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martedì 8 marzo 2022

Tatti, all'improvviso

 

 


Baffi, baffi lunghi e all’insù. Pizzetto e basette corte, capelli arruffati, leggermente lunghi. Naso aquilino e labbra fini, bocca grande. Si, era più o meno così Tatti, una sorta di D’Artagnan contemporaneo. Camminava a busto eretto, quasi rimbalzando sulle punte dei piedi, con un andamento curioso ma convincente. Di solito non salutava, se tu non lo facevi per primo. E dopo emetteva una sorta di rantolio, una specie di ciao sbiascicato quasi incomprensibile. Qualcuno, ed erano pochi, era omaggiato di un abbraccio con bacio, gesto estremamente raro per un tipo come Tatti. Ma, appunto, raramente accadeva. Poteva trattarsi di qualche sua vecchia amica, o amante, o tutte e due spesso e volentieri.

Ma non poteva dirsi antipatico Tatti, no. Magari a volte scostante, irascibile, ma di base aveva quella bontà che percepisci pur tra mille difficoltà. Ecco, diciamo che non era assolutamente falso, ambiguo: i suoi sentimenti, le sue sensazioni, i suoi pensieri te li buttava in faccia senza alcuna intermediazione, senza alcun filtro.

E certamente non potevi negare la sua abilità, il suo talento musicale. Con il suo sax era in grado di passare da sensazioni pacate, morbide, sinuose, a momenti di rara potenza, di grande energia e irruenza, per poi tornare a rilassarsi, ad ammaliare l’ascoltatore.  Era uno spettacolo vederlo e sentirlo suonare, con quel suo incedere sul palco quasi fosse un filosofo dell’antica Grecia, intento a educare e istruire i suoi discepoli. Purtroppo, quel suo incedere continuo durante i concerti creava qualche problema anche ai musicisti con i quali suonava. Dovevano sempre lasciargli molto spazio e spesso le condizioni non lo permettevano. Oltretutto l’ipotesi di suonare con un leggio era ovviamente sconsigliata. Ma Tatti era il primo a dichiararlo. Diceva: «se volete suonare insieme a me, beh, io non leggo la musica, io suono». Ed era un concetto non del tutto astruso anche se, per chi non conosceva Tatti, dava l’impressione di un suo sentirsi superiore al resto dei musicisti. E forse l’impressione non era del tutto sbagliata, ma quella sua espressione, quella sua idea di suonare senza leggere per lui era sincera, scevra da ogni idea di superiorità.

A dirla tutta c’era anche un’altra motivazione per quel suo rifiuto: effettivamente non era molto abile nel solfeggiare e gli costava enorme fatica la lettura a prima vista di un brano. Quelle poche volte che si trovava a dover leggere uno spartito iniziava a toccarsi i capelli, a sbuffare, a muoversi nervosamente. Chi lo conosceva bene evitava di riprenderlo, di dirgli che stava sbagliando, di cercare di aiutarlo. Sapeva che doveva solo aspettare, aspettare che Tatti prendesse confidenza con la parte assegnatagli, che la digerisse lentamente, che ne prendesse possesso a modo suo. Al massimo gli si poteva appena accennare la linea melodica della sua parte oppure, magari rivolgendosi a qualcun altro del gruppo, solfeggiare quella figurazione particolare che Tatti non riusciva a decifrare. Il più delle volte bisognava aspettare la prova successiva dove, dopo essersi portato a casa lo spartito, tornava sicuro e perfettamente in grado di suonare la sua parte.

 Tatti e la musica erano una cosa sola, unica, inscindibile. Era sempre disponibile, non si tirava mai indietro, e questa sua disponibilità levigava le sue asprezze, i suoi modi spesso bruschi, adirati.  Non faceva differenza se a chiamarlo erano musicisti di gran levatura, famosi e importanti, oppure gruppi o situazioni più dilettantesche, non proprio alla sua altezza. Non passava giorno che non dovesse suonare con qualcuno, che non studiasse o si preparasse per un concerto.

