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lunedì 17 giugno 2019

Weird Tales. I Dream Syndicate e Karl Precoda

Il gruppo non è certo di quelli famosi, almeno non tra il grande pubblico. E' invece stata, e lo è ancora, una di quelle formazioni di culto, venerata da un ristretto numero di fans in giro per il mondo e che con gli anni ha incrementato, seppur di poco, la propria fama.


Parliamo dei Dream Syndicate, da un paio di anni di nuovo in carreggiata,  gruppo guida del Paisley Underground, quel piccolo movimento, o meglio corrente musicale, che agli inizi degli anni '80 riportò in voga la psichedelia, un certo rock grezzo, sicuramente influenzato dal punk, e un ritorno al sound chitarristico prettamente americano.
Arrivarono, Dream Syndicate, Green On Red, Rain Parade, True West, Three O' Clock, Opal, Long Ryders, Bangles, in un periodo di trionfo del sound sintetico, batterie elettroniche, tastiere, synth pop e brani dance. Con loro tornarono alla ribalta il sudore, le chitarre distorte, gli assoli e un certo rock primitivo che probabilmente non era mai andato via, semplicemente era rimasto sotto traccia, in attesa di riemergere più sporco che mai. 
E agli inizi i Dream Syndicate erano veramente sporchi, così impregnati di punk ma con forti legami con il Neil Young dei Crazy Horse, la psichedelia di Nuggets, la visionarietà del Verlaine dei Television, e le atmosfere scure e inquietanti dei Velvet Underground
Il tutto di provenienza West Coast, termine che già racchiude in sé un cumulo di suoni, atmosfere e significati tutto particolare ed alquanto caratteristico.


Steve Wynn, chitarra e voce, Karl Precoda, chitarra solista, Kendra Smith, basso, Dennis Duck, batteria, esordiscono nel 1982 con l'ep The Dream Syndicate, per poi pubblicare, sempre nello stesso anno, The Days Of Wine And Roses, loro primo lp prodotto da Chris D. dei Flesh Eaters.
Queste, fin qui, le note basilari, le informazioni primarie buone per avere un quadro, seppur sommario, della situazione.
In realtà non voglio fare un excursus critico dei lavori dei Dream Syndicate, ma affrontare particolari aspetti e curiosità.
Iniziamo dall'effettivo ruolo che hanno i membri del gruppo. La leadership è chiaramente nelle mani di Steve Wynn, cantante, frontman e autore della maggior parte dei brani. Sezione ritmica essenziale, non particolarmente brillante, poche variazioni, qualche buona linea di basso di Kendra Smith e drumming costante a supporto della musica da parte di Dennis Duck. Ma, come spesso accade nel rock, e non solo, tutto questo sembra funzionare alla perfezione con, in aggiunta e per nulla secondario in quanto a peso effettivo nel gruppo, la chitarra solista di Karl Precoda. E qui c'è il primo elemento da sottolineare. Come in tutte le storie rock che si rispettano, anche la musica dei Dream Syndicate vive e sgorga furiosa e ammaliante dall'opposizione di due personalità: quella dell'autore dei brani, del songwriter un po' sghembo ma pur sempre affidabile e alla ricerca del Nuovo Racconto Americano, e quella del folle visionario, chitarrista acido (il più acido d'America si diceva ai tempi!), irrequieto e irriducibile all'ordine, alla regolarità.


 Steve Wynn e Karl Precoda sembrano incarnare le due anime del gruppo, quella psichedelica e avventurosa e quella del rock ruvido e tradizionale. In realtà, dobbiamo dirlo, in tutti e due vive la fiamma dell'irrazionale, della fuga in avanti pur ancorati alle esperienze rock del passato,  elettrizzare improvvisamente la musica per poi lentamente raffreddarla in eterei fluidi cangianti. Tuttavia sono ben chiari gli approcci e i contributi di entrambi; scrittura di brani, splendide melodie con testi intriganti e distorsione degli stessi con scorribande dissonanti e incalzanti, apertura dei confini e correnti psicotiche.
Si è molto parlato, in passato, di Steve Wynn, della sua leadership e delle sue qualità come songwriter, grazie anche ad una buona carriera lontana dal gruppo. Ma, ed è qui il senso di questo post, troppo poco si è parlato della personalità di Precoda, la chitarra solista dei primi Dream Syndicate. Di chiara ispirazione hendrixiana, Karl Precoda è chitarrista anomalo, per certi versi irrispettoso e inaffidabile. C'è molto di suo nella proposta sonora dei Dream Syndicate così fresca e coinvolgente. Non si lascia irretire dalle efficaci melodie intrise di blues e roots di Wynn, non le accarezza con sagacia e virtuosismo, bensì le graffia, le assesta colpi distorti per allungarle, stirarle verso ignoti viaggi mentali e le trasforma in autentici brani psichedelici.
Il solismo di Precoda è abbastanza particolare perché di solito non segue i consueti canoni del chitarrismo rock. Non è un virtuoso ma sa dosare bene le sue capacità elaborando degli interventi musicali affatto originali, inaspettati direi. Là dove ti aspetteresti un fiume di note, un insieme di pentatoniche una dopo l'altra, lui cambia completamente strada, si incammina in territori inesplorati evocando molto con poco. E' come se dicesse, ok qui si dovrebbe fare così ma io faccio un'altra cosa, anche se al primo ascolto non vi piace. Un esempio significativo è il brano che dà il titolo al loro primo Lp, The Days Of Wine And Roses.

