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lunedì 8 marzo 2021

Rivoluzioni!

A novembre del 2008 Vladimir Luxuria, ex parlamentare di Rifondazione Comunista e simbolo transgender, vinceva L'isola dei famosi, noto programma Fininvest ed emblema dei reality show. Il quotidiano del partito, Liberazione, allora diretto da Piero Sansonetti, paragonava questa vittoria all'elezione a presidente degli Stati Uniti di Obama, mettendo la foto di Luxuria in prima pagina e dando una lettura dell'evento di assoluta rottura, di fenomeno "rivoluzionario" per la società italiana. Sarebbe ingrato ora chiederne riscontri, sia per quanto riguarda il percorso di Vladimir Luxuria (non mi sembra faccia più politica ma saltabella da una trasmissione all'altra in qualità di opinionista di costume) che per quanto riguarda il quotidiano Liberazione o il Partito della Rifondazione Comunista, definitivamente chiuso il primo e certo non in buone acque il secondo. Ma sarebbe ancora più imbarazzante chiedere riscontri di quella fantomatica rivoluzione del costume in un paese come il nostro oggi, dove i due partiti dalle ideologie reazionarie, omofobe e sessiste raggiungono oltre il 40%, o dove continuano con straziante continuità i femminicidi. E così, di quell'evento tutto mediatico, prodotto televisivo di mercato, rimane ben poca traccia, assorbito dal consumo e infantilmente paragonato ad eventi di ben altra natura. 



"Con i Maneskin (e non solo) a Sanremo 2021 ha vinto la rivoluzione. Questa edizione ha avuto il suono di una generazione nuova e ha segnato uno strappo fortissimo con il passato. Artisti che sfuggono alla grande industria, crescono nei nuovi media, e segnano una profonda distanza dalle generazioni precedenti". Questo uno dei titoli di Repubblica online, a firma del ben noto critico musicale Ernesto Assante, che nel suo facebook commenta ulteriormente e rincara la dose.

Confesso di non aver visto nulla di Sanremo 2021, come molte altre volte, ma poi, incuriosito dai commenti, sono andato a vedere i video di qualche brano, in particolare dei vincitori ovviamente. Dunque, il problema non è Sanremo nè i Maneskin o il resto dei cantanti. Il festival della canzone italiana è un prodotto commerciale, lo è sempre stato, e più che alla creazione artistica è interessato al mercato, alla vendita di spazi pubblicitari e all'audience. Tuttalpiù, come ogni prodotto commerciale, può registrare, inconsapevolmente o meno, dei cambiamenti in atto all'interno della società, delle modificazioni dei gusti o dei comportamenti. E Sanremo, con notevole ritardo rispetto a ciò che si muoveva nel paese dal punto di vista artistico/musicale, lo ha sempre fatto. D'altronde è un prodotto, e come tale deve essere venduto e per venderlo al meglio deve cercare di interpretare i gusti da una parte e dall'altra anche indirizzarli. Non a caso in queste ultime edizioni c'è sempre stato il trionfo di interpreti che venivano dai talent, certificando, anche qui con ritardo, il successo di questi format. Saranno rivoluzionari anch'essi?

Ma andiamo avanti. Che si tratti di rivoluzione per quel che concerne Sanremo 2021 Assante lo attribuisce a tutta una serie di fattori, tra i quali la vittoria di un gruppo di giovani che fa rock, la presenza di artisti poco conosciuti e fuori dalla grande industria (?), l'esecuzione di cover particolari come brani di CCCP/CSI o Guccini, e in definitiva l'esulare dal gusto medio, il rifuggire dagli ascolti tipici del nostro "fornaio, tassista, medico di base".

Per un gruppo che ha partecipato a X Factor essere definiti poco conosciuti e fuori dal mercato può benissimo considerarsi un successo, molto più della vittoria a Sanremo. E credo che Assante, in fatto di gusti sia rimasto un po'  indietro, se pensa che il nostro tassista o il fornaio oppure il medico di base non conoscano i Maneskin. Va detto, comunque, che l'ascoltatore medio spesso non conosce, o non conosce bene, i vincitori del festival, che sappiamo essere frutto di manovre particolari e non certo sinonimo di qualità. Ma vorrei dire che anche il fatto di essere giovani non rappresenta in sè l'essere rivoluzionari. Il Volo, quella sorta di brutta copia di Andrea Bocelli, è formato da tre giovanissimi e non penso gli si possa dare quell'appellativo. Per quanto riguarda il rock: credo che proprio questa vittoria ne certifichi la crisi profonda. Ormai è come musica leggera (anzi, leggerissima!) e il brano dei Maneskin può certamente essere definito rock, ma solo superficialmente, ne è come colorato, ne porta lontanamente il sapore. A parte il fatto di essere banale, sia nei suoni che nel testo, nell'interpretazione e nella forma, questo "rock" ha perso totalmente le caratteristiche di espressione giovanile di protesta, di canale espressivo artistico che sperimenta, che osa, per trasformarsi in cover di se stesso, in riproduzione scadente dell'originale totalmente slegato dalle dinamiche sociali se non come prodotto commerciale. 

Ma, come dicevo prima, il problema non è certamente il Festival o i suoi partecipanti. Fanno il loro mestiere, più o meno bene. Sono prodotti televisivi che hanno un determinato target, devono rispettare alcune formule, producono senso comune. E, con buona pace di Assante, non penso che questa vittoria dei Maneskin porterà, in futuro, un innalzamento del livello medio artistico/musicale del nostro paese. Il problema è proprio questo: a fronte di un format che privilegia il prodotto di mercato, di facile consumo, c'è poco o nulla che si muova al di fuori di esso. Sanremo c'era anche negli anni Sessanta e Settanta, ma c'era anche molto altro. Io non accuso Sanremo di essere Sanremo, ma accuso coloro che hanno responsabilità intellettuali (sempre meno va detto) di veicolare messaggi falsi in ciò contribuendo pesantemente all'isterilimento artistico. Parlare di rivoluzione a Sanremo significa far credere che quel brano, quelle canzoni, quei presentatori siano altro da ciò che sono, e cioè canzonette, qualcuna buona qualcun'altra meno, e stantii personaggi da avanspettacolo. Dare dignità di messaggio rivoluzionario a un banale "rock" significa ingabbiare all'altare del mercato e della mediocrità le spinte creative che ogni giovane generazione deve avere, significa indirizzare le idee verso un modello che nulla ha di rivoluzionario, nè dal punto di vista artistico nè dal punto di vista del costume. Se pensiamo che sia sufficiente urlare una brano dei CCCP vestiti in modo stravagante per fare una performance "eversiva", allora non avremo più nulla di certamente eversivo, ma solo banali riproposizioni e caricature. Il problema non è Sanremo. Il problema è il realismo sanremese, o il realismo dei talent, l'idea che tutto debba passare da quel contesto che non è neutro ma è materialmente responsabile di un certo tipo di elaborazione artistica, quella che funziona, quella che vende. E che certo non può essere rivoluzionaria. 


pop

venerdì 5 marzo 2021

Disfunti

Questo racconto è stato scritto molto tempo fa, e doveva essere pubblicato su una sorta di raccolta di memorie culturali sul quartiere San Lorenzo di Roma. Alla fine non se ne fece nulla, o meglio, il racconto fu scartato. Ma è rimasto sempre qui, nel cassetto del mio pc e ne sono ancora molto affezionato. Grazie a questo bel documentario https://youtu.be/MIvRjtemikA che ripercorre la storia del mitico negozio di dischi Disfunzioni Musicali, mi è tornato in mente e credo sia l'occasione giusta per pubblicarlo su questo blog. Buona lettura!



DISFUNTI


Si, il quartiere era old style, con quelle pizzerie e trattorie di una volta, con quei muri appassiti eppur gloriosi e forti, con possenti tracce dei movimenti e delle sinistre delle quali il nostro paese era fiero.