Tuttavia, la sua amabilità, come detto, spesso si scontrava con alcuni atteggiamenti che lo configuravano come uno scostante e presuntuoso, e per questo da evitare. Era contraddittorio, ai limiti della follia. Potevi chiedergli suggerimenti e consigli e lui magari si prodigava nel darteli, rimaneva con te fino a tardi e ti offriva birre e amari in continuazione. Il giorno dopo lo rivedevi e neanche ti salutava. Non sapevi mai quale sarebbe stato il vero Tatti. Il generoso e ciarliero musicista oppure il personaggio altero, scontroso e indisponente. Potevi trovartelo in platea a sentire il tuo concerto e ad applaudire convinto, a sostenerti a gran voce e a complimentarsi con te alla fine della serata. Oppure potevi vederlo alzarsi dopo il primo brano, muovere rumorosamente la sedia ed andarsene con fare disgustato. Ci passavi una sera tranquilla a bere e a parlare di jazz, blues, rock, di musicisti amici e di personaggi famosi. E lui riusciva a trovare parole e giudizi buoni per tutti. Sembrava essere in pace con il mondo, distante e illuminato come fosse un Buddha. Beh, il giorno dopo potevi trovarlo demoniaco, scuro e curvo in un silenzio carico di odio. E ce n’era per tutti, amici e parenti, musicisti e pubblico e locali.

Così alla fine eravamo in pochi ad apprezzarlo veramente per quello che era, e cioè un gran musicista con degli aspetti caratteriali alquanto bizzarri. E avevamo imparato a contenerlo e a rapportarci a lui a seconda dei suoi stati d’animo. Ovviamente tutto andava bene nei momenti dove c’era il Tatti solare e illuminato. Quando si presentava la sua versione scura, come un alter ego, allora si mettevano in atto una serie di accorgimenti. Il primo era quello di eclissarsi, con estrema attenzione e gradualità ci si allontanava adducendo improvvisi impegni o cattivo stato di salute, mal di testa o febbre. Il secondo era quello di stringere una specie di cordone sanitario intorno a Tatti, fatto di discorsi e discussioni che si allontanavano dall’argomento musicale cercando di interpellarlo il meno possibile, magari sperando in un suo repentino cambio d’umore, che effettivamente talvolta poteva succedere. Questa seconda opzione spesso veniva attuata quando si era in presenza di persone che conoscevano poco Tatti, e quindi si tentava di evitare bruschi litigi o cattive figure. L’ultima opzione era quella di farlo bere o fumare cercando in questo modo di obnubilarlo e renderlo inoffensivo. Ma era una soluzione che, francamente, non era di grande spessore umano e ne ricorrevamo in rarissime occasioni.

Una sera ci si era dati appuntamento nel locale dove eravamo solito vederci e suonare, ascoltare concerti o semplicemente farci due chiacchiere a fine prove. Eravamo intorno alla classica birra e, quasi di soppiatto, con quel suo incedere molleggiato, armonioso e mosso, apparve Tatti. Aveva uno strano sorriso, quasi inquietante e anomalo, come fosse fuori posto sul suo viso. Lo salutammo calorosamente perché effettivamente era un po’ di tempo che non ci si vedeva. Stava suonando con un nuovo gruppo, giovani musicisti che però promettevano bene e, soprattutto, avevano diversi contatti in giro per l’Italia e per questo erano riusciti a inanellare una lunga serie di date.  

Gli offrimmo una birra ma lui rilanciò offrendoci a tutti un amaro. Insistemmo un po’ nel rifiutare, ma alla fine accettammo. Con i bicchierini in mano, pronti a sorseggiare, Tatti ci fermò e disse che voleva brindare. Ovviamente chiedemmo per quale motivo, ricorrenza, occasione. Allora quel suo sorriso estraneo si sciolse in un viso colmo di gioia, con gli occhi luccicanti e le guance distese, rilassate.

Era stato invitato a suonare con uno degli ultimi grandi musicisti di jazz che stava per arrivare in tour in Italia, a partire proprio dalla nostra città. Un grande trombettista afroamericano che era ancora attivo e, anzi, sembrava aver trovato una seconda giovinezza, con nuovi dischi e tour mondiali. Di solito, per alcuni concerti in città importanti, invitava a suonare con il suo gruppo qualche musicista locale, non di quelli già famosi, così da instaurare anche un rapporto amichevole con le scene musicali e, aspetto non secondario, attirare ancora più pubblico.

E questa volta la scelta era caduta su Tatti. E, detto tra noi, non poteva essere altrimenti. Era lui l’unico in grado di condividere il palco con una leggenda del jazz americano, ed era solo lui che non avrebbe certo sfigurato in un live del genere.