https://www.youtube.com/watch?v=f-_G7A0RbjU

Splendida canzone strutturata su strofe, ritornelli, brevi bridge, e poi una lunga parte centrale dove Precoda mostra le sue peculiarità di chitarrista "acido". In un brano così ti aspetteresti un assolo di chitarra pieno di fraseggi blues, e invece ci troviamo di fronte ad un lungo, estenuante e inquietante magma sonoro, fatto di rumore, brevi frasi distorte costruite sulle note basse della chitarra che si confondono con la ritmica di Wynn. Non sembra neanche essere un solo bensì una macchia sonora che emerge e poi riaffonda all'interno dello scorrere del tempo, così deforme ed allo stesso tempo originale. E poi, alla fine, una breve sequenza cromatica che finisce su un Mi ossessivo, lancinante, minimalista e inquietante, lungo, che sembra non voler finire mai e che lancia il ritorno della voce di Wynn, per concludersi in un assalto sonoro con il ritornello ripetuto più volte, sempre più urlato, sempre più sporco. Il finale, secco ed inarrivabile (con evidente errore ritmico!), lascia l'ascoltatore esausto. Si potrebbe benissimo dire: ecco, questo è Precoda. Forse nessun altro chitarrista rock avrebbe avuto il coraggio di suonare così in un brano. Molto con poco, è la sua filosofia.
Altro esempio è Until Lately, sempre sullo stesso lp, dove si produce in una linea di chitarra che fa da contrappunto alla voce di Wynn, per poi sporcare le strofe , in sottofondo, con rumori e feedback, note singole distorte e penetranti.  Anche qui nel finale la chitarra esplode sotto le frasi sempre più urlate di Wynn e un'armonica a bocca che ricorda il primo blues. Il brano di apertura di The Days Of Wine And Roses è, anch'esso a suo modo, una sorta di manifesto dell'approccio per molti versi minimalista, di Precoda. Tell Me When It's Over è una splendida ballata, si potrebbe dire tipica dei Dream Syndicate. Un bel riff, una suggestiva linea melodica e poi, quando ci sarebbe tutto lo spazio per un assolo di chitarra, Precoda preferisce suonare una sola nota, ripetuta, dolce e sognante (una delle poche sovraincisioni del disco, quasi tutto suonato in diretta). Tutto qui, nient'altro. Mentre su When You Smile, autentico gioiello, l'inizio è affidato ad una serie di feedback che Precoda sembra governare con maestria, lasciando emergere con grazia il dolce arpeggio della chitarra di Wynn. A tutto questo va aggiunto il suono generale del disco: la voce vicina al Lou Reed più alienato, una generale noncuranza degli aspetti esteriori come  la qualità del suono, registrazione in presa diretta, errori, ma quanta energia, quanto sudore e quanta musica. Il tono generale è sporco, ruvido, e questo esalta le caratteristiche di Precoda così come le splendide composizioni di Wynn. All'epoca si diceva ricalcassero troppo i primi Velvet Underground, ed in parte poteva essere anche vero. Ma, a differenza del gruppo newyorchese, c'è meno arte e più istintività, meno elaborazioni intellettuali e più viaggio acido.


Che succede a questo punto? Tutto sembra funzionare, almeno alle nostre orecchie, ma evidentemente non è così. L'approdo ad una grossa etichetta (A&M Records) comporta una serie di modifiche che saranno determinanti per il futuro del gruppo. Partiamo da una delle più evidenti: il cambio del produttore. Da Chris D. si passa a Sandy Pearlman, da un esponente del punk acido americano al creatore del suono Blue Oyster Cult, così perfetto, pulito, preciso. Anche con i Clash di Give 'Em Enough Rope  Pearlman aveva tentato di ricondurre il punk grezzo e riottoso ad una levigata forma metallica assolutamente fuori luogo per una formazione come i Clash. E questa stessa operazione viene riproposta con The Medicine Show, secondo lp dei Dream Syndicate. Non che il suono sia lo stesso dei Clash, ma è quell'approccio ordinato, distinto, da rock adulto, che viene riproposto, scardinando di fatto quell'equilibrio sonoro raggiunto nel precedente lavoro. Ad aggiungere una patina di "serietà" viene aggregato alla formazione il pianista Tom Zvoncheck mentre al posto delle soavi linee di basso di Kendra Smith, che lascia il gruppo per formare gli Opal, arriva Dave Provost.


