Cerca nel blog

lunedì 19 ottobre 2020

Il Bue!

 

L’uscita della biografia del bassista degli Who, John Entwistle, mi fornisce l’occasione per una breve riflessione sul musicista e anche sul gruppo. The Ox, il bue, il soprannome di Entwistle, è sempre stato considerato un musicista tranquillo, probabilmente surclassato dalle personalità debordanti degli altri Who. Tuttavia questo non ha impedito, anche a lui, di vivere in modo dissoluto e ben sopra le righe, dimostrando nei fatti, ahimè, di non essere certo la pecora nera del gruppo. Ma, a parte gli eccessi e le sregolatezze, mi interessa analizzare, seppur brevemente, il musicista, il suo rapporto interno alla band, il suo ruolo. 


Di una tecnica eccezionale, in grado di suonare e arrangiare anche strumenti a fiato, autore parco ma di notevole talento, John Entwistle è stato allo stesso tempo la tipica figura del bassista rock e un’incredibile anomalia.

Come detto, fuori dai riflettori e in secondo piano rispetto ai vari Townshend, Daltrey e Moon, il bassista degli Who ricalca in questo, pienamente, il ruolo e l’estetica del bassista in ambito rock. A parte poche figure, il bassista elettrico, nel suo particolare ruolo ritmico e melodico, è quasi sempre in ombra, chiuso in quel suo agire di raccordo, lavorando ritmicamente e sorreggendo o talvolta evocando linee melodiche. Non c’è dubbio che chitarristi, cantanti e persino batteristi lo abbiano messo in secondo piano. Insomma, è raro trovare un frontman al basso, a parte ovviamente qualche caso. 



Ma Entwistle si discosta contemporaneamente da questo clichè, invero con poche eccezioni, proprio per quel suo particolare modo di suonare, che è assai lontano dalle pratiche del bassista rock. Provate ad ascoltare con attenzione il lavoro del basso su qualsiasi brano degli Who: c’è una varietà, un movimento e un’inventiva tali da dar vita a continui giri, linee melodiche, accompagnamenti, il tutto non mollando neanche per un attimo l’impulso ritmico, l’accordo con quell’incredibile batterista che è Keith Moon, altrettanto creativo nell’accompagnare i brani. E’ quasi una sorta di ribollio continuo, di infiorettamento che però diventa sostanza, tutto teso a sorreggere la linea vocale e allo stesso tempo a decorarla. In realtà la vera funzione ritmica è data dalla chitarra di Townshend. E’ lui che mantiene la staticità tipica del rock, il legame con la terra, mentre la ritmica sembra svolazzare in alto, quasi libera. Potremmo pensare di paragonarla alle ritmiche jazz, se non fosse che il drumming di Moon è così irruento e vigoroso da non potersi certo confondere con la finezza e l’interplay tipico di un batterista jazz. 

Tuttavia il basso di Entwistle effettivamente può avvicinarsi all’approccio jazzistico. Rispetto all’agire rock John elabora una pratica assolutamente composita che lo porta a non lavorare su giri stabili che si ripetono, ma a modificare incessantemente le linee di basso, in questo avvicinandosi al bassista jazz, il quale interpreta e dialoga continuamente con il solista da una parte e con il resto della ritmica dall’altra. Il tutto lo fa con una scioltezza e una spontaneità unici nel panorama popular, come se stesse compiendo la cosa più semplice al mondo. E basta così guardarlo, nei tanti filmati a nostra disposizione, con quella sua aria distaccata, da gentleman, come se fosse da un’altra parte rispetto alle intemperanze degli altri Who. Ma quelle sue dita della mano destra che blandiscono le corde dello strumento in modo gentile ma con una velocità e un'agilità incredibili, stanno lì a mostrarci come la sua flemma sia solo di facciata, mentre musicalmente produca un torrente di idee, un effluvio di creazioni ritmiche e melodiche da far girare la testa.


Speriamo solo  venga tradotta e pubblicata presto anche in Italia questa biografia: di certo ne leggeremo delle belle!


pop


martedì 13 ottobre 2020

La materia viva

Dopo averlo sfiorato varie volte, mancato per un soffio o perso all'ultimo istante, sono riuscito finalmente a vedere Richard Sinclair in concerto dal vivo.

Bassista, chitarrista, cantante, autore, membro dei Caravan e prima ancora dei Wilde Flowers, poi con Hatfield And The North, Camel, oltre a svariate collaborazioni sempre tra Canterbury e dintorni, Sinclair di quella scena musicale è stato uno dei protagonisti, avendo contribuito negli anni a segnarne le coordinate artistiche. Di più, la sua voce, il suono del basso, le sue composizioni rappresentano forse il nucleo centrale della musica canterburiana, l'essenza stessa. Ma questo è un discorso che necessita di approfondimenti e analisi che non è il caso di trattare, per ora, su questo blog.

Interessante, invece, è stato scoprire come quella musica, nelle mani e nella voce di un Sinclair ormai in là con gli anni e in solitudine (ma accompagnato comunque da un bravo Gianluca Milanese al flauto), fosse ancora viva, pulsante e...inaspettata. Ricchezza armonica, progressioni di stampo jazzistico e  sommovimenti ritmici hanno reso le versioni di Share It, Keep On Caring, Disassociation, If I Could Do It All Over Again...ancora fresche e sorprendenti, pur in una dimensione intimista. E hanno mostrato anche le notevoli capacità strumentali e interpretative di Sinclair. Sembrava musica scritta ora, assolutamente priva delle incrostazioni e della pesantezza che tanta musica degli anni '70 porta con se. Ma tutto questo è frutto di un approccio creativo alla composizione, movimentato, ironico. E attraversato in lungo e largo da un impeto improvvisativo che ha reso per l'appunto viva la materia. Dove improvvisazione significa dare forme nuove alle composizioni, mutarle e reinterpretarle in un continuo rigenerarsi. Cosa che a Sinclair riesce benissimo.