Così, per settimane, non si parlò d’altro. Le circostanze per le quali avvenne questa chiamata furono dibattute, argomentate, ingigantite e travisate. C’è chi diceva che il trombettista già da tempo conosceva Tatti per averlo ascoltato su alcuni dischi. Chi raccontava di un furtivo incontro a Londra dove Tatti suonava in piccolo locale. Chi semplicemente diceva che alla richiesta al suo manager di segnalargli un musicista bravo e promettente questi gli avesse segnalato per l’appunto Tatti, che era amico di alcuni suoi conoscenti. Insomma, voci che si rincorrevano spesso senza alcun fondamento, il tutto alimentato dall’alone di mistero che Tatti si procurò di alimentare intorno alla vicenda.

Alle nostre insistenti domande su come fosse avvenuto il contatto, in che ambito, se avesse già parlato con lui o con il suo manager, Tatti rimaneva evasivo, spesso cambiava versione, si contraddiceva, salvo poi concludere che c’era poco da dire su questa vicenda. L’importante sarebbe stato il concerto, non le modalità organizzative. Cosa, peraltro, vera e incontestabile.

E finalmente arrivò il grande giorno. Il concerto era ovviamente previsto per la sera ma Tatti era stato convocato al locale nel primo pomeriggio per una prova e relativo soundcheck. Fino ad allora le discussioni intorno all’evento vertevano per lo più sulle modalità dell’incontro, sui pettegolezzi, sugli sviluppi futuri. Sembrava che il fattore musicale vero e proprio fosse un accessorio, una sorta di appendice, tutto sommato scontata e priva di interesse. In effetti era il solo Tatti che più volte aveva posto l’accento sulla musica che sarebbe uscita da quel concerto, sulle emozioni e sensazioni che quell’incontro avrebbe sprigionato.

Il trombettista afroamericano era un personaggio abbastanza particolare. Amava stupire di continuo i suoi ascoltatori e da quando era rientrato in scena, circa quattro anni prima, aveva prodotto una serie di dischi uno differente dall’altro. Tra scrittura elaborata e libera improvvisazione non sapevi mai cosa aspettarti dalla sua musica, anche se la qualità era alta in ogni caso. Il suo ultimo prodotto discografico era uscito da qualche mese ed era ricco di ospiti che contribuivano a spiazzare l’ascoltatore di brano in brano. Era come se avesse voluto concentrare in 50 minuti, tale era la durata del cd, tutte le sue esperienze precedenti. Si andava da un brano orchestrale a brevi momenti in solo, duo improvvisati e atmosfere hard bop con il suo quartetto.

Il giorno del concerto, finalmente, si manifestò con tutta la sua potenza e invasività la domanda che molti di noi avevano evitato fino ad allora: che musica avrebbero suonato il trombettista e Tatti? Avrebbero improvvisato liberamente, come era nei nostri propositi e come tutti, in fin dei conti immaginavano e speravano, oppure avrebbero suonato brani originali, o magari qualche standard, o arrangiamenti elaborati appositamente per quel concerto? Qualcuno di noi provò ad inviare un messaggio a Tatti per sapere come era andata la prova e il soundcheck, se era tutto ok, ma non ricevette alcuna risposta. Non restava che attendere la sera e l’inizio del concerto per soddisfare la nostra curiosità e le nostre aspettative.

E la sera arrivò, placida e leggera, con quel suo incedere ammaliante, avvolgente e allo stesso tempo dolorante, di un sapore agrodolce. C’era la fila fuori dal locale, e non si faceva in tempo a salutare un amico che immediatamente ne sbucava un altro, e poi un altro ancora. Sembrava quasi di conoscerci tutti ma, effettivamente, era una di quelle sere dove avresti potuto incontrare chiunque, anche i tuoi vicini di casa o il tuo vecchio insegnante al liceo.

Ci affrettammo a prendere posto proprio davanti al palco, e nel frattempo cercavamo con lo sguardo di intravedere la sagoma di Tatti, dietro al palco o in giro per la sala, in uscita dai camerini. Ma nulla, neanche l’ombra. C’erano tutti i suoi amici e le sue amiche, c’era tutto il suo pubblico e c’era la folla delle grandi occasioni. Ma lui sembrava essersi dissolto, svanito nei meandri della città. Provammo al bancone del bar, nelle toilette, fuori nel cortile di lato al locale. E poi iniziammo a chiamarlo al cellulare, a tempestarlo di messaggi e WhatsApp. Ma non c’era risposta. Per un attimo iniziammo a temere qualcosa di grave, una sua improvvisa defezione dovuta a malore o a qualsiasi altro problema. Una lite improvvisa con il manager, con qualcuno del gruppo, con lo stesso trombettista. Da Tatti potevi aspettarti qualsiasi cosa, effettivamente, ma sapevamo che non avrebbe mai potuto perdersi un’occasione come quella.