Si, il quartiere era ancora popolare, ricco di memorie e dall’aspetto un po’ rude e misterioso, inaspettatamente lontano dall’atmosfera universitaria e per nulla conscio del futuro turistico alle porte.

A S. Lorenzo si andava per una pizza o per le riunioni politiche, o per tutte e due, un fortino ben protetto e nel quale ti sentivi sicuro, a tuo agio. La musica? Ma sì, forse c’era, forse no, c’era stata ma ora, nei terribili anni ’80, la musica quella nuova, quella rock, quella alternativa, quella che nessuno conosceva o forse solo pochi sapevano e la custodivano gelosamente, beh quella non c’era… non c’era neanche a Roma.

Si leggevano riviste e fanzine con avidità e tenero amore, alla ricerca dei nuovi gruppi che sconvolgevano la perfida Albione e che stavano trasformando il rock e la musica giovanile in generale. Il punk, la new wave, il dark, poi la nuova psichedelia… un trionfo di stili, di generi e sottogeneri, di scaffali e cassetti dove potevi infilare il tuo gruppo preferito e condividerlo con pochi altri. Questi gruppi segreti, questi giovani carbonari, ebbero all’improvviso il loro ritrovo, la loro sede, un luogo fisico dove potersi incontrare e soprattutto toccare con mano gli amati vinili fin lì solo immaginati e conosciuti tramite recensioni e articoli delle suddette riviste.

Apparve senza nessun preavviso, come in una sorta di magia, quasi dal nulla e per di più nell’unico vicolo di S. Lorenzo, una specie di traversina storta, chissà come e chissà perché scelta quale luogo di culto e di ritrovo. Alle spalle dell’antico bar, vicino alla storica radio e alle storiche sedi, ad un passo dall’automobilistica pizzeria, il piccolo negozio di dischi aprì i suoi battenti probabilmente più per passione che per affari.

Piccolo ma fornitissimo, per i giovani carbonari che iniziarono a frequentarlo con assiduità. Era incredibile l’emozione che si provò alla vista, per la prima volta dei dischi dei quali si era favoleggiato e sognato per mesi e mesi. Ed ora erano lì, incellofanati ma ben visibili, vivi, colorati, ne potevi sentire il profumo ma anche i suoni. Era come poterli finalmente ascoltare anche se rimanevano nel loro bello scaffale in attesa di essere comprati.

<<Guarda, c’è anche questo...>>. << Sì, pazzesco…e questo? Hai letto la recensione? Dice che è fantastico>>. << Nooo, …incredibile, guarda qui!>>. Il piccolo tempio risuonava di affermazioni di questo tipo, condite da sospiri e vocalizzi vari, in un crescendo di stupore ed eccitazione.  Era un ruminare tra uno scaffale e l’altro, come alla ricerca dell’oro, e con il movimento delle dita sempre più veloce ed esperto, salvo poi bloccarsi alla vista del disco preferito o desiderato. Allora le dita lo prendevano delicatamente e lo estraevano dallo scaffale e gli occhi rimanevano lì ad ammirarlo per poi immediatamente procedere alla lettura delle mitiche note di copertina. Ci si passava delle ore in quel piccolo nido, magari senza comprare niente, anzi, era più facile uscire da lì senza nessun disco per via della penuria di soldi, ma soddisfatti e sicuri del prossimo acquisto da fare.

Loro, i sacerdoti del tempio, gli invidiati proprietari dall’aspetto semplice e soddisfatto immagino considerassero con simpatia e con un senso di affetto quasi paterno quella piccola folla di adepti che, soprattutto il sabato pomeriggio, affollava il locale o rimaneva proprio fuori l’entrata, a parlare o semplicemente a guardare gli altri che entravano ed uscivano. Immagino fosse per loro motivo di grande soddisfazione l’essere riusciti a radunare, in poco tempo, un nugolo di fedeli appassionati che spesso e volentieri li interrogava sulle ultime uscite o sulla qualità e la bontà dell’ultimo 45 giri o dell’extended play, che settimanalmente si recava al bancone chiedendo se fosse arrivato l’lp atteso da mesi o la compilation recensita poco tempo fa. Le loro risposte erano come vaticini, come verità dette da un adulto quando si è piccoli; non si discutevano bensì si assumevano come assolute. E servivano per avvalorare o contestare opinioni e idee sui gruppi e sui dischi dei quali si discuteva animatamente a scuola o in cantina prima, durante e dopo le prove.

La gioia che si provava uscendo da quel piccolo rifugio con in mano la busta del negozio era qualcosa di inimmaginabile. Li potevi riconoscere da lontano: uscivano velocissimi, e con passo spedito si avviavano verso la fermata dell’autobus, controllando spesso se la loro mano teneva ancora la busta. E poi, una volta saliti sull’autobus, ancora con il fiatone, aprire la busta e osservare l’lp, girarlo e rigirarlo, leggerlo, odorarlo, con un sorriso stampato sulla faccia e quasi le lacrime agli occhi. Erano così i giovani adepti della nuova musica. Forse la gioia dell’acquisto resisteva anche alla delusione per un disco e una musica che non piacevano, per un gruppo che ormai non era più come agli inizi, ai tempi del loro primo lavoro.

Ad ogni modo, fu così che S.Lorenzo divenne il quartiere dove c’era la musica, anzi il quartiere della musica. Non esisteva altro posto che S.Lorenzo se eri uno che leggeva avidamente due o tre riviste musicali al mese e conoscevi le formazioni e i gruppi dell’ultima ora. Sui muri, specialmente all’entrata del piccolo negozio di dischi, cominciarono ad apparire scritte con nomi assurdi e improbabili. Erano i nomi dei gruppi, magari anche sbagliati talvolta, o con commenti poco piacevoli e dispregiativi nei confronti di quella formazione o di quel cantante. Era buffo questo miscuglio di politica e musica sugli storici muri che avevano resistito persino al bombardamento. Ovviamente le scritte politiche erano in maggioranza, erano grosse e possenti, mentre le scritte sui gruppi rock erano ancora timide, piccole, quasi nascoste. Nondimeno cominciarono ad essere parte integrante del quartiere, tratto distintivo.

La piccola tribù cominciò a crescere e il negozietto era ormai troppo piccolo per accogliere i sempre più numerosi appassionati e fedeli. Alla notizia del cambio di sede, sempre a S.Lorenzo, ma in un posto molto, molto più grande, beh, la felicità fu infinita. Seconda solo alla vista del nuovo locale, ai primi passi dentro quel nuovo tempio musicale pronto ad ospitare e soddisfare le voglie sempre più sfrenate dei giovani acquirenti. Era incredibile: un posto così non era apparso neanche nei sogni. Ora potevi compiere diversi passi tra un genere musicale e l’altro, ora non c’era più bisogno di appostarsi come gufi alle spalle del tuo predecessore, maledicendolo perché non liberava lo spazio davanti allo scaffale prescelto, perché potevi benissimo spostarti ad un altro, ed un altro ancora, e potevi servirti all’usato, oppure vedere le vetrine interne, con le offerte di alcune rarità e la bacheca con gli annunci. E chi soggiornava fuori poteva gustarsi quelle tre, quattro vetrine con le ultime uscite, i manifesti dei concerti e le famigerate scritte dei gruppi sui muri. E c’era tanto spazio sul marciapiede, così tanto che ad un certo punto il locale prese il posto della famosa lampada Osram alla stazione Termini quale punto favorito d’incontro e di appuntamenti.

Insomma, non si era più degli gnomi simpatici ma poco visibili, bensì degli elfi luminosi, fieri e dall’aria ormai europea, quasi londinese. E anche l’avvento del cd fu assorbito in modo quasi indolore. Tutto sommato gli scaffali c’erano ancora, anche l’usato, le ultime uscite, i generi e i sottogeneri godevano di ottima salute e altre musiche prendevano il loro spazio all’interno del locale. Certo, il costo era cresciuto rispetto al vecchio lp, certo le copertine erano veramente tristi, piccole e con poche informazioni se non all’interno, certo il suono era un po’ più piatto. Ma l’emozione era quasi sempre la stessa: uscivi da lì questa volta con una piccola bustina, correvi verso casa cercando di aprire il cd e trovando spesso difficoltà insormontabili nel rompere la plastica che lo rinchiudeva e poi lo mettevi nel lettore senza più la paura del deterioramento, delle righe sul vinile, dei salti della puntina.