Non vorrei parlare troppo male di The Medicine Show perché, alla fine, è comunque un bel disco. Ma la magia di quel suono graffiante, acido, irruento, quel viaggio tra i lidi psichedelici che The Days Of Wine And Roses aveva compiuto con rara efficacia, viene deliberatamente eroso da un sound più levigato, gentile e rispettoso dei canoni del buon rock. Ed ovviamente chi ne farà più le spese sarà proprio la chitarra di Precoda, irregimentata in un suono che lascia poco spazio ai rumori, alle fantasie e alle scorribande soniche. Un esempio è il brano John Coltrane Stereo Blues, che dovrebbe in parte ricoprire il ruolo che aveva, nel precedente disco, la title track; una lunga composizione fatta di improvvisazione e viaggio psichedelico. Ecco, qui Precoda avrebbe potuto essere determinante, avrebbe dovuto esplodere con rumori, distorsioni, note lancinanti. E invece rimane timido, ordinato, quasi timoroso di sporcare il brano, e con esso l'intero disco, cosa che invece non era certo accaduta in The Days Of Wine And Roses. Da questo punto di vista è certamente meglio la out take piuttosto che la versione ufficiale presente su disco.
https://www.youtube.com/watch?v=ScO27FcpzNs


Peraltro, a fronte di questa parziale delusione, Precoda piazza uno dei suoi più begli assoli in Bullet With My Name On It, uno dei rarissimi brani da lui composto. E' uno solo melodico, struggente, che riprende la melodia del ritornello modificandola e lanciandola in alto, una sorta di Dave Gilmour acido e spostato.
Mi fermo qui, senza voler andare troppo oltre. La pubblicazione del mini lp This Is Not The New Dream Syndicate Album...Live, conferma ed accentua la tendenza di Medicine Show, con la massiccia presenza delle tastiere che accerchia e soffoca pesantemente la chitarra di Precoda, fino a renderla quasi superflua. E ovviamente, con le registrazioni per il successivo lp Out Of The Grey,  si arriva all'abbandono del gruppo da parte del chitarrista. L'arrivo di Paul B. Cutler, indubbiamente più virtuosistico e abbastanza convenzionale come solista, spegne definitivamente le spinte psichedeliche e rumoriste annegandole in un ovvio suono rock abbastanza scontato. A dimostrazione dell'importanza della chitarra e del solismo di Precoda va sottolineato che anche in questo album la qualità dei brani scritti da Wynn è elevata, ma la mancanza di interventi creativi e spiazzanti, dei magma sonori e dei dardi distorti che percorrevano la musica dei Dream Syndicate porta ad un generale appiattimento musicale. Canzoni carine ma prive dell'estro sonoro del passato.
Fine. Non del gruppo certamente, che pubblicherà altri dischi, si scioglierà e poi tornerà ad incidere e suonare dal vivo, ma di un certo modo di intendere quel rock. La volontà di ripulire, di ingentilire ciò che alla fine è nato un po' sciatto, disordinato, sporco, il più delle volte porta al soffocamento delle istanze maggiormente creative, direi scomode. Ecco, forse la parola giusta per definire Precoda e la sua chitarra è questa: scomodo!
Qui sotto un paio di blog interessanti sui Dream Syndicate.

https://mrowster.wordpress.com/category/karl-precoda/

http://www.myrareguitars.com/the-dream-syndicate

pop

lunedì 13 maggio 2019

Fusion/Thesis. L'arte del trio 2

FUSION/THESIS

Il personaggio è abbastanza particolare, tanto da meritare certamente più attenzione di quanta gliene sia stata data dalla storiografia jazzistica. Nato nel 1921 in Texas, a metà dagli anni ’50 Jimmy Giuffre è un tipico esponente della scena west coast, conosciuto non solo come sassofonista e clarinettista ma anche come ottimo arrangiatore e compositore; è lui infatti che scrive ed arrangia uno dei maggiori successi dell’orchestra di Woody Herman, Four Brothers, del 1947. Ma, contrariamente ad alcuni suoi colleghi come Gerry Mulligan, Stan Getz o Dave Brubeck, si allontana pian piano dai riflettori, dal successo commerciale preferendo sperimentare nuove soluzioni e sonorità. 


Ispirato dalla Sonata per flauto, viola e arpa di Debussy e con l’idea di sviluppare così ulteriormente il suo approccio contrappuntistico Jimmy Giuffre forma un trio drumless con Jim Hall alla chitarra e Ralph Pena al contrabbasso (più tardi al posto di Pena subentrerà Bob Brookmeyer al trombone a pistoni!). A questo aggiunge un lento abbandono del sax per suonare quasi esclusivamente il clarinetto, scelta decisamente controcorrente. 

Le sonorità del nuovo progetto di Giuffre sembrano condividere i parametri dell’estetica cool ma in realtà c’è qualcosa che lascia intravedere gli sviluppi futuri. Innanzitutto la scelta di non avere batteria: lo swing non sembra affatto risentirne ma è sempre presente sottotraccia, permettendo una maggiore libertà nelle improvvisazioni e lasciando emergere un forte interplay tra i tre musicisti che iniziano ad eludere i confini tra tema e improvvisazione. Il “blues-based folk jazz” di Jimmy Giuffre è alla ricerca di un’intensità e di un feeling che solo le atmosfere morbide e le sonorità contenute possono far emergere, lontano dalle grida e dal volume alto della maggior parte dei gruppi jazz dell’epoca. 