Finalmente, dopo lunga attesa, uscirono sul palco il trombettista con il suo gruppo, pianoforte contrabbasso e batteria. Di Tatti nessuna traccia. Ma sapevamo le modalità organizzative di quel tipo di concerto: una mezz’ora il gruppo e poi il resto del concerto con l’ospite.

La musica fu subito entusiasmante, così calda e avvolgente da penetrare all’interno delle superfici cutanee e risalire su per tutto il corpo, alimentare il battito del cuore e aprire universi velati all’interno delle menti. Era effettivamente in gran forma il trombettista, e con lui tutto il gruppo. Alternavano composizioni a lunghe suite improvvisate, assoli infuocati e placidi momenti meditativi, minimalisti. Tuttavia, nei nostri pensieri, pur completamente obnubilati dall’ondata di musica che si riversava su di noi, in un angolo nascosto ma pur sempre attivo si celava l’attesa per l’arrivo di Tatti. Non avevamo dubbi che sarebbe uscito, c’era lo spazio per un altro musicista con relativa cassa spia sul palco.

Dopo circa una quarantina di minuti il trombettista prese il microfono e, con grande enfasi, invitò sul palco Tatti. Eravamo eccitatissimi e rispondemmo all’incitazione con un grido di gioia incommensurabile e liberatorio. L’attesa, la lunga attesa era finalmente terminata e tutti avrebbero goduto del trionfo di Tatti, non avevamo dubbi.

Passarono circa trenta, quaranta secondi e Tatti non usciva. Il trombettista era rivolto verso i camerini e con lui il resto del gruppo, in un’attesa nervosa, stizzita. Noi eravamo passati dal massimo dell’eccitazione all’angoscia per qualcosa che non riuscivamo a spiegarci, a comprendere. Iniziammo a battere le mani, a chiamarlo per nome e finalmente, dopo più di un minuto di attesa lui uscì.

Non facemmo in tempo a gioire e rallegrarci per la sua entrata perché subito, contestualmente al suo apparire sul palco notammo che aveva con sé un leggio, il sax a tracolla e nell’altra mano degli spartiti.

Fu come una pugnalata sul petto, come una scossa elettrica che ci passò da capo a piedi. Solo pochi di noi sapevano del suo difficile rapporto con la musica scritta, e solo noi potevamo intuire le enormi difficoltà che Tatti aveva incontrato il pomeriggio durante le prove, e l’ansia e la tensione che si apprestava a vivere durante quel concerto. La nostra unica speranza era nella facilità della musica scritta, speranzosi di una certa comprensione da parte del trombettista americano per gli ospiti che si trovavano a dover leggere e suonare le sue parti in così poco tempo.

Tatti prese posizione alla destra del palco, proprio di fronte al contrabbassista, e molto vicino al trombettista che ovviamente, come tutto il suo gruppo, non aveva né spartiti né leggii. Posò il leggio davanti a sé, mise sopra gli spartiti, levò il copri bocchino e bagnò leggermente l’ancia. Era molto teso, ma allo stesso tempo sembrava fosse assente, lontano da quel palco, da quei musicisti, da quella folla che lo aspettava. Provammo a salutarlo, a farci vedere, ma il suo sguardo andava oltre la platea, lontano oltre le porte del locale, del parcheggio e della via, sopra i palazzi e tra le nuvole, in alto nel cielo, oltre la luna e più su ancora, immerso nella galassia.

Iniziarono a suonare. Un’improvvisazione molto probabilmente libera, ma con dei riferimenti tematici, quieta e riflessiva. Il sax di Tatti dialogava alla meraviglia con la tromba, e il piano accompagnava i due fiati con discrezione, quasi in punta di piedi. Poi partì la batteria con un tempo velocissimo, seguita subito da contrabbasso e pianoforte. A quel punto il trombettista iniziò a suonare un tema abbastanza articolato al quale Tatti rispondeva con brevi frasi. Il tema si ripeteva più volte, spostandosi d’accento e divenendo ancora più complesso. Iniziammo a vedere Tatti un po’ difficoltà, curvo sul leggio, come se tentasse di pararsi dai fendenti di un pugile. E le frasi iniziarono a farsi smozzicate, incerte, deboli, fuori tempo fino a che Tatti smise di suonare e alzò lo sguardo oltre la terra, laggiù nel cosmo dove solo lui poteva esserci.