Un'ultima annotazione, diciamo così, tecnica, che riguarda la differenza delle musiche autenticamente canterburiane da quelle classicamente progressive rock. In questa versione scarna e solitaria si può meglio osservare come i brani, in questo caso di Richard Sinclair ma il discorso vale per l'appunto per il resto della scena di Canterbury, siano composti e attraversati da armonie di stampo jazzistico, i famosi accordi di undicesima e tredicesima che Dave Stewart, tastierista tra gli altri degli Hatfield And The North e dei National Health, affermava essere una delle caratteristiche della musica di Canterbury. Questo tipo di accordi ammorbidisce le atmosfere e le espande, dandogli un senso di leggerezza, in contrasto con la durezza e l'ampollosità dovute all'uso massiccio di triadi in ambito Prog. Ancora, questa ricchezza armonica favorisce, per l'appunto, un approccio improvvisativo costante e permette una malleabilità non certo così comune nel rock. Se a questo aggiungiamo il disincanto, il gioco, l'ironia diffusa che stempera anche le situazioni più seriose e formali, quasi dissacrandole, beh potremmo forse dire di aver scoperto la formula segreta della musica di Canterbury. 

pop

mercoledì 26 agosto 2020

I paesaggi sonori di Nils Petter Molvaer

Seguo, anche se discontinuamente, Nils Petter Molvaer dal 1997, anno del suo esordio discografico solista con Khmer, edito dalla ECM. E che ritengo tuttora il suo disco migliore, tanto per mettere subito in chiaro le cose. Trombettista norvegese, dal suono caldo e spesso filtrato elettronicamente, Molvaer è sicuramente figlio del Davis di fine carriera, con quell'accenno di note che ampliano e dilatano lo spazio sonoro. Anzi, possiamo dire che l'estetica di Molvaer sia una versione omeopatica di Miles Davis, dove le tracce del grande jazzista sono diluite in dosi infinitesimali pur contenendo in sé evidentissimi residui  della materia originale. 



La musica di Molvaer è veramente fatta di poche note, frammenti di scale e singoli suoni che viaggiano nel tempo, circondati e intrisi di elettronica ma con un forte respiro umano. Khmer, da questo punto di vista, è illuminante per il suo mirabile equilibrio e la bellezza di struggenti melodie irrobustite da scariche elettriche. Tuttavia lo stile del trombettista norvegese, così essenziale, stringato, minimalista, può correre il rischio di ripetersi, di sfiorare il già sentito, l'ovvietà di suoni e melodie abusate. Ed è per questo, forse, che Molvaer è un abile ricercatore di diversi paesaggi sonori, instancabile nel voler cambiare incessantemente il contorno della sua poetica. 


Così lo vediamo passare dalle sonorità elettroniche e trance, al dub con Sly & Robbie, dalla collaborazione con il multistrumentista tedesco e produttore techno Moritz Von Oswald, ai groove di Manu Katchè o al world jazz con il percussionista Mino Cinelu. Senza disdegnare i madrigali delle Nordic Voices con musiche composte da Bjorn Bolstad Skjelberg, gli incontri con la percussionista Marilyn Mazur, le lunghe frequentazioni con Bill Laswell o con il suo fidato chitarrista dall'impatto rock Edwin Aarset. Ma l'elenco è ancora più lungo, a dimostrazione di una grande versatilità di Molvaer
Ma come si traduce questo continuo intreccio di diverse sonorità e ambientazioni musicali con l'estetica minimale del trombettista? Sembra che Molvaer abbia la grande capacità di modificare il senso profondo dei diversi contorni nei quali partecipa o ne è l'artefice, quasi che quel suo suono ammanti di malinconie e sospiri tutto ciò con cui entra in contatto. Talmente forte il  tocco, la mano, da modificare il paesaggio sonoro con semplici pennellate. E alla fine ogni progetto nel quale Nils Petter Molvaer è presente porta inconfondibili tracce di quel sound così caratteristico prodotto dalla sua tromba. Un'estetica assolutamente non basata sul virtuosismo ma sul suono, sul respiro e sullo spazio. Un pittore dai gesti essenziali, intensi.  





pop

venerdì 19 giugno 2020

Minimalisti di tutto il mondo, unitevi!

Il buon Terry Riley probabilmente una statua se la meriterebbe, non fosse altro per la duratura influenza che ancora esercita in ambito popular e non solo. Sembra che il suo minimalismo (e quello di Steve Reich e Philip Glass ovviamente) sia diventato una sorta di fuga ideale per molti musicisti, ormai propensi a cercare nell'ipnotismo ripetitivo il loro campo ideale.

 

Non può essere certo un caso il fenomeno Necks, arrivati ormai con l'ultimo Three, al ventunesimo album. C'è da dire che il trio australiano è certo il più aperto all'approccio improvvisativo, nondimeno il reiterare cellule melodico/ritmiche seppur improvvisate rimane la loro cifra stilistica, di certo affascinante. L'ultimo album continua a sorprendere pur restando all'interno della loro formula, con aggressioni ritmiche e paesaggi lunari, dolci arpeggi di pianoforte e iterazioni morbide. 


Ma in questo panorama geograficamente insolito dall'Australia si passa abbastanza sorprendentemente alla Svizzera. Qui la rotondità e anche l'estrema varietà di atmosfere dei Necks lascia spazio a formule matematiche, a veri e propri inserti ipnotici che trascinano l'ascoltatore in un'altra dimensione. Il pianista Nik Bartsch e il suo progetto Ronin sono rigorosi in questo approccio minimale. Cellule ritmiche e frammenti melodici si accumulano lentamente senza lasciare spazio a interferenze soliste, sfruttando al massimo l'elemento ossessivo. Il loro zen funk, come lo stesso Nik descrive la musica del gruppo, esiste dal 2001 e quindi anch'esso vanta una lunga militanza nei territori dell'accumulazione. Non sorprende, quindi, che abbia fatto proseliti. 