Nel 1957 si sposta a New York, e qui nuovi stimoli portano Giuffre lontano dai suoni west coast e vicini alla nuova scena free che sta emergendo sul finire dei ’50 inizi ’60 proprio nella Grande Mela. Il trio rimane la formazione ideale per Giuffre, ma cambiano questa volta i musicisti; Paul Bley al piano e Steve Swallow al contrabbasso. Nel 1961, a marzo e ad agosto, il nuovo trio registra due album per la Verve (poi ristampati in un doppio cd dalla ECM nel 1992): Fusion e Thesis.




La Fusione di Jimmy Giuffre è un materiale sonoro liquido ma non informe, composito ma fluido, ricco di stimoli e di suggestioni. Le dissonanze sono immediatamente stemperate da continue consonanze, il semplice sembra tramutarsi in complicato e viceversa. C’è una libera ricerca di nuove forme e le tonalità vengono in parte abbandonate per poi essere riprese. Questo disco sembra essere un’alternativa alla bollente energia dell’hard bop così come alle rivolte musicali e socio-culturali del free. Ma non lo è perché non si contrappone ad essi bensì ne rielabora alcune tematiche e ne sussurra nuovi aspetti. È fondamentale, come in passato, l’interplay fra i tre musicisti; piano e contrabbasso sembrano fondersi con quel suono così delicato eppur anomalo, sfuggente, alieno in certi casi, del clarinetto. Coraggiosa e vincente è la scelta stilistica di Giuffre; rinunciare in pieno alla tradizione virtuosistica dello strumento per costruire un proprio linguaggio innovativo che faccia respirare e parlare il clarinetto insieme agli altri strumenti, che lo faccia vibrare sommessamente senza dover per forza urlare. In Fusion c’è un dialogo pacato tra i musicisti che porta il trio ad improvvisare in una continua ricerca tematica, portando alla luce il blues del Texas come la Third Stream, il free come il Modern Jazz Quartet. Il volume basso, il suono soffice, il soffio permettono all’ascoltatore di percepire continuamente nuove suggestioni, richiami, visioni. 

Thesis, registrato qualche mese dopo, è diverso. Ma è una diversità insita in Fusion, non se ne percepisce al primo ascolto il carattere programmatico. Dove Fusion era materiale liquido Thesis sembra offrire rivoli solidi, spunti programmatici solitari inseriti in discorso complesso, vicino alla musica “colta”. Dove in Fusion c’era suono comune qui spesso gli strumenti appaiono isolati tra loro, intenti a elaborare i loro assunti, forti della precedente compattezza, della loro raggiunta fusione. Lo stesso clarinetto di Giuffre suona leggermente più alto, su registri acuti. Le composizioni sono più angolose, aggressive, libere da tonalità. Dopo essere riusciti a fondere i loro suoni, i tre musicisti manifestano la volontà di enunciare le loro idee uscendo dal materiale fuso e spargendo note e suoni nell’aria. Il tutto sempre in maniera sommessa, quasi a non voler disturbare troppo, come se fossero di lato rispetto al fluire degli eventi. 



Sarebbe finita qui se uno non considerasse il terzo capitolo della saga, Free Fall. Sempre lo stesso trio, qualche mese dopo Thesis e un tour in Europa. E può benissimo dirsi l’esplosione di un gruppo, di un’idea; lo scioglimento dei suoni nella libera improvvisazione quale naturale approdo dell’intero percorso artistico di Giuffre. Una sonorità ostica e sfrangiata, un oltrepassare i limiti e lanciarsi nel precipizio dell’ignoto. Il trio che ha fuso le sue molteplici influenze e ha teorizzato nuovi assunti, con Free Fall mostra la dissoluzione del tutto, una libertà angosciante, che sa di fine della storia. 

“Ci disperdemmo una notte in cui guadagnammo 35 centesimi ognuno”. Steve Swallow  

 




pop

lunedì 29 aprile 2019

Musica 80

Tra le tante riviste musicali uscite negli ultimi 40 anni ce n'è una che è realmente passata sotto silenzio, subendo l'onta della scomparsa dai ricordi degli appassionati. 



Musica 80, questo è il nome del mensile che durò poco più di un anno, dal febbraio 1980 all'aprile dell'81. Un'intervista a John Lydon, un servizio di 8 pagine sull'Improvisers Symposium tenutosi a Pisa con interventi di  Derek Bailey, Paul Lovens e Barry Guy tra gli altri, i testi tradotti in italiano del primo disco degli X di Los Angeles, un articolo sui Throbbing Gristle con intervista a Genesis P. Orridge... questi erano i contenuti di uno dei primi numeri della rivista. Letti oggi sembrano fantascienza, o un sogno destinato ad esaurirsi velocemente. Eppure questa rivista è uscita nelle edicole, anche se non per molto.