Ormai il locale era affermato, ben conosciuto a Roma, in Italia e all’estero, e con lui anche S.Lorenzo divenne famoso. Era come fosse una sala da tè, oppure un bar, o una sede di un collettivo o una galleria d’arte. Si andava lì per dare un’occhiata ai cd, si incontrava qualcuno, magari si comprava qualcosa, si mettevano in piedi gruppi e si organizzavano concerti. Si compravano riviste, fanzine, si portavano vecchi cd o vinili da vendere o permutare. Insomma, forse la movida a S.Lorenzo nacque proprio da questo posto. O forse no, forse era solo amore, passione pura per la musica. In ogni caso nessuno avrebbe immaginato la fine di un posto così.

Anche se più recente di tanti altri quel negozio era S.Lorenzo e S.Lorenzo era quel negozio.




L’avvento della musica digitale segnò la dolorosa fine di un simbolo. Cominciò lentamente, ma fu inesorabile. Le nuove uscite dovevi ordinarle, in vetrina c’era ormai poca roba, negli scaffali c’erano molti cd ormai vecchi, frutto di precedenti ordini, l’usato cresceva ma rimaneva spesso invenduto. Resistevano le musiche di confine e le specializzazioni, ma era troppo poco. Internet e gli mp3 stavano affossando quello che per molti anni era stato un luogo di culto, pieno di calore e colmo di musiche ed emozioni. All’improvviso, proprio come era nato, chiuse.

Così, un giorno uno va in quella strada per dare un’occhiata a qualche cd, per scambiare due chiacchiere e le serrande sono chiuse. Eppure, non è lunedì mattina. Niente, torna il giorno dopo ed è ancora chiuso. Partono telefonate con amici per cercare di sapere, di capire. Ma no, hanno solo chiuso temporaneamente, problemi di magazzino, liti tra vecchi soci, un attimo di pausa per riorganizzarsi. Ma si, ora riapre. E fu così, veramente. Il negozio riaprì, sempre come prima. Nessun restyling, come si usa ora, nessun cambiamento, tutto come prima. Allora si va avanti, allora si continua. Ok, c’è sempre meno gente, ma i cd sono ancora lì e si possono toccare, guardare, anche se le fotocopie incellofanate delle copertine sono sempre più sbiadite e illeggibili. Ok, non ci sono più le rarità, e i vinili sono pochissimi, ma si entra e si sente la musica, l’ultimo cd uscito di un gruppo del quale non ricordo il nome, oppure l’ultima scoperta dei proprietari del negozio ai quali chiedi il nome della band e di farti vedere la copertina. Si, c’è l’mp3, il downloading, ma quelle quattro mura sembrano poter ancora resistere.

E invece no.

Accade che un giorno passi di lì e vedi caricare alcuni cartoni in macchina e chiudere le serrande. Allora, memore della precedente temporanea chiusura, con un tono speranzoso e anche un po’ complice, chiedi: << quando riaprite? >>. << No, questa volta non riapriamo più. Questa volta chiudiamo>>. Ecco, esattamente le parole che non avresti mai voluto sentire. Questa volta chiudiamo, questa volta basta, è finita.

Forse è anche giusto così, forse è stato meglio così.

Ma a me sembra ancora di vedere, talvolta, nelle strade del quartiere, giovani che camminano con passo svelto e in mano una busta di dischi. Mi è sembrato anche che qualcuno passasse davanti alle vecchie vetrine e rimanesse immobile con lo sguardo socchiuso. E sembra che nel vicoletto storto, ogni tanto, riaffiori dai muri qualche vecchia scritta punk o dark. Mi è sembrato di aver sentito nella via qualcuno che cercasse quel negozio di dischi. Oppure di aver ascoltato discorsi nei quali se ne parlava come ci fosse ancora.

In ogni caso io continuo a dare appuntamenti lì, nella via dove c’era il negozio di dischi. Non si sa mai, dovesse riaprire!!! 

 

pop


venerdì 26 febbraio 2021

Weird Tales. Il giardino dei Trees: tra folk e psichedelia!

 

Il grande patrimonio folk anglo-scoto-irlandese è stato una delle caratteristiche forse meno evidenti dell’esplosione del rock inglese, spesso oscurato dal blues, dallo skiffle e dal rock’n’roll, musiche più chiaramente riconoscibili nella costruzione della British Invasion. Eppure, quelle centinaia di ballate che si sono trasmesse oralmente per tutta la Gran Bretagna e l’Irlanda, sconfinando anche negli Stati Uniti, sono state il substrato di tanta musica inglese, primi fra tutti i Beatles. È un patrimonio che è stato sottovalutato ma che con tutta evidenza rappresenta quell’elemento particolare, quell’ingrediente speciale che ha permesso la nascita e lo sviluppo del rock d’Albione. Tale è stata la forza di questo retaggio culturale da aver dato vita anche ad un vero e proprio genere musicale, il cosiddetto folk rock, che ha prodotto dei veri capolavori ed una serie di gruppi eccezionali. La triade Fairport Convention/Pentangle/Steeleye Span, con la Incredible String Band a fare da stralunato e sperimentale jolly, già di per se mostra la ricchezza e lo splendore di una musica ancorata si alla tradizione ma in grado di rinnovarsi e sperimentare nuove sonorità e nuovi approcci musicali. Il rock, il jazz e il blues hanno contribuito a dare una nuova luce alle ballate e alle canzoni tradizionali, dimostrando che un materiale, pur antico, può e deve avere sempre una nuova vita. 



Tra i numerosi gruppi e musicisti che hanno attraversato la gloriosa stagione del folk rock, tra il 1968 e il 1973, i Trees rivestono un ruolo particolare, lontani dal successo eppure autori di una miscela originale e significativa, con quel loro folk psichedelico, tra la California e le campagne inglesi. Bias Boshell, principale autore, bassista e tastierista, Barry Clarke, chitarra solista, David Costa, chitarra acustica e ritmica, Unwin Brown, batterista, e Celia Humphris, cantante, formano nella primavera del 1969 uno dei tanti gruppi che andrà ad arricchire il folto immaginario inglese, la nuova Arcadia, un paesaggio preindustriale, popolato da esseri fantastici e ricco di melodie e suoni naturali, con le foreste incontaminate e i bardi che narrano leggende d’altri tempi. Da questo punto di vista i Trees non sfuggono all’estetica folky del periodo, e gran parte della loro musica sarà tratta dal patrimonio folkloristico opportunamente riarrangiato, sulla falsa riga di ciò che facevano Fairport, Pentangle e tanti altri. Ma in loro c’è un approccio in parte diverso dagli altri gruppi folk rock. Potremmo quasi dire che l’esperimento Trees coniuga gli ultimi lasciti della rivoluzione pop di entrambe le sponde dell’oceano con il susseguente ripiegamento in ambito “fantasy”, di un immaginario lontano dalla contemporaneità e situato in un passato fiabesco. Da questo punto di vista non avremmo molta difficoltà a leggere come una tendenza comune e omogenea l’Arcadia folk con la Terra del Grigio e Rosa o le copertine di Roger Dean così come le atmosfere barocche dei Gentle Giant o la pastoralità di certi Genesis.

Tuttavia, nei Trees è possibile rintracciare consistenti elementi che contaminano e cambiano di segno le atmosfere e le musiche del repertorio tradizionale da loro arrangiato. Elementi potremmo dire progressivi, che di fatto rimandano spesso alla musica psichedelica, alle lunghe improvvisazioni e ad atmosfere dilatate.