Il quartetto Sonar (minimal progressive groove band si definiscono), sempre svizzero, in questi ultimi due anni ha incluso tra le proprie fila, come ospite ma pienamente dentro il progetto, nondimeno che David Torn, chitarrista americano attivo nei territori sperimentali e sempre presente in uscite discografiche e progetti di alto livello. Qui a dominare le cellule musicali sono le chitarre e, a differenza dei Ronin, il materiale ipnotico è stemperato da lunghi paesaggi sonori che delineano sopra l'ossessività ritmico/melodica squarci spaziali, fughe stellari. Nondimeno l'elemento minimalista è preponderante e ricorda talvolta i King Crimson di Discipline, soprattutto il brano omonimo. Infatti il chitarrista Stephan Thelen (autore anche di pregevoli lavori solisti)  ha partecipato ai seminari di Robert Fripp e alcune sue composizioni sono state eseguite dal Kronos Quartet, altro mirabile esempio di minimalismo e longevità.
 

Proseguendo in questa rapida carrellata giungiamo finalmente là dove tutto è nato (o almeno sembra essere nato), gli Stati Uniti. I Sunwatchers sono un quartetto proveniente da Brooklin e, rispetto agli esempi precedenti, sono forse i meno minimalisti. Contraddistinti da un' anomala tessitura di sax e chitarra elettrica, i quattro (aiutati spesso da ospiti), pur lavorando su intrecci ripetuti spesso lasciano il campo a variazioni, inserti inquieti e assoli, lasciando respirare profumi psichedelici e aromi jazz. 


A chiudere il lotto (ma sicuramente di gruppi e progetti ce ne sono molti altri), sempre da New York, i 75 Dollar Bill, duo formato da Che Chen (chitarra) e Rick Brown (batteria). Qui il minimalismo mostra evidenti i suoi contatti con la musica folkloristica, in questo caso dalla Mauritania e da uno dei suoi gruppi etnici, i Mauri, con sovrapposizioni di ritmi e riff. Ma è abbastanza chiaro che tutti questi lavori, al di là dei compositori americani come Riley, Reich e Glass, fondino le loro radici in gran parte nella musica africana, nelle sue lunghe espressioni sonore fatte di ritmi intrecciati e linee melodiche. 


Possiamo benissimo allargare il campo anche ad altre forme musicali folk, lì dove la musica era strumento di ritualità, utile e necessaria alle popolazioni per entrare in contatto con altre dimensioni, spirituali e corporee. E qui veniamo a una breve riflessione sul significato di queste musiche che fanno della ripetizione la loro cifra stilistica. Un aspetto fondamentale è la lunghezza delle composizioni, in apparente contrasto con un mondo dove l'attenzione è minima e il messaggio deve essere veloce, rapido e conciso. Ma probabilmente è proprio questa la ragione del relativo successo di questi minimalismi. E' come se, a fronte di una continua sollecitazione visiva, sonora e intellettuale, questi musicisti cercassero un rallentamento, o meglio un'interruzione del flusso di informazioni portando gli ascoltatori in un'altra dimensione. La lunghezza e la reiterazione, l'ossessività e l'elaborazione di pochi parametri che lentamente si modificano, produce la creazione di un paesaggio sonoro che frena le modificazioni della nostra mente. E tutto sommato non sarebbe male fermarsi un attimo e uscire dal vortice, lasciarsi trasmutare in una trance sonora, un buco spazio/temporale che ci lasci assaporare un diverso fluire del tempo, più esteso e multiforme. 

Piccola discografia consigliata

The Necks, Hanging Gardens, Fish Of Milk, 1999
The Necks, Drive By, Fish Of Milk, 2003
The Necks, Three, Fish Of Milk, 2020
Nik Bartsch's Ronin, Stoa, ECM, 2006
Sonar With David Torn, Vortex, RareNoise, 2018
Sonar With David Torn, Tranceportation Vol.1, RareNoise, 2019
The Sunwatchers, Oh Yeah?, Trouble In Mind, 2020
75 Dollar Bill, I Was Real, Thin Wrist Recordings, 2019

pop
  

venerdì 22 maggio 2020

Four


Questa è la prima incisione di uno dei classici di Miles Davis, uno dei suoi cavalli di battaglia per lungo tempo, divenuto giustamente un famoso standard. Ho ascoltato questa versione in un bellissimo cd antologico uscito in edicola per la Armando Curcio Editore nel 1991, Dizionario Enciclopedico del Jazz, con una presentazione nel booklet di Franco Fayenz. E l'ho sempre considerata un capolavoro. Se qualcuno mi chiedesse cos'è il jazz, ecco, probabilmente farei ascoltare questo brano. Mi sembra tutto così perfetto, sensuale, commovente, di un calore intenso e di una liricità unica. Il brano, le improvvisazioni di Davis e di Horace Silver, l'accompagnamento e le interazioni di Percy Heath e Art Blakey, la ripresa del tema modificato e anche lo strano finale che lascia tutto in sospeso, come se non finisse mai quell'emozione.  