Non voglio fare il retromane, oppure rimpiangere i bei tempi passati ma riflettere brevemente sul significato di tale esperienza, vissuta peraltro da semplice lettore. 
E' chiaro che i tempi sono radicalmente cambiati e con internet il ruolo della stampa è mutato, ma ritengo abbia ancora un'importanza vitale per l'informazione e, soprattutto, la controinformazione. Devo dire che sfogliando in questi giorni Musica 80 mi sembra risenta poco del tempo passato, anzi penso che tuttora potrebbe essere benissimo in grado di lasciarsi leggere con curiosità e interesse. Perché?
Alcune questioni mi sembrano fondamentali: l'approfondimento, la riflessione, la lettura di vicende da punti di visti inusuali e/o alternativi, l'interrogazione di avvenimenti sotto diverse chiavi di lettura. Sono elementi che hanno una validità ancor più pronunciata in questi tempi, dove la capacità di attenzione è nettamente diminuita. E, a differenza delle tante fonti che ci balzano agli occhi durante le nostre ricerche, possiedono un filtro e una autorevolezza che è data dalla rivista stessa, dai suoi redattori e collaboratori. 
L'altro aspetto importante è la ricerca a tutto campo, l'investigazione che non conosce barriere e stili, scene o generi prestabiliti. Un indagine che rimescola e produce informazione profonda, a volte anche scanzonata, che non vive sulle scelte stilistiche ovvie e scontate ma approfondisce e scava dentro e fuori le etichette. 
La rivista riuscì a cogliere gli stimoli nuovi che provenivano dal post punk e dalla new wave e a coniugarli con le aree sperimentali e di ricerca, con la scena impro e persino con le storie classiche del rock. Il tutto senza pregiudizi e cercando di stimolare la curiosità del lettore, di indurlo a sperimentare egli stesso un ascolto differente.
Al di là di qualche ingenuità o di articoli non sempre così ben calibrati, Musica 80 aveva anche quell'attenzione all'aspetto grafico che di lì a poco sarebbe diventato così importante, spesso a scapito dei contenuti.  
Ma alla fine durò poco, e bisognerebbe interrogarci anche sul perché questo esperimento ebbe vita breve. Una motivazione può essere proprio la scaltrezza e la difficoltà ad essere inserita in un genere preciso. Non propriamente e solamente rock, né jazz, né folk, né punk.
Insomma, quello che pensiamo sia un punto di forza probabilmente è la principale ragione della sua fine, soprattutto in presenza di un mercato che vuole certezze e scelte di campo. Una platea che corre al riparo di confini estetici ed è spaventata dalle sfumature o dai rumori di fondo, dalle eresie e dalle devianze. 
Anche l'eccessivo intellettualismo, soprattutto in un periodo come quello degli inizi 80, può aver determinato in maniera significativa la fine precoce della rivista. 
In ogni caso non sarebbe male condurre una ricerca sulla storia delle riviste musicali in Italia, provando a tratteggiare attraverso di esse le vicende, gli usi e costumi dei giovani nella storia italiana dal dopoguerra ad oggi. Soprattutto perché alcuni elementi che hanno determinato la crisi e la fine di alcune prestigiose riviste, tra le quali appunto Musica 80, sembrano comunque persistere e anzi accentuarsi sempre più.
Ma probabilmente già è stata fatta....o no?


pop

martedì 23 aprile 2019

L’arte del trio

Ci sono alcuni elementi significativi che accomunano le uscite discografiche del trio di Andrew Cyrille, con Wadada Leo Smith alla tromba e Bill Frisell alla chitarra,  e quello di David Torn,  con Tim Berne al sax e Ches Smith alla batteria e all'elettronica. Non è solo la formazione, due trii con batteria, chitarra elettrica e strumento fiato, né la stessa etichetta discografica, la ECM, che in ogni caso determina un certo tipo di suono. No, è qualcosa di più profondo, intenso e allo stesso tempo luminoso, che Lebroba e Sun Of Goldfinger condividono.


Le due formazioni, pur avendo delle importanti differenze stilistiche, elaborano un procedimento compositivo esteso, largo, quasi fossimo in presenza di composizioni classiche, con un intento non lontano dalla sinfonia, soprattutto per quanto riguarda il trio di David Torn. Ma è nella capacità di evocare suggestioni paesaggistiche, nel delineare ambienti sonori coinvolgenti e intriganti che i due trii raggiungono l’eccellenza, ciascuno nel proprio ambito.
 Il terzetto di Cyrille sembra sognare gli spazi aperti della frontiera, una sorta di Ry Cooder trasformato ed evoluto, dove il groove  è completamente immaginato e il dialogo continuo tra i musicisti allunga lo sguardo sempre più lontano, lì dove non vi sono confini, sempre agganciati ad una tradizione blues resa elegante dalla chitarra di Frisell.
Il trio di Torn è invece immerso nella metropoli distopica, un Bitches Brew allucinato e inquietante, con crescendi angosciosi e improvvise quieti. I tre strumenti, coadiuvati dall’elettronica e, in Spartan, Before It Hit dai chitarristi Ryan Ferreira e Mike Bagetta, dal tastierista Craig Taborn e persino da un quartetto d'archi, conducono l’ascoltatore in un mondo altro, destrutturato e spigoloso.



