiccia presenza delle tastiere che accerchia e soffoca pesantemente la chitarra di Precoda, fino a renderla quasi superflua. E ovviamente, con le registrazioni per il successivo lp Out Of The Grey,  si arriva all'abbandono del gruppo da parte del chitarrista. L'arrivo di Paul B. Cutler, indubbiamente più virtuosistico e abbastanza convenzionale come solista, spegne definitivamente le spinte psichedeliche e rumoriste annegandole in un ovvio suono rock abbastanza scontato. A dimostrazione dell'importanza della chitarra e del solismo di Precoda va sottolineato che anche in questo album la qualità dei brani scritti da Wynn è elevata, ma la mancanza di interventi creativi e spiazzanti, dei magma sonori e dei dardi distorti che percorrevano la musica dei Dream Syndicate porta ad un generale appiattimento musicale. Canzoni carine ma prive dell'estro sonoro del passato.
Fine. Non del gruppo certamente, che pubblicherà altri dischi, si scioglierà e poi tornerà ad incidere e suonare dal vivo, ma di un certo modo di intendere quel rock. La volontà di ripulire, di ingentilire ciò che alla fine è nato un po' sciatto, disordinato, sporco, il più delle volte porta al soffocamento delle istanze maggiormente creative, direi scomode. Ecco, forse la parola giusta per definire Precoda e la sua chitarra è questa: scomodo!
Qui sotto un paio di blog interessanti sui Dream Syndicate.

https://mrowster.wordpress.com/category/karl-precoda/

http://www.myrareguitars.com/the-dream-syndicate

pop

lunedì 13 maggio 2019

Fusion/Thesis. L'arte del trio 2

FUSION/THESIS

Il personaggio è abbastanza particolare, tanto da meritare certamente più attenzione di quanta gliene sia stata data dalla storiografia jazzistica. Nato nel 1921 in Texas, a metà dagli anni ’50 Jimmy Giuffre è un tipico esponente della scena west coast, conosciuto non solo come sassofonista e clarinettista ma anche come ottimo arrangiatore e compositore; è lui infatti che scrive ed arrangia uno dei maggiori successi dell’orchestra di Woody Herman, Four Brothers, del 1947. Ma, contrariamente ad alcuni suoi colleghi come Gerry Mulligan, Stan Getz o Dave Brubeck, si allontana pian piano dai riflettori, dal successo commerciale preferendo sperimentare nuove soluzioni e sonorità. 


Ispirato dalla Sonata per flauto, viola e arpa di Debussy e con l’idea di sviluppare così ulteriormente il suo approccio contrappuntistico Jimmy Giuffre forma un trio drumless con Jim Hall alla chitarra e Ralph Pena al contrabbasso (più tardi al posto di Pena subentrerà Bob Brookmeyer al trombone a pistoni!). A questo aggiunge un lento abbandono del sax per suonare quasi esclusivamente il clarinetto, scelta decisamente controcorrente. 

Le sonorità del nuovo progetto di Giuffre sembrano condividere i parametri dell’estetica cool ma in realtà c’è qualcosa che lascia intravedere gli sviluppi futuri. Innanzitutto la scelta di non avere batteria: lo swing non sembra affatto risentirne ma è sempre presente sottotraccia, permettendo una maggiore libertà nelle improvvisazioni e lasciando emergere un forte interplay tra i tre musicisti che iniziano ad eludere i confini tra tema e improvvisazione. Il “blues-based folk jazz” di Jimmy Giuffre è alla ricerca di un’intensità e di un feeling che solo le atmosfere morbide e le sonorità contenute possono far emergere, lontano dalle grida e dal volume alto della maggior parte dei gruppi jazz dell’epoca. 

Nel 1957 si sposta a New York, e qui nuovi stimoli portano Giuffre lontano dai suoni west coast e vicini alla nuova scena free che sta emergendo sul finire dei ’50 inizi ’60 proprio nella Grande Mela. Il trio rimane la formazione ideale per Giuffre, ma cambiano questa volta i musicisti; Paul Bley al piano e Steve Swallow al contrabbasso. Nel 1961, a marzo e ad agosto, il nuovo trio registra due album per la Verve (poi ristampati in un doppio cd dalla ECM nel 1992): Fusion e Thesis.