Sono andato, con il tempo, ad indagare su quella registrazione, a cercare di scoprire le vicende intorno a quella musica, le circostanze e il momento storico. Non senza sorprese, ho scoperto che questa versione di Four è, per l'appunto, la prima ad essere stata incisa e venne pubblicata in un Lp a 10 pollici della Prestige (una sorta di mini Lp) dal titolo Miles Davis Quartet. Il disco in realtà fu registrato in due session differenti. La prima facciata è del 19 maggio 1953 mentre la seconda è del 15 marzo 1954. Diverse anche le formazioni: nel 1953 oltre a Davis abbiamo John Lewis al piano, Percy Heath al contrabbasso (il Modern Jazz Quartet!), Max Roach alla batteria e, solo in Smooch, un inedito Charles Mingus al piano al posto di Lewis. La seconda facciata, con Four, That Old Devil Moon e Blue Haze, vede al pianoforte un giovane Horace Silver, al contrabbasso sempre Percy Heath e alla batteria Art Blakey. Nella prima facciata i brani sono When Lights Are Low, Tune Up, Miles Ahead e, come detto prima, Smooch
 
A parte questi dettagli, più interessante è sapere in quali circostanze Davis si trova a registrare questo particolare Lp, e soprattutto i brani della seconda facciata tra i quali Four. Nella sua splendida autobiografia Miles racconta come in quel periodo la sua dipendenza dall'eroina fosse un grosso problema, non solo fisico e mentale ma anche musicale. La difficoltà nel suonare, nel concentrarsi, e la schiavitù dovuta alla droga che lo rendeva nervoso e incapace di organizzare la sua vita, artistica e non.  In poche e struggenti pagine racconta del suo tentativo di disintossicazione, e del dolore e della fatica di quei giorni chiuso a chiave in un piccolissima dependance della casa del padre. Alla fine ce la fa, ma non sarà un'uscita definitiva. 
Per evitare di avere troppe tentazioni con la droga, invece di tornare a New York, dove era più semplice procurarsela, si rifugia per qualche mese a Detroit. Poi, sentitosi più sicuro, agli inizi del 1954 torna nella Grande Mela e inizia a registrare sia per la Blue Note che per la Prestige. 


Ancora alcuni particolari: il brano, Four, è sempre stato attribuito a Miles Davis, ma il sassofonista Eddie Cleanhead Vinson ne ha rivendicato la paternità, insieme ad un'altra bella composizione anch'essa attribuita a Davis, Tune Up. Sembra che Miles abbia composto e registrato Four perché in quel periodo voleva suonare in quartetto, come poi avvenne in effetti. Al suo ritorno a New York, visto che aveva perso la sua tromba, noleggiò numerose volte quella di Art Farmer, e probabilmente Four venne registrata proprio con questa. 
  
Ma perché individuare questa registrazione come dimostrazione di autentico jazz, come un archetipo della musica afroamericana? 
Ognuno di noi porta con se emozioni che tracciano il proprio percorso di vita e che sfuggono naturalmente a spiegazioni oggettive. Abbiamo dei piccoli tesori che ogni tanto riapriamo e che ci illuminano il cammino, ci guidano talvolta, oppure ci accompagnano. Per chi suona, oppure per chi scrive, dipinge, recita, l'individuazione di questi modelli rappresenta una continua fonte di ispirazione. E si torna lì, alla sorgente, per continuare ad irrorarsi di idee e stimoli, sperando di trovarne sempre. 

Four è così semplice e allo stesso tempo così affascinante. Quel suono unico di Davis che tratteggia con assoluta naturalezza melodie instancabili. Quel suo stare sul tempo e dentro al tempo, quel suo posarsi sul timing in maniera delicata ma sicura. I silenzi che si incastonano nelle intense frasi suonate da Davis stimolano un ascolto continuo e incessante. Vorresti risentire continuamente il brano per scoprire i segreti di una bellezza così eterea e allo stesso tempo avvolgente, ammaliante. 
E poi c'è Percy Heath con quel suono di contrabbasso così rotondo e morbido che danza costante, sotterraneo. Horace Silver che sottolinea e dà vigore all'improvvisazione, e a sua volta si produce in un assolo anch'esso così semplice, lineare e per questo suggestivo. La batteria di Blakey che tinge di striature velate tutto il brano,  accompagnandolo verso un flusso continuo che scorre intenso, a contrappuntare le emozioni. 

Questo Four possiede un raro equilibrio, tutte le dinamiche e gli eventi si susseguono come se fossero inevitabili, desunte dai contesti precedenti, dalle intuizioni e dalle proposizioni. Appare tutto semplice e naturale, come se ci fosse sempre stato.  Ed è questo, forse, il suo più grande pregio. 

Ognuno di noi ha un suo Four, e anche più d'uno ovviamente. Proverò a scovarne, tra conferme e sorprese, com'è giusto che sia, tra le scene musicali. Di tanto in tanto. 



pop

lunedì 23 marzo 2020

Swingin' London

In tempi di Brexit (e di molto altro, purtroppo) non sarebbe proprio il caso di pubblicare questo post, ma tutto sommato male non fa. In realtà questo scritto è parte di un'ampia ricerca sulla scena di Canterbury, pubblicata in 4 puntate sulla rivista Prog Italia. Parzialmente rielaborato e corretto, mi sembrava comunque utile metterlo su questo blog. Buona lettura!


Swingin’ London

Il miracolo economico degli anni ‘50, soprattutto negli Stati Uniti, e poi anche in Gran Bretagna e nel resto d’Europa, produsse per la prima volta nella storia dell’occidente, una massa di adolescenti in grado di “consumare” oggetti e musiche per il loro tempo libero e quindi di affermarsi come area omogenea, ben distinta dai bisogni e dalle esigenze degli adulti. Questo trasformò l’industria musicale, che si ritrovò a disposizione un mercato diverso dal passato ma ricco di esigenze e affamato di novità.