L’esordio è su CBS, The Garden Of Jane Delawney, registrato all’inizio del 1970 e pubblicato il 24 aprile dello stesso anno.  La produzione è di David Howells e di Terry Cox (Caravan, Yes, Family e tanti altri) mentre la copertina è opera dello stesso David Costa, uno stupendo disegno in stile Magritte.  Metà dei brani sono tradizionali, ovviamente riarrangiati, mentre il resto sono a firma di Boshell e il primo brano del disco è opera di tutto il gruppo. L’album è caratterizzato da un alternarsi tra acustico ed elettrico, un aspetto comune a tante altre opere di folk rock. Spesso l’elemento elettrico, sporco, aggressivo, è riservato ad intermezzi che spezzano le composizioni e introducono, per l’appunto, altri territori, dove la chitarra elettrica è protagonista. Alcune volte questa operazione sembra un po’ meccanica, frutto di giustapposizioni, nondimeno il risultato è pregevole e affascinante. Il brano di apertura mostra già gli inequivocabili segni della musica dei Trees, a cavallo tra folk e psichedelia, una ballata attraversata in lungo e largo da una chitarra elettrica dal netto sapore West Coast, a tratti simile al Kaukonen lisergico, anche nel suono oltre che stilisticamente. L’eterea e delicata voce di Humphris, tipicamente folk, è contrappuntata dal solismo di Barry Clarke e rende questa Nothing Special un giusto mix tra energia rock e sapori pastorali. The Great Silkie e Lady Margaret sono esemplificativi del lavoro di arrangiamento che i Trees compiono sul materiale tradizionale. La prima è tratta dal repertorio delle isole Orcadi in Scozia e narra le vicende di un uomo che si trasforma in un animale acquatico soprannaturale. Qui la ballata dolce e appena segnata da leggeri tocchi elettrici si trasforma in una cavalcata psichedelica grazie ad un intermezzo dove le due chitarre soliste intrecciate ricordano atmosfere decisamente acid rock.  La seconda, ballata apparsa in Inghilterra intorno al diciassettesimo secolo e chiamata anche Lady Margaret And Sweet William, ha un inizio alla Fairport, tra chitarre acustiche ed elettriche pulite per poi, anch’essa, irrobustirsi e distorcersi, con una ritmica vivace ed incalzante. She Moved Thro’ The Fair, antica ballata irlandese del Donegal, registrata anche dai Fairport Convention nel loro secondo album, mostra un Bushell virtuosistico, con il suo strumento a disegnare continue linee melodiche, quasi una sorta di Jerry Garcia del basso, e poi un’improvvisazione collettiva coinvolgente ed affascinante, per uno dei migliori brani dell’album. E dai Fairport si passa ai Pentangle, perché Glasgerion altri non è che la Jack Orion del gruppo di Jansch e Renbourn. Una delle 305 tradizionali ballad raccolte da Francis James Child nella seconda metà del diciannovesimo secolo, Glasgerion venne modificata in Jack Orion (con il protagonista della storia che da suonatore d’arpa diventa violinista!) dal folk singer A.L. Lloyd negli anni 60 e quindi poi ulteriormente trasformata dai Pentangle nel loro stupendo Cruel Sister. Qui la versione dei Trees è leggermente più veloce, con cambi di tempo e un’elettrificazione moderata, un andamento tradizionale e una voce non sempre all’altezza, pur se ricca di fascino.  I brani originali di Bushell spaziano dal country rock di Road, con la voce del bassista ad alternarsi con quella della Humphris, alle atmosfere tipicamente folk di Epitaph, contraddistinto da una splendida chitarra arpeggiata, oppure alle suggestioni West Coast di Snail’s Lament, dove il canto della coppia Bushell Humpris ricorda gli impasti vocali dei primi Jefferson Airplane. Menzione speciale la merita la title track, scritta sempre da Bushell, un piccolo gioiello acustico, impreziosito dal dulcimer e con un atmosfera cupa, triste, il giardino di Miss Delawney colmo di sogni gotici e selvagge fantasie.

Il primo album dei Trees non ottiene il successo sperato, pur essendo inequivocabilmente un ottimo disco, ma il gruppo va avanti, suona regolarmente, anche se soprattutto nei circuiti universitari, ed ha il sostegno di importanti dj come John Peel e Pete Drummond (che più tardi sposerà proprio la cantante Celia Humphris). E quindi a fine anno arriva un nuovo album, On The Shore, registrato nell’ottobre del 1970 e pubblicato sempre dalla CBS, con una stupenda copertina frutto del lavoro di Storm Thorgesen, dello studio Hipgnosis.



Questo secondo, e ahimè ultimo lavoro ufficiale dei Trees, è sicuramente più organico, il materiale è ben amalgamato e fluido, la voce della Humphris più intraprendente e i suoni, soprattutto della chitarra elettrica, maggiormente definiti e originali. Ma in generale il gruppo appare più maturo e sicuro delle proprie scelte stilistiche così da dare a On The Shore la peculiarità di piccolo capolavoro discografico, purtroppo misconosciuto. Prodotto sempre da Tony Cox (che appare anche al basso in Sally Free And Easy), il disco si apre con Soldiers Three, una ballata composta da Thomas Ravenscroft nel sedicesimo secolo e ideale introduzione al nuovo lp, con le voci di Bushell e Humphris perfettamente combinate e un intermezzo acustico a spezzare l’andamento energico del brano. Murdoch e While The Iron Is Hot sono gli originali di Bushell, che mostra ancora una volta la sua grande capacità di scrivere sia vibranti e serrati scenari come nel primo caso, oppure struggenti melodie, splendidamente arricchite dagli archi, con al loro interno intermezzi classicamente rock, come nel secondo. Little Sadie, un traditional americano, è un simpatico country rock con la voce di Humphris perfettamente calata nel mondo di Nashville, mentre Geordie, una delle tante antiche ballate raccolte da Francis James Child, è delicata, rilassante, punteggiata da una chitarra elettrica discreta e dal solismo appena accennato. Ma il cuore pulsante di On The Shore è rappresentato dal tradizionale Streets Of Derry, con le chitarre elettriche che dialogano nel lungo finale e il basso di Bushell a sostegno delle improvvisazioni, una lunga suite psichedelica di grande fascino. E da Sally Free   And Easy, del folk singer Cyril Tawney, registrata dal vivo in studio al termine di una lunga giornata e provata solo mezz’ora prima, introdotta da un suggestivo pianoforte che poi lascia spazio alle chitarre acustiche ed alla voce limpida e intensa della Humphris. Sono 10 minuti di un incredibile crescendo con tutti gli strumenti che si rincorrono tra loro a delineare un paesaggio sonoro dilatato, vivido, di una luce sognante. In questi due brani i Trees mostrano la loro straordinaria abilità nell’amalgamare linguaggi differenti e creare un folk psichedelico di grande spessore e qualità. Resta da dire ancora dell’originale Fool, scritto da Bushell e Costa, dalle movenze ipnotiche e decisamente rock, l’acquerello acustico dal sapore medievale Adam’s Toon, scritto dal compositore e poeta francese Adam de la Halle vissuto nel tredicesimo secolo, e la tradizionale Polly On The Shore (conosciuta anche come The Valiant Sailor, popolare sea song apparsa  per la prima volta intorno al 1744 e dagli accenti antimilitaristi) a chiudere, con un’altra suite a forti tinte psichedeliche, un disco semplicemente irresistibile e coinvolgente.


 


 

Nel 1971 il gruppo si scioglie, per poi riformarsi brevemente l’anno successivo con Barry Lions al posto di Bias Boshell e Alun Eden alla batteria in luogo di Unwin Brown, con l’aggiunta al violino di Chuck Fleming. Nulla di ufficiale registrato, a parte un bootleg edito in Italia dalla Hablabel nel 1989 con materiale dal vivo e una copertina certamente non all’altezza dei due precedenti album. Purtroppo, anche la musica non è un granché, lontana dal fascino di On The Shore e The Garden Of Jane Delawney, un onesto folk con velate tinte rockeggianti, per di più di scadente qualità sonora.