La Fusione di Jimmy Giuffre è un materiale sonoro liquido ma non informe, composito ma fluido, ricco di stimoli e di suggestioni. Le dissonanze sono immediatamente stemperate da continue consonanze, il semplice sembra tramutarsi in complicato e viceversa. C’è una libera ricerca di nuove forme e le tonalità vengono in parte abbandonate per poi essere riprese. Questo disco sembra essere un’alternativa alla bollente energia dell’hard bop così come alle rivolte musicali e socio-culturali del free. Ma non lo è perché non si contrappone ad essi bensì ne rielabora alcune tematiche e ne sussurra nuovi aspetti. È fondamentale, come in passato, l’interplay fra i tre musicisti; piano e contrabbasso sembrano fondersi con quel suono così delicato eppur anomalo, sfuggente, alieno in certi casi, del clarinetto. Coraggiosa e vincente è la scelta stilistica di Giuffre; rinunciare in pieno alla tradizione virtuosistica dello strumento per costruire un proprio linguaggio innovativo che faccia respirare e parlare il clarinetto insieme agli altri strumenti, che lo faccia vibrare sommessamente senza dover per forza urlare. In Fusion c’è un dialogo pacato tra i musicisti che porta il trio ad improvvisare in una continua ricerca tematica, portando alla luce il blues del Texas come la Third Stream, il free come il Modern Jazz Quartet. Il volume basso, il suono soffice, il soffio permettono all’ascoltatore di percepire continuamente nuove suggestioni, richiami, visioni. 

Thesis, registrato qualche mese dopo, è diverso. Ma è una diversità insita in Fusion, non se ne percepisce al primo ascolto il carattere programmatico. Dove Fusion era materiale liquido Thesis sembra offrire rivoli solidi, spunti programmatici solitari inseriti in discorso complesso, vicino alla musica “colta”. Dove in Fusion c’era suono comune qui spesso gli strumenti appaiono isolati tra loro, intenti a elaborare i loro assunti, forti della precedente compattezza, della loro raggiunta fusione. Lo stesso clarinetto di Giuffre suona leggermente più alto, su registri acuti. Le composizioni sono più angolose, aggressive, libere da tonalità. Dopo essere riusciti a fondere i loro suoni, i tre musicisti manifestano la volontà di enunciare le loro idee uscendo dal materiale fuso e spargendo note e suoni nell’aria. Il tutto sempre in maniera sommessa, quasi a non voler disturbare troppo, come se fossero di lato rispetto al fluire degli eventi. 



Sarebbe finita qui se uno non considerasse il terzo capitolo della saga, Free Fall. Sempre lo stesso trio, qualche mese dopo Thesis e un tour in Europa. E può benissimo dirsi l’esplosione di un gruppo, di un’idea; lo scioglimento dei suoni nella libera improvvisazione quale naturale approdo dell’intero percorso artistico di Giuffre. Una sonorità ostica e sfrangiata, un oltrepassare i limiti e lanciarsi nel precipizio dell’ignoto. Il trio che ha fuso le sue molteplici influenze e ha teorizzato nuovi assunti, con Free Fall mostra la dissoluzione del tutto, una libertà angosciante, che sa di fine della storia. 

“Ci disperdemmo una notte in cui guadagnammo 35 centesimi ognuno”. Steve Swallow  

 




pop

lunedì 29 aprile 2019

Musica 80

Tra le tante riviste musicali uscite negli ultimi 40 anni ce n'è una che è realmente passata sotto silenzio, subendo l'onta della scomparsa dai ricordi degli appassionati. 



Musica 80, questo è il nome del mensile che durò poco più di un anno, dal febbraio 1980 all'aprile dell'81. Un'intervista a John Lydon, un servizio di 8 pagine sull'Improvisers Symposium tenutosi a Pisa con interventi di  Derek Bailey, Paul Lovens e Barry Guy tra gli altri, i testi tradotti in italiano del primo disco degli X di Los Angeles, un articolo sui Throbbing Gristle con intervista a Genesis P. Orridge... questi erano i contenuti di uno dei primi numeri della rivista. Letti oggi sembrano fantascienza, o un sogno destinato ad esaurirsi velocemente. Eppure questa rivista è uscita nelle edicole, anche se non per molto.