I due dischi lavorano sul concetto di composizione in un modo  esemplare e per certi versi simile. Improvvisazione e scrittura sono continuamente alternati e inglobati all'interno di brani elastici, continuamente in movimento, come stormi di uccelli che si addensano e si rarefanno senza un ordine evidente ma con una loro inequivocabile forma. Spazi, silenzi, sferzate rock e sinuose ed ipnotiche improvvisazioni si delineano con chiarezza e originalità.
L’assoluto livello di sintonia, espressività e innovazione sembra proprio risiedere nella formazione del trio, atipica e allo stesso tempo unica e ineccepibile, che racchiude in sé ogni ambito possibile di suono e melodia e ne moltiplica gli effetti come onde che si propagano dal centro verso gli esterni. È musica, ottima, del presente ma con indubbi e illuminanti segnali verso/per il futuro.

pop 

martedì 16 aprile 2019

Impro, Prog e Punk!

In un mio precedente post (https://impropop.blogspot.com/2019/04/a-proposito-di-progressive.html) avevo accennato alla pratica improvvisativa in ambito rock, poi debellata in gran parte nello sviluppo del Progressive. Ne avevo dato una lettura centrale per quanto riguardava il triennio 1966/69, con l'esplosione della Psichedelia e le sperimentazioni ad ampio raggio compiute dalla stragrande maggioranza dei gruppi.

Quando parliamo di improvvisazione nel rock facciamo riferimento a quella che Derek Bailey ha chiamato improvvisazione idiomatica, circoscritta in maggior parte a lunghi assoli chitarristici o di tastiere. Ma in alcuni casi si è fatto uso di improvvisazioni più o meno libere, cioè non propriamente idiomatiche. I primi Pink Floyd, Soft Machine, in alcuni casi King Crimson, un certo Zappa e gli Henry Cow, ma anche le lunghe suite psichedeliche dei Grateful Dead o i Gong hanno in parte un'attitudine libera. Possiamo comunque convenire con il fatto che di improvvisazione il rock non ne abbia fatta molta, o comunque non ne costituisce l'essenza, o la priorità. Ma perché allora diventa centrale? Perché se fosse stata sviluppata e incrementata come sembrava potesse esserlo avremmo avuto un corso differente degli eventi storici del rock. Quella musica così affascinante e rigogliosa non sarebbe caduta nell'asfissia di certo Prog e non sarebbe stata spazzata via così facilmente.
Nel bel libro di Simon Reynolds, Retromania, c'è un interessantissimo capitolo che riguarda il Punk. L'autore lo considera un fenomeno nato da impulsi reazionari, regressivo, che comunque guarda al passato, al primo rock suonato con pochi accordi, in maniera semplice e concisa, privo di improvvisazioni. Non sono del tutto d accordo con questa definizione ma è vero che, esaurita la prima spinta propulsiva del punk, la musica rock si è via via incanalata in un percorso sempre più ristretto, da una parte con lo sguardo all'indietro, dall'altra con la commercializzazione e l'atrofia creativa. Ecco perché l'improvvisazione avrebbe potuto svolgere un ruolo decisivo nell'alterare gli accadimenti verso un'altra direzione, e allora il punk non avrebbe avuto così vita facile. O forse ne sarebbe stato influenzato indirizzandosi verso un'estetica differente, più aperta e meno iconoclasta.


Voglio dire: non necessariamente l'improvvisazione è la giusta terapia per crisi più o meno creative, e non sempre assolve al suo compito, cioè quello di veicolare la musica su lidi sorprendenti e inauditi. Per quanto riguarda un certo rock, quello garage, straccione e sporco, privo di assoli ma pieno di adrenalina e immensamente caustico, quel punk urlato e distorto che distrusse in un solo anno i muri dei castelli del rock e ne ricostruì le fondamenta, ecco quello non aveva e non ha assolutamente bisogno dell'improvvisazione. E'  ben definita la sua estetica e risponde all'urgenza di energia e rassicurazione allo stesso tempo, di certezze scolpite e elettrificate con vigore e risolutezza. Ma quelle musiche che avevano infranto i confini della composizione breve, la strofa e il ritornello, il ritmo regolare e le melodie accattivanti, avevano assolutamente necessità di improvvisazione per poter continuare il loro percorso creativo.  Non fu così ed allora si tornò, pur modificati, ai vecchi codici, alle radici. Ma la linfa vitale è durata pochi anni, e tutto si è esaurito in un ritorno al pop più o meno commerciale e a presunte musiche alternative o indie che dir si voglia; la fine della spinta propulsiva del rock. 


La critica è inutile, non può esistere che soggettivamente, ciascuno la sua, e senza alcun carattere di universalità.
Tristan Tzara

pop

mercoledì 10 aprile 2019

L'arte della cover

Nella terminologia della musica (principalmente pop e rock), una cover è la reinterpretazione o il rifacimento di un brano musicale - da altri interpretato e pubblicato in precedenza - da parte di qualcuno che non ne è l'interprete originale.
Questo è ciò che scrive Wikipedia, in una lunga scheda informativa peraltro ben fatta.
Non voglio dibattere sul fenomeno cover o tribute band, ampio e triste scenario che impazza da nord a sud dell'Italia. In realtà sono più interessato all'approccio ad una cover, alle sue  tecniche compositive.