La musica rock, spodestando in questo senso il jazz, “divenne il mezzo multiuso per esprimere desideri, istinti, sentimenti  e aspirazioni”[1] del mondo dei giovani. Le vendite dei dischi negli Stati Uniti, dal 1955 (anno di nascita del rock‘n’roll) al 1959, crebbero con percentuali altissime rispetto al passato[2] e mostrarono le potenzialità che la nuova musica giovane aveva per l’industria discografica. Industria che tuttavia, agli inizi degli anni ‘60, si trovò in difficoltà nel tentare di proporre cloni di Presley o personaggi non così dirompenti nell'immaginario giovanile come lo furono i primi cantanti rock‘n’roll. 



La registrazione del primo 45 giri nel 1962 da parte dei Beatles diede l’avvio ad una nuova grande rivoluzione nell’ambito della musica pop a livello internazionale. Per uno strano destino,  il testimone della ri-nascita del rock passò dagli Stati Uniti al vecchio impero britannico ormai in decadenza, ma capace di riportarsi al centro della scena mondiale con la sua produzione artistica. L’esplosione dei Beatles e, in generale della musica rock inglese, è preceduta da una forte attività artistica che segue i binari dell’imitazione e, allo stesso tempo, dell’autonomia[3].
L’esempio dei folk singer americani porta alla presa di coscienza del patrimonio popolare inglese, sia in una dimensione più propriamente folk che sotto l’aspetto politico e militante. Il grande successo, nell’immediato dopoguerra,  del jazz tradizionale “…lascia il posto allo skiffle, una sorta di versione proletaria del rhythm and blues che si poteva suonare anche senza conoscere la musica e con strumenti d’occasione”[4] ed è da qui che anche i Beatles passeranno.



Accanto alle imitazioni del rock‘n’roll americano  l’altro grande filone su cui si muove la musica inglese è il blues. “All'origine corrisponde al mito crescente dell’America”[5], ma agli inizi degli anni ’60 diventa un fenomeno tipicamente britannico (anzi, londinese), con una serie di gruppi e musicisti importanti per gli sviluppi futuri della scena musicale anglosassone. 
E il blues diventa un terreno comune dove suonano insieme i primi jazzisti inglesi e musicisti rock. Significativi, da questo punto di vista, sono i Bluesbrakers di John Mayall e la formazione di Alexis Korner, Blues Incorporated: qui “muovono i primi passi personaggi del calibro di Mick Jagger, Brian Jones, Keith Richards, Charlie Watts (i Rolling Stones!), ma anche importanti esponenti del jazz inglese quali John Surman, Dave Holland,”[6] e  Lol Coxhill. 
E’ importante sottolineare questa vicinanza e condivisione di esperienze tra jazzisti e rockers, perché poi questo elemento scomparirà nel corso degli anni e rimarrà presente solo nelle vicende dei musicisti di Canterbury.
Beat da una parte e rock blues dall'altra formano inizialmente quel grande fiume musicale che dà vita alla British Invasion dell’America e del mondo occidentale, che fa da colonna sonora ai sogni ed alle aspirazioni dell’universo giovanile europeo ed americano, che spinge migliaia di giovani  ad affrontare la carriera musicale, seguiti in questo da manager, etichette discografiche, impresari.



Il grosso impatto che ebbe la musica rock è solo un tassello della più ampia rivoluzione culturale che si ebbe, a livello mondiale, nel corso degli anni ’60. L’insofferenza dei giovani verso regole, comportamenti, leggi e istituzioni fu dirompente e dal mondo anglosassone s’innescò l’esplosione.
L’universo giovanile esplorò e rivoluzionò tutti i linguaggi artistici, trovando in alcune città, prima fra tutte Londra, la swingin’ London, la propria residenza eletta, il luogo dove poter sperimentare la “rivoluzione psichedelica”, dove produrre quegli elementi di una società diversa, più libera, più giusta, più creativa.
Il 1968, con la sua carica di gioia e di rivoluzione, spazzò vecchie consuetudini, antichi retaggi culturali, politiche reazionarie e impose al mondo intero l’idea che una rivoluzione, in alcuni casi solo culturale, in altri politica e sociale, fosse possibile. E il soggetto trainante fu quell'universo giovanile che diventò talmente importante da modificare profondamente e per lungo tempo gli assetti sociali, politici e culturali delle società occidentali e non solo.



Un tale sommovimento non poteva non toccare, in modo significativo ovviamente, tutte le espressioni artistiche e quindi anche la musica jazz. L’esplosione del free negli Stati Uniti consentì ai musicisti europei un approccio più originale al jazz e all'improvvisazione, ponendo un serio argine ai fenomeni di emulazione che tanto avevano connotato le prime esperienze jazz nel vecchio continente. E’ in Inghilterra, e soprattutto a Londra, che cominciano ad intrecciarsi diverse esperienze tra loro e che verranno a maturazione agli inizi degli anni ’70. 
La musica improvvisata dei vari Derek Bailey, Trevor Watts, Paul Rutheford, Evan Parker, il jazz degli esuli sudafricani McGregor, Pukwana, Dyani, Moholo, Feza, il rumorismo e l’avanguardia degli AMM di Cardew, Prevost e Rowe, il Ronnie Scott Club con i vari Westbrook, Surman, Holland e McLaughlin, la già citata fucina blues di Alexis Corner e, ovviamente, il rock psichedelico dei Soft Machine e dei Pink Floyd, un calderone creativo e unico che solo una città come la Londra degli anni ’60 poteva ospitare. “L’interesse per la pittura, la poesia, la narrativa, il teatro, il balletto e la scultura, rese più urgente liberare la creatività dai confini formali che separavano i generi musicali e le arti tra di loro; poter suonare insieme quando le distanze si ricoprono con poche fermate di metropolitana , agevolò molto lo scambio quotidiano”[7], e generò musiche “ibride”, nuove rispetto al passato, in un fuoco di passione e creazione che non avrà più eguali. 
Ma la grande onda creativa, al volgere degli anni ’70, comincia a ritrarsi, a “istituzionalizzarsi”, con la moltiplicazione di stili e la professionalizzazione del musicista rock, ora più attento alle vendite ed alle mode. Se da una parte, tra il  1970 e il 1971, escono Elastic Rock dei Nucleus di Ian Carr (sul filone jazz rock aperto dal Miles Davis di Bitches Brew),  Third dei Soft Machine, Septober Energy dei Centipede di Keith Tippett (una sorta di Woodstock da studio di registrazione, con la numerosa presenza di musicisti jazz e rock inglesi), Brotherood of Breath dei musicisti sudafricani esiliati a Londra, dall'altra l’inizio dei ’70 vede anche la morte di tre fra i più grandi e famosi esponenti della scena rock internazionale: Jimi Hendrix, Janis Joplin e Jim Morrison. E’ come una sorta di canto del cigno, la creatività e la/le fusione/i si ritirano nell'alveo sicuro della stabilizzazione e della normalizzazione. 