Non voglio fare il retromane, oppure rimpiangere i bei tempi passati ma riflettere brevemente sul significato di tale esperienza, vissuta peraltro da semplice lettore. 
E' chiaro che i tempi sono radicalmente cambiati e con internet il ruolo della stampa è mutato, ma ritengo abbia ancora un'importanza vitale per l'informazione e, soprattutto, la controinformazione. Devo dire che sfogliando in questi giorni Musica 80 mi sembra risenta poco del tempo passato, anzi penso che tuttora potrebbe essere benissimo in grado di lasciarsi leggere con curiosità e interesse. Perché?
Alcune questioni mi sembrano fondamentali: l'approfondimento, la riflessione, la lettura di vicende da punti di visti inusuali e/o alternativi, l'interrogazione di avvenimenti sotto diverse chiavi di lettura. Sono elementi che hanno una validità ancor più pronunciata in questi tempi, dove la capacità di attenzione è nettamente diminuita. E, a differenza delle tante fonti che ci balzano agli occhi durante le nostre ricerche, possiedono un filtro e una autorevolezza che è data dalla rivista stessa, dai suoi redattori e collaboratori. 
L'altro aspetto importante è la ricerca a tutto campo, l'investigazione che non conosce barriere e stili, scene o generi prestabiliti. Un indagine che rimescola e produce informazione profonda, a volte anche scanzonata, che non vive sulle scelte stilistiche ovvie e scontate ma approfondisce e scava dentro e fuori le etichette. 
La rivista riuscì a cogliere gli stimoli nuovi che provenivano dal post punk e dalla new wave e a coniugarli con le aree sperimentali e di ricerca, con la scena impro e persino con le storie classiche del rock. Il tutto senza pregiudizi e cercando di stimolare la curiosità del lettore, di indurlo a sperimentare egli stesso un ascolto differente.
Al di là di qualche ingenuità o di articoli non sempre così ben calibrati, Musica 80 aveva anche quell'attenzione all'aspetto grafico che di lì a poco sarebbe diventato così importante, spesso a scapito dei contenuti.  
Ma alla fine durò poco, e bisognerebbe interrogarci anche sul perché questo esperimento ebbe vita breve. Una motivazione può essere proprio la scaltrezza e la difficoltà ad essere inserita in un genere preciso. Non propriamente e solamente rock, né jazz, né folk, né punk.
Insomma, quello che pensiamo sia un punto di forza probabilmente è la principale ragione della sua fine, soprattutto in presenza di un mercato che vuole certezze e scelte di campo. Una platea che corre al riparo di confini estetici ed è spaventata dalle sfumature o dai rumori di fondo, dalle eresie e dalle devianze. 
Anche l'eccessivo intellettualismo, soprattutto in un periodo come quello degli inizi 80, può aver determinato in maniera significativa la fine precoce della rivista. 
In ogni caso non sarebbe male condurre una ricerca sulla storia delle riviste musicali in Italia, provando a tratteggiare attraverso di esse le vicende, gli usi e costumi dei giovani nella storia italiana dal dopoguerra ad oggi. Soprattutto perché alcuni elementi che hanno determinato la crisi e la fine di alcune prestigiose riviste, tra le quali appunto Musica 80, sembrano comunque persistere e anzi accentuarsi sempre più.
Ma probabilmente già è stata fatta....o no?


pop

martedì 23 aprile 2019

L’arte del trio

Ci sono alcuni elementi significativi che accomunano le uscite discografiche del trio di Andrew Cyrille, con Wadada Leo Smith alla tromba e Bill Frisell alla chitarra,  e quello di David Torn,  con Tim Berne al sax e Ches Smith alla batteria e all'elettronica. Non è solo la formazione, due trii con batteria, chitarra elettrica e strumento fiato, né la stessa etichetta discografica, la ECM, che in ogni caso determina un certo tipo di suono. No, è qualcosa di più profondo, intenso e allo stesso tempo luminoso, che Lebroba e Sun Of Goldfinger condividono.


Le due formazioni, pur avendo delle importanti differenze stilistiche, elaborano un procedimento compositivo esteso, largo, quasi fossimo in presenza di composizioni classiche, con un intento non lontano dalla sinfonia, soprattutto per quanto riguarda il trio di David Torn. Ma è nella capacità di evocare suggestioni paesaggistiche, nel delineare ambienti sonori coinvolgenti e intriganti che i due trii raggiungono l’eccellenza, ciascuno nel proprio ambito.
 Il terzetto di Cyrille sembra sognare gli spazi aperti della frontiera, una sorta di Ry Cooder trasformato ed evoluto, dove il groove  è completamente immaginato e il dialogo continuo tra i musicisti allunga lo sguardo sempre più lontano, lì dove non vi sono confini, sempre agganciati ad una tradizione blues resa elegante dalla chitarra di Frisell.
Il trio di Torn è invece immerso nella metropoli distopica, un Bitches Brew allucinato e inquietante, con crescendi angosciosi e improvvise quieti. I tre strumenti, coadiuvati dall’elettronica e, in Spartan, Before It Hit dai chitarristi Ryan Ferreira e Mike Bagetta, dal tastierista Craig Taborn e persino da un quartetto d'archi, conducono l’ascoltatore in un mondo altro, destrutturato e spigoloso.