Resta un mistero lo scioglimento dopo due dischi di assoluto valore, anche se probabilmente le vendite insufficienti e le recensioni non tutte positive hanno contribuito in maniera consistente alla fine del gruppo, lasciando ad un ultimo vano tentativo con una seconda line up la ricerca di quel successo che altre band dello stesso genere musicale avevano avuto in quel periodo. Successo che arrivò in parte, e postumo purtroppo, nel 2006 grazie al duo soul americano Gnarls Barkley che campionò, per la title track del loro disco St. Elsewhere, la versione dei Trees del traditional Geordie, vendendo milioni di copie.



Lo scorso anno, sorprendentemente, è arrivato un elegante cofanetto di quattro cd, corredato da booklet con foto e storia/storie del gruppo, che comprende i due album, un terzo cd di outtakes e remix e il quarto con delle session live alla BBC, più brani dal vivo suonati al Cafè Oto di Londra nel 2018 da una fantomatica On The Shore Band con i soli David Costa e Bias Boshell della formazione originaria. Un piccolo regalo che non fa che aumentare i rimpianti per una band che avrebbe avuto ancora molto da dire.

A noi rimangono musiche eccezionali che acquistano sempre più fascino nel corso degli anni, frutto di stagioni forse irripetibili e che fanno dei Trees certamente uno dei migliori gruppi non solo di folk rock ma della musica popular.

pop

mercoledì 10 febbraio 2021

L'arte del duo!





Ad integrazione di questo post dello scorso anno va aggiunto quello che probabilmente è il lavoro più affascinante del lotto: Keys, a nome del sempre attivo Bill MacKay e del virtuoso del clawhammer banjo Nathan Bowles. I due allestiscono un piccolo gioiello acustico, sempre con lo sguardo rivolto verso le profonde radici folk americane e con quei tocchi improvvisati seducenti, spazi distesi e accenni minimalisti. E se di Bill MacKay ne abbiamo già tessuto le lodi, altrettanto va fatto con il multistrumentista  proveniente da Duhram (North Carolina) Nathan Bowles, nato come batterista e percussionista ma riconvertitosi con meritato successo al banjo. Autore di una manciata di ottimi lavori in solo, in Keys Bowles dialoga perfettamente con il suo compagno intrecciando abilmente i suoni del suo banjo con le chitarre visionarie di MacKay. Un album assolutamente da ascoltare distesi sul divano, sognando ad occhi aperti un'altra America.  



Al centro di questi paesaggi sonori delineati in coppia, certamente anomali ma alquanto suggestivi, c'è lui, Ryley Walker, da Chicago. 

 


Di Walker se ne è parlato molto, giustamente, e speriamo se ne parli anche in futuro, in attesa di suoi nuovi lavori. Musicista particolare, profondo e creativo, autore di una progressione artistica notevole che in soli tre dischi solisti l'ha portato dalle lande intimiste contornate dai Van Morrison e dai Nick Drake, a territori più impervi, increspati dai rivoli dell'improvvisazione che certamente è di casa in quel di Chicago. Ma il chitarrista è personaggio da innumerevoli appetiti, in continua ricerca e voglioso di approdare in terre inaudite, per nulla fermo sugli allori. E' quindi abbastanza naturale che in questi anni, oltre alle sue opere soliste, abbia intrecciato e incrociato i destini e le musiche di altri inesauribili ricercatori di nuove sonorità, grazie anche all'ambiente favorevole a questo tipo di mutazioni che la città di Chicago, storicamente, offre ai suoi concittadini. 

Meno famoso di Walker, ma anche lui instancabile chitarrista, innovatore e sperimentatore, Bill MacKay è uno di quei musicisti che attraversano i generi con semplicità e spontaneità: dal folk all'avant-rock, al jazz e al blues, dalla collaborazione con la violoncellista della Chicago Symphony Orchestra Katinka Klejn a lavori in solitudine. In poche parole, un tipico prodotto della fertile scena di Chicago. 



E veniamo al terzo protagonista, Charles Rumback, batterista, bandleader e compositore di ambito free, essenzialmente un jazzista, autore di diversi lavori discografici, spesso in trio con il pianista Jim Baker e il bassista John Tate. Provenienza? Chicago, as usual!

Viste le biografie e la residenza comune era assai naturale che questi musicisti si trovassero insieme a collaborare, ovviamente su terreni a loro congeniali, di certo non inclini al mainstream. Ed è quindi con curiosità che mi sono avvicinato a questi lavori prodotti in coppia, due a nome Bill MacKay e Ryley Walker, gli altri due a nome Charles Rumback sempre con lo stesso Walker. Quattro dischi dalle atmosfere e dall'andamento simili, come se fossero suonati da un'unica band contraddistinta da una spasmodica ricerca a rifuggire le etichette, a travalicare gli stili, tutte qualità (perché di questo si tratta) che sembrano essere di casa nella dinamica ed effervescente Windy City, la Chicago del jazz e del blues, dell'Art Ensemble e della techno, del post-rock e della Symphony Orchestra.  



Tuttavia sbaglierebbe di grosso chi pensasse a lavori ardui, duri, di difficile ascolto. Tutt'altro. I tre hanno trovato in quel suono malinconico, pastorale, prettamente acustico, il luogo dove intrecciare le loro anime creative. Quella musica che viaggia tra folk e blues, tra John  Fahey e Nick Drake, il fingerstyle, i Monti Appalachi e i raga indiani, quel sapore di un'America d'altri tempi, ma anche quel richiamo d'Europa, con qualche sottile esotismo. Il tutto reso audace e intrigante da un approccio improvvisativo che attraversa tutti e quattro i lavori costantemente, dando un profondo senso di avventura a tutte le composizioni.  Ed è un piacere sopraffino perdersi nell'ascolto di queste lande. 

Più elettrico e psichedelico Cannots, il primo lavoro di Walker con Rumback, ampiamente improvvisato e vicino a certe atmosfere alla Grateful Dead, mentre il secondo lp, Little Common Twist, è pacato, arioso, sostenuto talvolta dall'elettronica di John Hughes, ma in modo delicato, a far risaltare la compostezza acustica del disco e la morbida batteria di Rumback.

SpiderBeetleBee, con Bill MacKay, è un trionfo di chitarre intrecciate, melodie folk, richiami blues e suggestioni agresti. I due chitarristi, anche qui talvolta aiutati dal violoncello di Katinka Kleijn o dalle percussioni di Ryan Jewell, esplorano con profondità quel mondo acustico che fa riferimento a John Fahey e a Bert Jansch, America ed Europa, folk e blues, radici e sguardi improvvisati. Stesso discorso per il loro primo disco, Land Of Plenty, con qualche richiamo esotico e medievale in più, ma sempre con un'originalità e un'intensità davvero uniche. 



Quattro dischi che ci mostrano un'America differente, quasi compassata, riflessiva, attenta a ricordare i suoi legami con l'Europa ma ricca di pulsioni improvvisate che scorrono sottotraccia, a rinvigorire vecchie melodie e atmosfere sospese nel tempo. Ai quali può benissimo essere aggiunto Fountain Fire, lavoro solista di Bill MacKay, che scorre fluido negli stessi territori. 

Se Ryley Walker di attenzioni ed elogi ne ha avuti molti, credo che altrettanto vada fatto con questi suoi due compagni di viaggio e concittadini, Charles Rumback e Bill MacKay.