La crisi economica degli anni ’70, acuita dallo shock petrolifero del 1973, pone le basi per un costante e definitivo abbandono di un modello di sviluppo non più sostenibile da parte del capitalismo. La piena occupazione, il welfare esteso che proprio in Gran Bretagna avevano trovato uno sviluppo crescente, cominciano ad entrare in crisi e i sogni di rivoluzione si diradano lasciando  il posto alla rabbia e alla disperazione di una disoccupazione sempre più estesa (nel 1977 esplode il fenomeno punk, sempre a Londra) e di un allentamento delle tutele sociali da parte dello stato. 
Dal punto di vista musicale, negli anni ’70 “il rock perde quel suo imponente senso della marea montante, la sua creatività unidirezionale, per disperdersi in mille diversi campi. Se prima era un grande fiume , ora diventa un arcipelago”[8]. E’ un fenomeno che toccherà anche il jazz, emarginato nei suoi sviluppi free e avanguardisti, ma di crescente popolarità nella sua fusione con il rock.

In ogni caso il ruolo di Londra negli anni '60 e '70 nell'evoluzione, nel parziale depotenziamento e infine nella radicale mutazione dell'estetica delle musiche popolari e del loro intreccio costante con le dinamiche dell'universo giovanile è fondamentale,  propulsivo. 
“Riassumendo: un intreccio di circostanze plasmò a Londra un’intera generazione di musicisti; l’amore per i maestri americani, la passione per i toni insurrezionali del free, la fedeltà tutta inglese, indistruttibile, alla tradizione, al folk, il piacere di suonare blues, il divertimento adolescenziale del putiferio beat, la provocazione intellettuale suggerita dal gruppo Fluxus, le caleidoscopiche avventure nello spazio psichedelico e l’incontro ravvicinato con i fratelli sudafricani”[9].



 pop 


[1] E. Hobsbawm , “Gente non comune”, RCS Libri, Milano, 2000, pag. 361
[2] E. Hobsbawm , Ibid. pag. 360
[3] G. Castaldo, “La terra promessa”, Feltrinelli Editore, Milano, 1994, pag. 94.
[4] A. Carrera, “Musica e pubblico giovanile”, Feltrinelli Editore, Milano, 1980, pag. 83
[5] Ibidem, pag. 94
[6] G. Nanni, “Rock Progressivo Inglese”, Castelvecchi Editore, Roma, 1998, pag. 17
[7] C. Bonomi – G. Fucile, “ Elastic Jazz”, Auditorium Edizioni, Milano, 2005, pagg. 19-20
[8] G. Castaldo, “La terra promessa”, cit., pag. 202
[9] C. Bonomi – G. Fucile, “Elastic jazz”, cit., pag. 22

giovedì 19 marzo 2020

Weird Tales. Il Gioiello di Bennie Maupin!

Wayne Shorter, Joe Zawinul, Chick Corea, Larry Young, John McLaughlin, Dave Holland, Jack DeJohnette, Lenny White...e poi Harvey Brooks, Don Alias e Jumma Santos (alias Jim Riley). Questo è il personale che partecipò alle sessions di Bitches Brew di Miles Davis, uno dei dischi più importanti della musica occidentale, quel prodotto che può benissimo fregiarsi, senza scomporre nessuno, dell'appellativo di capolavoro. Ai più attenti sarà subito saltato agli occhi l'assenza di un musicista in questa lista: Bennie Maupin

La stragrande maggioranza dei nomi su elencati è come se fosse un who's who del jazz, una sorta di elenco di alcuni tra i più importanti musicisti della storia della musica afroamericana. Se si esclude Harvey Brooks, che jazzista non era e comunque, oltre ad aver registrato con Davis suonò anche con Dylan su Highway 61 Revisited e con i Doors di The Soft Parade, e il percussionista Jumma Santos, Bennie Maupin sembra l'unico a non aver avuto la stessa fortuna e carriera capitata agli altri. E' come se l'esplosione creativa propagatasi da quel doppio lp non lo avesse coinvolto pienamente, o in qualche modo lui se ne fosse ritratto, messo di lato dal fecondo vortice, anche commerciale va detto. 
Indubbiamente tutti i musicisti coinvolti in Bitches Brew avevano già una loro carriera, più o meno importante. Ma quel disco li portò alla ribalta negli anni successivi alla sua uscita (30 marzo 1970, Columbia), cambiandone persino le coordinate artistiche e incidendo profondamente sul prosieguo del loro percorso artistico. Tutti, eccetto forse il solo Bennie Maupin
E' vero, anche lui venne trascinato nel gorgo elettrico come componente, anche qui fondamentale, degli Head Hunters di Herbie Hancock e prima ancora, sempre a fianco di Hancock, nei dischi Mwandishi,  Crossings  e Sextant. Ma, per l'appunto, non sono suoi progetti, non sembra esserne volontariamente l'artefice, bensì un collaboratore, seppur importante, dell’ideatore di quei gruppi, cioè Hancock.