Il trombettista lo guardò di soppiatto ma continuò a suonare e con lui il resto del gruppo. Tatti rimase immobile senza suonare per quasi cinque minuti che a noi sembrarono ore, giorni, mesi. Era là con il suo sax e fisso osservava un punto lontano nell’infinito, senza luce nei suoi occhi, totalmente impermeabile a ciò che gli accadeva intorno. Il brano finì e ci fu un applauso timido, quasi preoccupato. Tutti avevano compreso la difficile situazione che si era creata sul palco, ma altresì tutti erano speranzosi per il prosieguo del concerto.

Il trombettista fece cenno a Tatti di iniziare. Spostò il primo spartito, ne prese uno dietro e lo mise davanti a sé. Lo osservò sempre con quel suo sguardo assente, liquido, debole. Iniziò a suonare da solo ma immediatamente il trombettista lo fermò. «Again», disse con una voce metallica. Tatti ricominciò ma lui lo fermò di nuovo. «Sorry», disse rivolto al pubblico. «Once again, please». E Tatti allora lo guardò con un fare interrogativo, quasi a dire perché, cosa vuoi. Tatti spostò leggermente lo spartito e lo mise più al centro del leggio. Lo guardò attentamente e riprese a suonare. Ma per l’ennesima volta il trombettista lo fermò e si avvicinò a lui. Tatti si spostò leggermente e il trombettista iniziò a suonare lo spartito di Tatti. Finito di suonare guardò Tatti con occhi accesi e un sorriso di compassione, invitandolo a suonare correttamente, come lui aveva fatto, ciò che era scritto sulla parte.

Eravamo increduli e allo stesso tempo oppressi da una sofferenza indicibile, un’angoscia che trafiggeva i nostri cuori, lacrime represse che irroravano tutto il nostro corpo. Avremmo voluto andarcene via, oppure che il concerto terminasse immediatamente, o che Tatti iniziasse ad improvvisare coinvolgendo il trombettista ed il suo gruppo per poi concludere un concerto di quelli che si ricordano per tutta la vita.

Ma la realtà, scura e tetra, continuò a colpirci con furore e spietatezza. Il trombettista era là, con la sua tromba in mano in attesa che Tatti suonasse, che Tatti facesse il suo ennesimo tentativo pronto a correggerlo nuovamente, di questo eravamo certi. E Tatti prese di nuovo il sax e avvicinò il bocchino alle labbra. C’era del sudore sulla fronte e gli occhi erano lucidi. Poi, ad un tratto, notai una leggera increspatura sulla sua bocca, quel suo strano sorriso che talvolta inquietava. I suoi occhi presero luce, si illuminarono intensamente, spargendo di fronte a sé dardi velenosi. E nel momento stesso in cui compresi ciò che stava per accadere, senza neanche avere il tempo di allarmarmi o di urlare qualcosa, Tatti prese il sax con tutte e due le mani e colpì con forza il viso del trombettista, che cadde tramortito sul palco. Ci fu un silenzio innaturale, e Tatti era già sul corpo del musicista e continuava a colpirlo con i pugni sul volto. A quel punto gli altri del gruppo si lanciarono su di lui, seguiti immediatamente da altre persone dell’organizzazione. E anche noi salimmo sul palco cercando di difendere Tatti. Fu una rissa clamorosa, con pugni che volavano da tutte le parti e il sax di Tatti che colpiva a ripetizione chiunque provasse ad aggredirlo. Si sentì il suono delle sirene e l’avvicinarsi di macchine, le urla del pubblico e dei contendenti, il fumo e la polvere, la batteria che rotolava sul palco e il legno del contrabbasso orrendamente squarciato. Nel caos generale riuscii ad intravedere Tatti con il suo sax fuggire via da una porta laterale mentre al mio fianco, sdraiato e immobile, il trombettista con il volto coperto di sangue.

Di Tatti si persero completamente le tracce. Non lo vedemmo più e le rarissime notizie che circolavano ogni tanto su di lui lo davano a Berlino o addirittura in Islanda. Qualcuno sosteneva che aveva abbandonato la musica ed era diventato un insegnante di yoga, qualcun’ altro aveva sentito di un suo concerto in solo a Edimburgo. Il trombettista dovette interrompere la sua attività per molti mesi ma alla fine tornò a suonare e ad incidere dischi.