Innanzitutto, reinterpretazione o rifacimento? Direi che dovremmo partire proprio dall'originale. Sembrerà strano ma il fatto che sia famoso o poco conosciuto determina il nostro primo approccio. Mi sembra quasi ovvio che in presenza di un celebre brano il rifacimento è la scelta meno opportuna. Lo si ascolta o lo abbiamo ascoltato tante volte nella versione originale, che senso ha risuonarlo esattamente uguale o quasi? Magari può essere divertente, o può farci passare momenti piacevoli, non lo metto in dubbio, ma qui vorrei mettere la questione quasi in termini filosofici.  Approcciare una cover di un brano famoso significa dargli una forte impronta personale, rendere il brano altro dall'originale ma allo stesso tempo mantenerne il legame, il ricordo. Il rifacimento più o meno fedele sembra quasi un dichiararsi sconfitti dall'altrui creatività, un avrei potuto ma non l'ho fatto. Cercare di dare un'impronta personale ad un brano famoso è effettivamente un lavoro complicato, direi quasi come riscrivere o reimpostare totalmente la composizione. Dovremmo, nel migliore dei casi, lasciare una traccia appena accennata, quasi fosse un medicinale omeopatico, dove il ricordo dell'originale è diluito all'ennesima potenza eppure è ancora presente e attivo. La reinterpretazione consiste nel selezionare alcune sostanze principali e diluirle all'interno di una nuova composizione, mostrarne il contenuto ed allo stesso tempo mascherarlo. La canzone originaria deve poter manifestarsi sotto differenti forme inducendo l'ascoltatore ad accendere il ricordo e immediatamente a sentirsi sorpreso dall'identità e dalla sua trasformazione. Come in un incontro di pugilato chi ascolta è colpito al volto per ben due volte ripetutamente, nel riconoscimento e nella sua apparente negazione. La reinterpretazione promossa dal solo cambio di strumentazione e/o ambientazione promuove in parte questo aspetto. Il riconoscimento è quasi immediato e la sorpresa dovuta alle differenti sonorità è epidermica, superficiale. 


Con un brano poco conosciuto la questione è certamente più semplice. Possiamo anche permetterci di suonarlo e interpretarlo come l'originale o quasi. In questo caso la possibilità di far conoscere una composizione fino ad allora sconosciuta ci dà l'abilitazione, per così dire, a riprodurla come l'autore l'ha scritta e suonata. E' una sorta di omaggio al compositore originario. 


Tutto questo per segnalare quella che per molti aspetti è una tra le migliori, se non la migliore, cover mai registrata. (I Can't Get No) Satisfaction, dei Rolling Stones, reinterpretata dai Devo. Ho sempre pensato sia un piccolo capolavoro, un'impresa ardua superata nel migliore dei modi. Come riuscire a scardinare e ricomporre un brano così famoso, così oggettivamente ricco e forte caratterialmente senza cadere nel banale rifacimento o in un totale stravolgimento privo dell'essenza del brano? I Devo ci sono riusciti. Sonorità devolute, esasperazione della linea vocale, ritmo e intreccio di riff in versione sintetica e poi, il colpo di genio: l'inserimento del riff originario della chitarra di Keith Richards alla fine del brano. Perfetto, oserei dire!






giovedì 4 aprile 2019

A proposito di Progressive

Il genere è in risalita, mi sembra chiaro. Lo si capisce dalla quantità di libri in uscita, dagli articoli su riviste e giornali, dalle ristampe in edicola e dalle innumerevoli Reunion con immancabili live e tour in giro per l'Italia e il mondo. Il Prog è tornato tra noi! 
Al di là dell'effetto retromania, dei ricordi di una generazione che è cresciuta con quella musica, il fenomeno di ritorno mi sembra viziato innanzitutto dalla spiacevole sensazione di operazione commerciale, di nuova/vecchia moda in grado di rialzare le vendite di dischi, biglietti e merchandising.



Però voglio affrontare l'argomento seriamente, senza preclusioni di sorta o pregiudizi vari. 
Dunque, prima di tutto iniziamo con il tratteggiare brevemente il genere Progressive. Ultimamente si tende ad infilarci un po' di tutto, anche gruppi New Wave per esempio. Non è il modo migliore per discutere. Il Prog, per come la vedo io, è caratterizzato da un estetica classicheggiante fatta di quadri, interludi, suite, uso frequente di tempi dispari, testi e iconografia sul modello fantasy, presunta abilità tecnico strumentale e una generale pomposità che spesso si trasforma in estrema pesantezza. Detta così sembra abbastanza negativo il mio giudizio ma in realtà vanno sottolineate alcune cose che riequilibrano il tutto. 
Primo: il Prog ha rivoluzionato la struttura dei brani rock, ne ha ampliato gli orizzonti, ha sviluppato la sperimentazione di sonorità e scrittura ad alto livello, tanto da competere con la musica cosiddetta seria. 
Secondo: l'abbandono della forma classica rock derivata dal blues ha permesso la nascita di scuole nazionali con risultati a volte significativi ed a livello del mondo anglosassone. Possiamo dire che grazie al Prog il rock è diventato europeo.
Terzo: non si può negare il valore assoluto di alcuni gruppi, la bellezza di molti dischi che hanno veicolato i sogni e le aspirazioni di milioni di giovani. 
E allora perché il Punk ha spazzato via tutto con estrema velocità e per circa due decenni la parola Prog è stata sinonimo di nefandezze musicali?