 


https://open.spotify.com/playlist/35SZEICX1pJyEfLLWsgtnL?si=A6D4fD-PRmK_kxrH-SUIxA


Bill MacKay - Ryley Walker "SpiderBeetleBee" Drag City, 2017

Bill MacKay - Ryley Walker "Land Of Plenty" Whistler Records, 2015

Charles Rumback - Ryley Walker "Little Common Twist" Thrill Jockey, 2019

Charles Rumback - Ryley Walker "Cannots" Dead Oceans, 2016

Bill MacKay "Fountain Fire" Drag City, 2019

Bill MacKay - Nathan Bowles "Keys" Drag City, 2021


pop

giovedì 7 gennaio 2021

Weird Tales. Twink, the pink drummer

Le avventure di un batterista underground tra psichedelia e punk

 

Le vicende della musica rock inglese hanno spesso nascosto o messo da parte i personaggi che non rientravano nella trattazione classica, quelli che esulavano dai generi o se ne mantenevano ai margini. Nel racconto emerge sempre un susseguirsi di eventi che sembra stritolare le personalità contrastanti e fluttuanti. Eppure, il nostro Twink (all’anagrafe John Charles Edward Adler), magistrale batterista, cantante, attore, si è trovato nel corso della storia al posto giusto e nel momento giusto, niente da dire su questo. Nella Swingin’ London e nella Londra del punk, all’Ufo club come a Ladbroke Grove o tra le fila della Chiswick Records, la prima indie label britannica.  È stato l’ultimo hippy e allo stesso tempo un punk ante litteram, ma tutto questo invece che portargli gloria ha finito per lasciarlo ai margini, forse volutamente.



Batterista dei Tomorrow, mitico gruppo psichedelico con lo Steve Howe dei futuri Yes nelle fila, artefici di due fra i più popolari singoli della Londra Underground del 1967, My White Bycicle e Revolution, e di un omonimo Lp, Twink poi approda in un’altra grande band della Londra alternativa, i Pretty Things. Ma prima di approdare nel gruppo di Phil May e Dick Taylor forma un duo con l’ex bassista dei Tomorrow John “Junior” Wood chiamato The Aquarian Age e registra un singolo, 10.000 Words In A Cardboard Box/Good Wizard Meets Naughty Wizard, che poi ritroveremo più avanti nella nostra storia. Ma, come dicevamo, Twink, ormai già famoso nei circuiti alternativi, prende il posto di Skip Alan dietro i tamburi dei Pretty Things e registra con loro uno dei capolavori del rock inglese. S.F. Sorrow, pubblicato nel dicembre 1968, è il disco della svolta psichedelica del gruppo basato sulla storia drammatica del protagonista Sebastian F. Sorrow.  Primo concept album che anticipa il Tommy degli Who, purtroppo per il gruppo non riscuote il successo sperato e questo provoca l’abbandono temporaneo del chitarrista Dick Taylor nel giugno del 1969. A questo punto Twink, pur essendo formalmente ancora un membro dei Pretty Things, inizia a pensare in proprio e registra alcuni demo insieme al suo vecchio amico John “Junior” Wood e a Steve “Peregrin” Took dei Tyrannosaurus Rex di Marc Bolan. La Sire, un’etichetta discografica americana che aveva pubblicato il disco dei Tomorrow negli States, gli offre la possibilità di registrare un album a suo nome e lui, ovviamente, accetta. Il periodo certo non è lo stesso di qualche anno prima, quando una Londra effervescente era il luogo di residenza privilegiato della sperimentazione in tutte le arti, atmosfere vibranti cariche di creatività e ribellione. La psichedelia è ormai defluita nelle retrovie e una certa aria di riflusso pervade sia la società che ovviamente la musica. Nonostante questo Twink si imbarca in un progetto che tenta, con successo va detto, di tenere in vita quel mix di stravaganza, improvvisazione e visionarietà tipico della musica psichedelica e inizia le registrazioni del suo primo disco solista, Think Pink.


L’elenco dei musicisti che collaborano alla realizzazione del disco è significativo e anticipa anche gli sviluppi futuri della carriera di Twink. Accanto a Wood e Took ci sono membri dei Pretty Things come Phil May, il chitarrista Vic Unitt, il bassista Wally Allen e il tastierista John Povey. E poi il chitarrista Paul “Blackie” Rundolph, il bassista Duncan “Sandy” Sanderson e l’attivista e agitatore culturale Mick Farren, tutti membri dei Deviants, un gruppo garage rock dalle sonorità sperimentali e protopunk, una sorta di Fugs londinesi.

L’apertura è affidata a The Coming Of The Other One, caratterizzata da voci trattate, chitarre e sitar in sottofondo, in un paesaggio psichedelico vicino a Syd Barrett e con frammenti di un poema di Nostradamus sul Giorno del Giudizio. Il secondo brano è quella Ten Thousand Words In A Cardboard Box del singolo degli Aquarian Age, qui in una versione più psichedelica, con la chitarra di Paul Rudolph che attraversa tutto il brano e nel finale erompe in un assolo acido, allucinogeno, incalzato dalla movimentata ed agile ritmica di Twink e Junior Wood. Dawn Of Magic è un bordone ipnotico e surreale, un mantra colorato, mentre la successiva Tiptoe On The Highest Hill (già nel repertorio degli Aquarian Age) è, probabilmente, l’apice del disco. Una commovente e sognante ballad, con la strabiliante chitarra di Rudolph al contrario, che può benissimo dirsi l’essenza della musica psichedelica. Chiude la prima facciata Fluid, un inizio sexy con una voce femminile in estasi e un lungo e piacevole crescendo fino all’esplosione finale caratterizzata dagli accordi di una chitarra estremamente distorta e l’altra impegnata in brevi ricami psichedelici, con i piatti e le rullate di Twink ad esaltare il tutto.  

La seconda facciata del disco si apre con Mexican Grass War, musica free form elaborata collettivamente in studio, caratterizzata da tamburi di guerra e voci confuse, con la chitarra distorta che trafigge il brano fino ad un parossistico finale. Rock An’ Roll The Joint è una sorta di hard rock blues, dalle parti di Hendrix, mentre Suicide è in puro stile Tomorrow/Pretty Things di S.F.Sorrow, chitarre acustiche, stop and go e la solita atmosfera sognante e fluida. Three Little Piggies vede insieme Syd Barrett e Daevid Allen, una buffa filastrocca tipicamente sixties, un divertissement psichedelico. Chiude il disco The Sparrow Is A Sign, anch’essa composta in studio ma con un contributo particolare di Steve Took, ed è un anomalo e disorientante rock attraversato, al solito, da una grande lavoro di chitarra di Paul Rudolph.



Twink e i suoi compagni, con Think Pink, elaborano un piccolo capolavoro, certo nei suoni leggermente datato ma assolutamente ancora fresco nell’approccio e nello sviluppo di un linguaggio espansivo e sperimentale. Un disco di autentica musica psichedelica, una miscela di pop, rock e improvvisazione free form, con atmosfere dilatate e suoni eterei, melodie sognanti e stravaganze sonore.

Si tratta di quei lavori unici per certi versi, eccentrici e irripetibili che spesso sono poco conosciuti o apprezzati. Potrebbe essere fatto un parallelo con The End Of The Game di Peter Green, tra l’altro uscito nello stesso anno, il 1970, per come viene affrontata la materia musicale, e per il ruolo che riveste l’improvvisazione nella composizione delle musiche, anche se ovviamente il lavoro di Peter Green è innervato completamente di blues.

Come detto Think Pink, con la splendida copertina dello studio Hipgnosis, esce nel 1970 non prima di essere stato rimixato dallo stesso Twink, insieme a Steve Took, perché insoddisfatto del lavoro fatto da Mick Farren, che rivestiva per l’appunto il ruolo di produttore e arrangiatore. Nonostante questi contrasti con il leader dei Deviants, Twink è intenzionato a costituire una nuova band proprio con Mick e Steve Took, una specie di supergruppo composto da ex Pretty Things, Tyrannosaurus Rex e Deviants per l’appunto. È proprio per quest’entusiasmo riguardo il nuovo progetto che il disco solista di Twink praticamente non avrà promozione e verrà dimenticato dallo stesso autore, che lo considererà come una sorta di primo album della nuova formazione, i Pink Fairies.