Multistrumentista, a suo agio con i sax tenore e soprano, con il flauto e con il clarinetto basso, Maupin è certamente distante dall'altro grande polistrumentista, Eric Dolphy. Dove il secondo è esuberante, angoloso, graffiante e irruento il primo è elegante, a volte soave, morbido e insinuante, si inserisce fra le pieghe dei suoni e costruisce con cura le sue improvvisazioni. Uno è passionale, l'altro è meditativo. Dolphy, pur nella sua breve carriera, ha collaborato con tantissimi musicisti, ha scritto pagine memorabili nella storia della musica afroamericana. Maupin è sicuramente un personaggio di secondo piano, meno incline alle collaborazioni, e con una produzione limitata pur se importante e significativa.
Dicevamo, a proposito dei musicisti di Bitches Brew, delle differenti e importanti carriere precedenti alla realizzazione del disco di Davis. Ecco, Maupin è tra i pochi a non avere alle spalle grosse collaborazioni. Saltuariamente con Horace Silver e Roy Haynes, nel 1967 è nel settetto di Marion Brown con il quale incide il bel disco Juba Lee (mentre nel 1970, sempre a nome di Brown, registrerà Afternoon Of A Georgia Faun, per la ECM), poi lavora abbastanza stabilmente con Lee Morgan registrando Caramba, il Live At Lighthouse e Taru, uscito nel 1980 ma registrato nel 1968. La collaborazione con Morgan lo porta anche a suonare con McCoy Tyner e a registrare Tender Moments, del 1968 e, a dimostrazione comunque delle qualità di Maupin, Together, del 1979, con una line up a dir poco stellare: Stanley Clarke, Jack DeJohnette, Freddie Hubbard, Hubert Laws, Bobby Hutcherson e il percussionista degli Head Hunters Bill Summers.


Su indicazione di DeJohnette, con il quale Maupin aveva registrato The DeJohnette Complex (disco d'esordio del batterista) e successivamente Have You Heard? e Sorcery, e dopo averlo visto dal vivo con McCoy Tyner, Miles Davis chiama il sassofonista per le sessions di Bitches Brew. Maupin si aspettava di dover suonare il sassofono mentre, con sua grande sorpresa, Davis gli chiede di suonare esclusivamente il clarinetto basso (https://www.thelastmiles.com/interviews-bennie-maupin/). Intuizione notevole, a conferma della grande intelligenza e del formidabile intuito di Miles, che caratterizzerà profondamente la musica di quel disco. Non possiamo immaginare Bitches Brew senza quel suono scuro, profondo e inquietante del clarinetto basso di Maupin, un suono che impregna tutta la musica e la rende selvaggia, ancestrale.
George Grella Jr, nel suo bel libro Bitches Brew, edito dalla Minimum Fax lo scorso anno, scrive, a proposito del primo brano del lato B del secondo disco: "Miles Runs The Voodoo Down, inoltre, dimostra quanto Maupin fosse fondamentale per Bitches Brew. Il clarinettista fa ciò che Miles gli ha chiesto di fare, inventarsi qualcosa sotto la linea principale, e se la cava a meraviglia. L'estensione del suo strumento non interferisce con il contrabbasso, tanto cristallina e inventiva è l'esecuzione: è evidente che Maupin ascolta gli altri musicisti con un'attenzione che gli permette di farsi sentire senza pestare i piedi a nessuno. Spesso Holland coglie al volo le sue frasi e le ripete in una sorta di pas de deux improvvisato dietro il solista. Un sublime esempio di interazione di gruppo".

Maupin sarà con Davis anche in altri dischi: A Tribute To Jack Johnson, Big Fun e On The Corner. A riprova dell'importanza del musicista nel progetto elettro funk di Miles.
Il suono caratteristico e l'approccio attento e profondamente relazionale di Bennie Maupin diventa fondamentale anche per Hancock e per il suo sestetto, fondato sulla scia del successo di Bitches Brew e della sua estetica elettrica. Mwandishi, Crossings e Sextant, la trilogia "swahili", sono una sorta di preludio all'esplosione commerciale degli Head Hunters, dove Maupin è l'unico componente del precedente gruppo rimasto a fianco di Hancock.



A questo punto, diventato abbastanza noto e caratterizzatosi come polistrumentista efficace e artefice del suono fusion, jazz funk, che va ormai per la maggiore, Maupin decide che è giunto il momento di registrare il primo album a suo nome, The Jewel In The Lotus, pubblicato dalla ECM nel 1974.
E qui ci troviamo di fronte ad un lavoro sorprendente, unico e mai più eguagliato. Un piccolo gioiello (The Jewel per l'appunto) anomalo, che getta una luce differente su Bennie Maupin.
I musicisti coinvolti sono quasi tutti del giro Mwandishi/Head Hunters: ovviamente Hancock al piano acustico ed elettrico, Buster Williams al basso, Bill Summers alle percussioni, Billy Hart alla batteria. E poi, potremmo definirli così, due outsider: Frederick Waits, altro batterista, a fianco di McCoy Tyner, Andrew Hill, in Karma di Pharoah Sanders e con Marion Brown in Back To Paris del 1980, mentre alla tromba, in soli due brani, c'è Charles Sullivan, battitore libero a fianco di Kenny Baron, Sonny Fortune Yusef Lateef tra gli altri.