Dobbiamo partire un attimo prima della nascita cosiddetta ufficiale del Progressive, e cioè il 1969, l'anno di uscita del primo disco dei King Crimson, In The Court Of Crimson King. So bene che prima c'erano stati i Procol Harum e i Moody Blues, ma l'uscita discografica del Re Cremisi è quella che fa scoppiare la scintilla. Dunque, prima del 1969 in realtà non c'erano generi musicali. Tutto suonava rock, e tutto era alternativo, psichedelico, giovane, vitale. C'era una voglia estrema di sperimentare, scrivere materiale proprio, rompere con le tradizioni, suonare e improvvisare. Possiamo definire gli anni che trascorrono dal 1966 al 1969 come i tre anni dove succede di tutto nel mondo musicale giovanile, perlomeno riferito al rock. Jimy Hendrix, Pink Floyd, Beatles, Rolling Stones, WhoJefferson Airplane, Grateful Dead, Bob Dylan, Janis Joplin, Doors. Ecco, tutto questo mondo, all'apice del successo, era comunque intento a varcare le soglie del già udito, a rivoluzionare in maniera profonda il mondo del rock. E qui ho fatto ovviamente un elenco dei personaggi più famosi, ma dietro di essi c'erano altrettante eccezionali formazioni che hanno costruito un mondo dove tutto era possibile. 
Non vorrei certo esagerare con l'attribuirle troppa importanza ma credo di non sbagliare nel dire che elemento fondamentale, spesso e volentieri, di questa rivoluzione rock sia stata proprio l'improvvisazione. Pensiamo al primo periodo dei Pink Floyd, oppure a Jimy Hendrix, i leggendari concerti della scena di San Francisco, i Soft Machine e i Cream. Ma anche gli stessi Beatles, Who, Rolling Stones, tutti votati alla sperimentazione psichedelica che non voleva dire solo assunzione di droghe ma ricerca sonora, spirituale, anche politica. Quando questo eccitante movimento comincia a ritirarsi, ecco che alcune conquiste vengono in qualche modo consolidate dal Progressive. In effetti è un mondo che, almeno nominalmente, tende al Progresso, a spostare in avanti alcuni confini ma che quasi subito si ferma/afferma come nuova classe dirigente del rock. E questo suo attestarsi come custodi del sapere porta alla stabilizzazione, al controllo del prodotto, ben confezionato e collocato in un mondo altro, di fantasia. L'improvvisazione viene debellata e la ricerca in qualche modo bloccata dalla costruzione della nuova estetica rock, che porta con se alcune conquiste passate ma assolutamente depotenziate e rese innocue. 
Per fare esempi in linea con i miei post precedenti, siamo in presenza dell'instaurazione del regime staliniano dopo le conquiste e le sperimentazioni avanguardiste della rivoluzione russa. Oppure  dell'affermarsi del Bonapartismo dopo la Rivoluzione del 1789 e il periodo giacobino. Si vedono in trasparenza le conquiste della rivoluzione ma esse sono offuscate, spesso travisate e piano piano soffocate da una sorta di restaurazione, costruita su nuove basi ovviamente.
Provate a pensare, invece, a cosa succede dalle parti degli Henry Cow e del Rock In Opposition, oppure ad alcune frange canterburiane. Qui, animati da una continua ricerca e sostenuti dall'impeto improvvisativo, ancora risiedono intatti i valori della rivoluzione psichedelica e progressiva, ancora si cerca l'inaudito, pur tra mille difficoltà e contraddizioni. Dall'altra parte c'è solo uno stanco e pesante assestarsi all'ombra del successo. Ed è allora che la rivoluzione Punk esplode per azzerare tutto e scalzare dal trono l'ortodossia rock.
 

Voglio chiudere con due segnalazioni. La prima è un bel libro, ahimè solo in inglese, di Edward Macan, "Rocking The Classics. English Progressive Rock And The Counterculture". Probabilmente il miglior libro sul Prog, con un'analisi seria ed approfondita del fenomeno sia dal punto di vista musicale che da quello socio-culturale. L'altra è ancora un libro, uscito da poco in Italia, e che sto leggendo in questi giorni: David Weigel, "Progressive Rock. Ascesa e caduta di un genere musicale". Mi sembra ben fatto, con una trattazione storica accurata e che evita banalità e ovvietà. Non a caso cita abbastanza spesso, almeno in queste prime pagine, proprio il libro di Macan.

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