Dopo un disastroso concerto a Manchester la nuova band finalmente si stabilizza con i vecchi membri dei Deviants Paul Rudolph, Duncan Sunderson, Russell Hunter (una line up con doppia batteria!) ma senza Mick Farren e Steve Took.  Il nome deriva da un locale chiamato Pink Fairies Motorcycle Club And All-Star Rock’n’Roll Band e ricorda la prima band di Twink, quei Fairies con i quali aveva registrato tre singoli intorno alla metà degli anni 60 e che si erano sciolti nel 1967.

A questo punto va avviata una riflessione, certamente breve in questo ambito, su quella corrente sotterranea che ha attraversato i sixties e la prima metà degli anni Settanta e che dalla scena psichedelica londinese, l’Ufo club e il 14 Hour Technicolor Dream, arriva dritta al punk. Una serie di musicisti e musiche che rimangono lontane dallo star system e dalle evoluzioni prog, restando fedeli a quell’approccio spontaneo verso la musica, anche scanzonato. Un intreccio di grezzo e sporco rock‘n’roll con suggestioni e sonorità psichedeliche, dilatate. E che si contrappone all’esasperato virtuosismo, all’esibizionismo delle rock star, in un’ottica ancora legata agli ambienti della controcultura attiva e militante, all’underground alternativo che sommuove la società. Questi musicisti, i Pink Fairies ma anche gli  Hawkwind (collaboreranno spesso insieme e daranno vita, ad un certo punto, ad un gruppo dal nome PinkWind), i Deviants di Mick Farren, Steve Cook, Larry Wallis e altri meno noti sono l’anello di congiunzione tra la controcultura dei sixties e la rivoluzione punk, e terranno in vita l’approccio libertario e hippy alla musica e agli eventi intorno ad essa, come festival, concerti e produzione di dischi. 



Da questo punto di vista il disco d’esordio dei Pink Fairies, Never Never Land, è significativo. Il brano d’apertura, quella Do It uscita anche come singolo (The Snake/ Do It, gennaio 1971, Polydor), è un graffiante inno alla rivolta e il titolo è ripreso dal libro di Jerry Rubin, l’attivista e politico radicale americano amico di Abbie Hoffman (Do It! Scenarios Of The Revolution, uscito nel 1970 e con l’introduzione di Eldridge Cleaver, esponente delle Pantere Nere). Twink ripubblicherà Do It nel febbraio del 1978, in piena era punk, per la Chiswick Records (Do It ‘77/Psychedelic Punkeroo/Enter The Diamonds  12”Ep a nome Twink And The Fairies) e verrà ripreso anche da Henry Rollins, l’ex frontmen dello storico gruppo punk californiano Black Flag, con la sua band nel 1988. Ma tutto il disco è un perfetto alternarsi di energici brani rock e composizioni dilatate, ancorate alla matrice psichedelica. Basterà citare, oltre a Do It, gli ultimi due brani di Never Never Land: la potente ed estesa Uncle Harry’s Last Freakout, cavallo di battaglia del gruppo dal vivo, un mix di grezzo e ruvido rock e lunghi assoli che espandono la composizione in una sorta di viaggio spaziale, mentre il finale è uno splendido brano proprio di Twink, The Dream Is Just Beginning, delicato ed etereo, che ricorda certe atmosfere del David Crosby di If I Could Only Remember My Name.



Il disco uscirà per la Polydor nel maggio del 1971 con una copertina dall’aspetto fantasy, curiosamente molto vicina all’estetica prog ma anche alla mitologia del pianeta Gong. A questo punto i percorsi e le traiettorie si fanno estremamente confuse, tra abbandoni, ritorni, nuovi innesti, collaborazioni, fughe in Marocco (Twink), discografie frammentarie. Giova ricordare, per quanto riguarda Twink, l’effimero progetto con Syd Barrett e l’ex bassista dei Delivery Jack Monck, il trio Stars, che purtroppo, a parte qualche esibizione dal vivo, non riuscì a registrare nulla per le precarie condizioni di Barrett. Ma anche la partecipazione alle registrazioni di quel bizzarro e folle esperimento di Mick Farren, il suo disco solista Mona-The Carnivorous Circle (registrato nel dicembre 1969 e pubblicato nel marzo del 1970), intreccio tra spoken word e stralunato rock, con interviste agli Hell’s Angels e la preziosa presenza di Steve Took.  Poi, nel 1975 una reunion con i Pink Fairies in un bel live alla Roundhouse (Live At The Roundhouse, edito nel 1982 dalla Big Beat). 



Tra innumerevoli partecipazioni e collaborazioni si arriva al 1977, in piena era punk e qui troviamo il nostro Adler, in qualità di cantante, tra le fila dei Rings, insieme ad Alan Lee Shaw e Rod Latter degli Adverts. Con questo gruppo registra uno dei primi singoli punk, I Wanna Be Free, sempre per la Chiswick Records. Ma il gruppo si scioglie e la carriera di John Charles Adler, da questo punto in poi, si fa confusa e il suo Acid Punk, come lui aveva definito la sua musica, non avrà seguito. La storia prosegue sempre più sotterranea, tra registrazioni clandestine e apparizioni come attore in diverse serie televisive inglesi, finché nel 2013 Fabio Porretti e Marco Conti, i Technicolour Dream, uno dei primi gruppi italiani neo psichedelici degli anni 80, tramite Facebook contattano Twink, nel frattempo convertitosi alla religione islamica e con il nuovo nome Mohammed Abdullah. Con lui, e con l’ex chitarrista dei Blossom Toes Brian Godding, registrano You Reached The Stars (al Gulliver Master di Roma e missaggio agli Abbey Road Studios di Londra) seguito poi da Think Pink II, con la partecipazione di John Povey dei Pretty Things (mixato da John Wood!) e da Sympathy For The Beast, sempre con Povey. Tre dischi che riportano in superficie quelle sonorità psichedeliche fatte di melodie estatiche e atmosfere dilatate nel tempo e nello spazio. Come si può facilmente notare, il nostro non ha certo perso la voglia di suonare e di rimanere nell’underground, fedele alla sua storia e alla sua estetica di hippy senza tempo.   E c’è ancora spazio per il terzo e quarto capitolo del suo capolavoro, un Think Pink III assolutamente barrettiano, elettroacustico e sognante, mentre il Think Pink IV accarezza il cosmo e lo space rock tra Hawkwind e Gong, senza far mancare l’energia delle chitarre distorte alla maniera punk. Ancora tanta musica, ancora quella voce evocativa che si perde nei meandri dello spazio, quel suono sconfinato, etereo, incantato.



Riannodando i fili possiamo notare come questo musicista, ai più sconosciuto, sia stato presente in alcuni album di culto della storia del rock, Tomorrow dell’omonimo gruppo, S.F. Sorrow dei Pretty Things e Never Never Land dei Pink Fairies, e in più abbia scritto pagine memorabili a suo nome, come per l’appunto Think Pink. Ma Twink rappresenta quel mondo che ha avuto il suo momento di gloria nella Londra della seconda metà degli anni 60, dove psichedelia, improvvisazione, pop, rock, blues e sperimentazioni varie ribollivano in un unico calderone, dando vita a musiche affatto straordinarie. Un periodo irripetibile che John Charles Adler, insieme a pochi altri, ha tentato di tenere vivo fino all’avvento del punk, trovando in questa ennesima rivoluzione musicale, seppur parzialmente, alcune caratteristiche che lo hanno sempre contraddistinto, prima fra tutte la voglia di suonare liberi, senza far troppo caso alla tecnica o al virtuosismo.  