Chi si aspettava di ritrovare le sonorità elettriche, i groove e i ritmi funk caratteristici delle frequentazioni di Maupin rimane completamente spiazzato. E' un lavoro che parla al futuro, e quindi al nostro presente, che illumina per la sua creatività e compostezza allo stesso tempo. Soprattutto è un disco corale, dove il leader non sovrasta ma coordina e organizza l'intero lavoro, facendo emergere un suono collettivo, dove non conta il solista ma l'espressione comune e la relazionalità. 
Altra particolarità: le due batterie, su due canali differenti, e le percussioni non lavorano sul groove,  ma colorano incessantemente la musica, la contrappuntano, ne sottolineano alcuni passaggi, fanno spesso da tappeto sonoro. C'è uno spazio dilatato, disteso, un respiro ampio che avvolge l'ascoltatore. 

Ensenada, il primo brano del disco, ha un'atmosfera pastorale , con il flauto accompagnato dal piano acustico che disegna larghe melodie e batterie e percussioni a colorare e tinteggiare delicatamente il brano. Mappo è più misterioso, con un inizio orientaleggiante del flauto, nel mezzo un breve accenno di ritmo regolare e le batterie che lavorano quasi esclusivamente sui piatti, per poi lasciare spazio, nel finale, alle scorribande al piano di Hancock che inquietano il mood del brano, inscuriscono e ispessiscono la composizione in un crescendo maestoso e atonale, per poi concludersi con pochi accordi di piano e la melodia iniziale del flauto. 
Ci sono due brevi intermezzi, Past + Present = Future e Winds Of Change, poetici e rilassanti, poche note, linee orientali,  piano e flauto nel primo brano, il secondo solo fiati. 
Excursion è introdotta dalla voce di Maupin filtrata, mescolata a suoni scuri, con un ottavino in lontananza e il contrabbasso che emerge con poche note. Poi giungono clarinetto basso e piano in un crescendo angosciante, un magma sonoro con la tromba sordinata che scandisce poche note. Le strappate e poi le urla del clarinetto basso ci portano in un vortice scuro, fatto di grida e frammenti pianistici per poi, dolcemente, adagiarsi e concludere. 
L'inizio di The Jewel In The Lotus, la title track, con piano elettrico e sax soprano sembra riportarci alla trilogia "swahili", ma è un'illusione, il groove non arriva, si rimane in uno spazio etereo, distensivo, con batterie e percussioni ad avvolgere il brano. In Songs For Tracie Dixon Summers c'è spazio per un'affascinante introduzione di contrabbasso, in splendida solitudine, e poi l'arrivo del sax soprano che tratteggia una larga e commovente  melodia sostenuta dal piano e, al solito, un contrappunto di batterie e percussioni. 
Il finale del disco è affidato a Past Is Past, un clarinetto basso suonato sulle note alte ed un elegante  pianoforte acustico: una conclusione struggente ed evocativa per un lavoro incantevole. 


Dicevamo dell'anomalia e dell'unicità di questo disco perché, nel frattempo, Maupin suona e registra tutt'altro. E' presente in molti lavori di Eddie Henderson, trombettista nei Mwandishi di Hancock e autore di una fusion abbastanza commerciale. Lo stesso Maupin pubblica a suo nome, nel 1977 e nel 1978, per la Mercury, due dischi assai lontani dalle atmosfere e dalla bellezza di The Jewel In The Lotus. Slow Traffic To The Right e Moonscapes, entrambi prodotti da Pat Gleeson, al synth su Crossing e Sextant di Hancock, sono due classici lavori di elegante funk, sulla scia degli Head Hunters. Intriganti groove, atmosfere compassate, ritmi ballabili, tutto molto lontano dal "gioiello nel loto". 

Di lui non si hanno più molte notizie fino agli anni 2000. Riappare sulle scene con Penumbra, a capo di un ensemble con alla batteria Michael Stephans, al contrabbasso il polacco Darek Oleszkiewicz e alle percussioni Daryl Munyungo Jackson. Composizioni registrate nel 2003 e pubblicate dalla Cryptogramophone nel 2006, Penumbra è anch'esso disco particolare, lontanissimo dal periodo funk e con atmosfere e suggestioni per alcuni versi vicine al suo primo disco solista. Non c'è uno strumento armonico e la musica, scarna e primitiva, è ricca di ritmi sotterranei, di sapore afro, con i fiati di Maupin a disegnare anomale melodie ed eleganti improvvisazioni, una narrazione morbida e  ben costruita. 
Nel 2008, sempre per la stessa etichetta, esce a nome Bennie Maupin Quartet, Early Reflections. A capo di una formazione di musicisti polacchi, Michal Tokaj al piano, Michal Baranski al contrabbasso, Lukasz Zyta alla batteria e percussioni, e in soli due brani la voce di Hania Chowaniek-Rybka, Maupin pubblica un disco certamente meno interessante di Penumbra. Il suono è sempre caldo, soprattutto al clarinetto basso, le note cercate e suonate con cura, le improvvisazioni hanno il carattere di piccoli racconti, ma il tono generale è un po' banale, forse troppo soft e alla ricerca della magia del Gioiello. Che purtroppo non arriva, e forse è giusto che sia così, che quel disco rimanga un prezioso ed unico lavoro custodito nel fiore di Loto, affascinante per la sua forma e il suo profumo.

Om Mani Padme Hum. Tra i più diffusi mantra del buddhismo tibetano, viene tradotto come Il Gioiello Nel Fiore Di Loto, o meglio ancora Gioiello Del Loto. Uno dei significati più noti è la collocazione del Gioiello, simbolo di amore illimitato verso tutti gli esseri e profondo desiderio di liberarli dalla sofferenza, nel Loto, simbolo della coscienza umana.


pop

Recensioni. Kevin Ayers and The Whole World "Shooting at the Moon"

  Kevin Ayers And The Whole World SHOOTING AT THE MOON Harvest 1970 Il secondo album solista di Kevin Ayers vede al suo fianco, al co...