I due dischi lavorano sul concetto di composizione in un modo  esemplare e per certi versi simile. Improvvisazione e scrittura sono continuamente alternati e inglobati all'interno di brani elastici, continuamente in movimento, come stormi di uccelli che si addensano e si rarefanno senza un ordine evidente ma con una loro inequivocabile forma. Spazi, silenzi, sferzate rock e sinuose ed ipnotiche improvvisazioni si delineano con chiarezza e originalità.
L’assoluto livello di sintonia, espressività e innovazione sembra proprio risiedere nella formazione del trio, atipica e allo stesso tempo unica e ineccepibile, che racchiude in sé ogni ambito possibile di suono e melodia e ne moltiplica gli effetti come onde che si propagano dal centro verso gli esterni. È musica, ottima, del presente ma con indubbi e illuminanti segnali verso/per il futuro.

pop 

martedì 16 aprile 2019

Impro, Prog e Punk!

In un mio precedente post (https://impropop.blogspot.com/2019/04/a-proposito-di-progressive.html) avevo accennato alla pratica improvvisativa in ambito rock, poi debellata in gran parte nello sviluppo del Progressive. Ne avevo dato una lettura centrale per quanto riguardava il triennio 1966/69, con l'esplosione della Psichedelia e le sperimentazioni ad ampio raggio compiute dalla stragrande maggioranza dei gruppi.

Quando parliamo di improvvisazione nel rock facciamo riferimento a quella che Derek Bailey ha chiamato improvvisazione idiomatica, circoscritta in maggior parte a lunghi assoli chitarristici o di tastiere. Ma in alcuni casi si è fatto uso di improvvisazioni più o meno libere, cioè non propriamente idiomatiche. I primi Pink Floyd, Soft Machine, in alcuni casi King Crimson, un certo Zappa e gli Henry Cow, ma anche le lunghe suite psichedeliche dei Grateful Dead o i Gong hanno in parte un'attitudine libera. Possiamo comunque convenire con il fatto che di improvvisazione il rock non ne abbia fatta molta, o comunque non ne costituisce l'essenza, o la priorità. Ma perché allora diventa centrale? Perché se fosse stata sviluppata e incrementata come sembrava potesse esserlo avremmo avuto un corso differente degli eventi storici del rock. Quella musica così affascinante e rigogliosa non sarebbe caduta nell'asfissia di certo Prog e non sarebbe stata spazzata via così facilmente.
Nel bel libro di Simon Reynolds, Retromania, c'è un interessantissimo capitolo che riguarda il Punk. L'autore lo considera un fenomeno nato da impulsi reazionari, regressivo, che comunque guarda al passato, al primo rock suonato con pochi accordi, in maniera semplice e concisa, privo di improvvisazioni. Non sono del tutto d accordo con questa definizione ma è vero che, esaurita la prima spinta propulsiva del punk, la musica rock si è via via incanalata in un percorso sempre più ristretto, da una parte con lo sguardo all'indietro, dall'altra con la commercializzazione e l'atrofia creativa. Ecco perché l'improvvisazione avrebbe potuto svolgere un ruolo decisivo nell'alterare gli accadimenti verso un'altra direzione, e allora il punk non avrebbe avuto così vita facile. O forse ne sarebbe stato influenzato indirizzandosi verso un'estetica differente, più aperta e meno iconoclasta.


Voglio dire: non necessariamente l'improvvisazione è la giusta terapia per crisi più o meno creative, e non sempre assolve al suo compito, cioè quello di veicolare la musica su lidi sorprendenti e inauditi. Per quanto riguarda un certo rock, quello garage, straccione e sporco, privo di assoli ma pieno di adrenalina e immensamente caustico, quel punk urlato e distorto che distrusse in un solo anno i muri dei castelli del rock e ne ricostruì le fondamenta, ecco quello non aveva e non ha assolutamente bisogno dell'improvvisazione. E'  ben definita la sua estetica e risponde all'urgenza di energia e rassicurazione allo stesso tempo, di certezze scolpite e elettrificate con vigore e risolutezza. Ma quelle musiche che avevano infranto i confini della composizione breve, la strofa e il ritornello, il ritmo regolare e le melodie accattivanti, avevano assolutamente necessità di improvvisazione per poter continuare il loro percorso creativo.  Non fu così ed allora si tornò, pur modificati, ai vecchi codici, alle radici. Ma la linfa vitale è durata pochi anni, e tutto si è esaurito in un ritorno al pop più o meno commerciale e a presunte musiche alternative o indie che dir si voglia; la fine della spinta propulsiva del rock. 


La critica è inutile, non può esistere che soggettivamente, ciascuno la sua, e senza alcun carattere di universalità.
Tristan Tzara

pop

Recensioni. Kevin Ayers and The Whole World "Shooting at the Moon"

  Kevin Ayers And The Whole World SHOOTING AT THE MOON Harvest 1970 Il secondo album solista di Kevin Ayers vede al suo fianco, al co...