 

Discografia selezionata

Tomorrow, Tomorrow, Parlophone Records/Sire, 1968

Pretty Things, S.F. Sorrow, Columbia, 1968

Twink, Think Pink, Sire, 1970

Pink Fairies, Never Never Land, Polydor, 1971

Pink Fairies, Live At The Roundhouse, Big Beat, 1982

Pink Fairies, Kill ’Em And Eat ’Em, Demon Records, 1987

Twink And The Technicolour Dream, You Reached For The Stars, Sunbeam Records, 2013

Twink And The Technicolour Dream, Think Pink II, Sunbeam Records, 2015

Twink, Think Pink III, thinkpink50th.com, 2018

Twink, Moths & Locusts, Think Pink IV, Noiseagonymayhem Records, 2019



pop

 

 

 

mercoledì 16 dicembre 2020

Sguardi di fine anno

Com'è ormai consuetudine, anche per la fine di questo doloroso anno si stanno elaborando le varie classifiche ed elenchi di best of, seppur condizionati da tutto quello che è successo. Per quanto riguarda il mondo della musica, o meglio, delle musiche di ricerca, quelle lontane dal mainstream, possiamo dire di aver avuto per le nostre orecchie materiali di ottimo livello. Ma, in questo caso, vorrei più gettare uno sguardo generale,  tratteggiare o suggerire tendenze e orientamenti, che elaborare classifiche. 



Partiamo da una breve riflessione: la crisi acuta del rock, sia quello da classifica che quello più di nicchia, avanzato. Non voglio parlare di morte, come qualche critico famoso ha fatto tempo fa, ma in ogni caso ci troviamo di fronte un'assenza di prodotti significativi, ad una  vera e propria stasi creativa che dura ormai da molto tempo. Credo che il problema risieda nella fine della spinta propulsiva del rock, nella sua emarginazione dai linguaggi giovanili di protesta, nel non essere più espressione del disagio, o di provocazione artistica. E' come se si fosse spezzato il contatto con il terreno che permetteva a questo tipo di musica un continuo rigenerarsi perchè in stretto collegamento con il proprio pubblico di riferimento, le masse giovanili soprattutto. Ora sembra invece preda di un pubblico adulto, se non anziano, che predilige il fenomeno retromania, anche perchè oggettivamente questa musica ormai produce poco. Scalzato dalle musiche più propriamente nere (rap, funk, trap) oppure sommerso e sovrastato dal mercato, dagli pseudo talent, o semplicemente abbandonato a favore di musiche che prediligono l'importanza del testo, della parola, il rock sembra lentamente avviarsi ad essere una musica che guarda al passato, oppure ad annacquarsi, sbiadirsi nel calderone pop, senza più quella carica sovversiva che ne aveva fatto uno dei linguaggi di riferimento dell'espressività giovanile. 



Ma è vero che alcuni stilemi e sonorità rock hanno varcato i confini e li ritroviamo presenti, contaminati con molti altri generi e approcci musicali. Voglio dire: sembra che una certa sensibilità, un tipo di suono e di modalità abbiano deciso di intrecciarsi con l'improvvisazione tout court  (ma anche con sensibili accenti minimalisti) dando vita a sonorità e progetti significativi e sicuramente originali. Anzi, la speranza per il rock credo arrivi proprio da quei musicisti che viaggiano tra musiche differenti senza alcun problema, arricchendo il loro linguaggio e proponendo progetti particolari. Chrys Forsyth, Ryley Walker, Horse Lords, Sunwatchers, 75 Dollars Bill mi sembrano, tra gli altri, proposte assolutamente convincenti che delineano, seppur non sempre chiaramente e con successo, un futuro per le musiche di stretta derivazione rock. 




Comunque le elaborazioni più interessanti e suggestive arrivano dall'inesauribile patrimonio black. Come sempre è successo storicamente, l'effervescenza sociale e politica delle masse nere, impegnate in prima fila nelle lotte contro razzismo e discriminazioni, sta producendo un rigoglio di proposte artistiche di altissimo livello, da una parte e dall'altra dell'oceano. L'intreccio tra soul, funk, rap, jazz, blues e pop sembra essere un elemento comune a molti progetti e lavori usciti in questo 2020, facendo della blackness la cifra stilistica dominante, perlomeno per alcuni dischi di qualità elevata. C'è come un'urgenza comunicativa che porta gruppi e solisti a elaborare e rielaborare tutto il patrimonio culturale di origine afroamericana e a modellarlo e declinarlo con estrema raffinatezza e compiutezza. Alla base sembra esserci il ritmo, le linee di basso e la vocalità, le parole, la spiritualità. E' una necessità espressiva che in molti casi sembra proprio esplodere, come per esempio nel caso dalla rapper e performer Moor Mother, oppure insinuarsi tra le pieghe delle note e dei suoni, come nel caso dello storico sassofonista Idris Ackamoor e i suoi Pyramids, o ancora trasformarsi in inni o vere e proprie pop songs, come nei Sault o nei Mourning (A) BLKstar, riannodare i fili con Amiri Baraka e il free come nel caso degli Irreversible Entanglements o lasciar de/cantare e fluire uno dei grandi ispiratori della blackness, quel Gil Scott Heron rivisitato (ma non troppo) da Macaya McCraven. La parola viene declinata e fusa con i mille rivoli sonori africani, a produrre quell'eclettismo musicale che indubbiamente affascina e seduce, mostrandosi allo stesso tempo espressione e ispirazione di movimenti e anime in agitazione. Da questo punto di vista va anche sottolineato il protagonismo femminile (Moor Mother, Jyoti), anche qui espressione diretta dei movimenti delle donne, in particolar modo delle afroamericane, che è rilevante non soltanto a livello musicale ma anche teorico e artistico in generale. 



Ancora un altro aspetto: il rinnovato collettivismo, la volontà di far emergere il gruppo, l'ensemble a scapito dei/del solisti/solismo. Sault, The HeliocentricsMourning (A) BLKstar, Irreversible Entanglements, sono gruppi e/o collettivi che danno forza e privilegiano l'elaborazione collegiale, l'insieme a scapito del singolo. E anche i casi di Shabaka & The Ancestors, Idris Ackamoor & The Pyramids, oppure la vecchia (ma sempre validissima) Arkestra di Sun Ra, mostrano comunque la volontà e la necessità di avere al proprio fianco una comunità, un pensiero collettivo e uno sguardo d'insieme sulla realtà, sociale e artistica. 

Insieme a queste tendenze "black" non va certo dimenticato quell'approccio più propriamente sperimentale e legato alle vecchie avanguardie. In questo campo mi sembra si vada affermando una tessitura compositiva estesa, come fosse in continua espansione, senza limiti e inclusiva, anche qui, di linguaggi differenti, seppur a prevalenza jazz. Tim Berne e i suoi Snakeoil rappresentano al meglio questi aspetti, delineando spesso ambiti metropolitani, distopie e scenari complessi. Ma va certamente sottolineata anche l'opera multiforme di Rob Mazurek, in particolar modo quella con la sua Exploding Star Orchestra (e anche qui va notato il fatto che, seppur l'accento è spostato sul solista e leader, nondimeno rimane fondamentale l'apporto del gruppo o dell'orchestra), dai toni contemporanei, attraversati da groove e contraddistinti da temi intrecciati dai sapori afro, con un approccio collettivo e uno slancio efficace verso estetiche del futuro. Per ultimo vorrei segnalare Nels Cline che,  con i suoi Singers, attua questa attitudine compositiva dai confini illimitati con sonorità fortemente rock, dando ulteriori suggerimenti e suggestioni ad un genere che, come dicevo all'inizio, attraversa una profonda crisi. 

A conclusione di queste brevi riflessioni, una citazione sul fiorente e ricco mercato delle ristampe che talvolta rasenta la pura operazione commerciale ma in molti altri casi riesuma opere lodevoli, spesso dimenticate, o ci porta a conoscenza di outtakes e inediti che contribuiscono ad impreziosire quel disco o quella raccolta. Tra le tante ristampe mi sento di segnalarne due, abbastanza particolari. The End Of The Game di Peter Green, splendido disco di un blues trasfigurato e conturbante, e il cofanetto di 4 cd del gruppo folk rock inglese dei Trees, con la ristampa dei due dischi pubblicati nel 1970 e altre preziose perle fin qui inedite: un tuffo nei suoni folk modificati, alterati dalle sonorità psichedeliche, con accenti visionari e le delicate melodie delle ballad inglesi provenienti da lontani mondi incantati.

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