A noi rimase il ricordo dei suoni del suo sax e per molti anni a venire la possibilità di raccontare una storia, una di quelle incredibili, assurde, straordinarie. «C’era molta tensione sul palco, e allora Tatti, all’improvviso…».


pop

 

 

 

 



mercoledì 9 giugno 2021

La moltitudine dei Clash

 

Qualche mese fa (dicembre 2020) è stato possibile vedere in streaming, gratuitamente e solo per 4 giorni, il documentario di Rubika Shah White Riot, vincitore al London Film Festival 2020, a Krakow 2020 e alla Berlinale 2019 come miglior documentario. Si narrano le vicende che portarono alla nascita del movimento Rock Against  Racism in Gran Bretagna culminato con il mega concerto a Londra nel 1978 davanti a più di 100.000 persone.  E il 12 dicembre è caduto l’anniversario dei quarant’anni dall’uscita del triplo album Sandinista dei Clash, tra i maggiori esponenti e artefici del successo di quel movimento.



Che il regista di White Riot abbia fatto riferimento ad un brano dei Clash (il loro primo 45 giri!) non ci deve meravigliare perché il gruppo è un po’ il simbolo di quella sottocultura, il punk, che fu coinvolta in quegli anni nella mobilitazione contro il gruppo neofascista inglese National Front. Nel contrastare la violenta campagna d’odio portata avanti dall’organizzazione di estrema destra, i ragazzi e le ragazze soprattutto provenienti dall’area di immigrazione caraibica, e giamaicana in particolare, con la cultura e la musica reggae come punto di riferimento, incontrarono il punk, quel movimento anarchico, provocatorio e fatto in gran parte da bianchi, che tanto aveva scandalizzato la società inglese ma che certo non si era proposto con fini politici. Insomma, quell’incontro tra due sottoculture non era per niente scontato, tantomeno su un terreno di mobilitazione politica, quale fu a tutti gli effetti Rock Against Racism. 

Ma i Clash non sono stati soltanto un simbolo di quel movimento, o del punk in generale. Partiti da quel suono rudimentale, istintivo, grezzo eppur già contaminato da altri suoni e altre culture, Strummer, Jones, Simonon e Headon hanno incarnato per almeno un decennio l’idea e l’icona del gruppo rock per eccellenza. È stata la band che nessuno poteva ignorare, alla quale tutti in qualche modo si rapportavano, da ascoltatori e da musicisti, un ensemble che racchiudeva in sé l’intraprendenza artistica e la valenza sociale e politica. Non potevi non amare i Clash, non potevi non sorprenderti di fronte alla loro inesauribile vena artistica, al loro rapido percorso verso una maturità sonora inimmaginabile ai loro esordi.




Si può dire che il punk abbia portato a felice conclusione le sue istanze di ribellione proprio grazie ai Clash, anche se non va dimenticato il contributo di John Lydon e dei suoi PIL. Ma Strummer e co erano certamente un’altra cosa. Nessuno poteva immaginare che dopo un capolavoro come London Calling, sarebbero riusciti ancora a stupirci, meravigliarci, con un triplo lp come Sandinista. Se London Calling aveva rappresentato la compiutezza dello sporco rock da strada, confluito in un suono ribelle e sfaccettato, che avrebbe rinnovato alla base l’estetica rock, Sandinista dipinge una multiforme partitura, un trionfo di colori in un mondo di suoni. London Calling ambisce ad essere un manuale del rock, un’opera compatta, finita, a sugellare il trionfo del punk e allo stesso tempo la sua dissoluzione in un suono sì grezzo ma anche raffinato, elegante, fiero delle sue molteplici influenze, tutte ricondotte ad un’unicità che è quella dei Clash, il gruppo che rimette il rock al posto giusto, lo ri/vitalizza e lo modernizza, mostrandone le radici e il futuro. Sandinista, invece, è qualcosa di indecifrabile, la moltitudine che assale il fortino delle certezze. Stracolmo di idee, di riferimenti, di suoni e di linee di basso, di melodie indimenticabili e di bizzarri esperimenti, Sandinista porta le ricche culture di origine africana al trionfo vero e proprio, all’esplosione creativa.  È come leggere un libro pieno di avventure e colpi di scena, senza mai un attimo di sosta, senza indulgere sulle raggiunte capacità artistiche ma mettendosi di nuovo in gioco, sperimentando per l’appunto. Riascoltarlo oggi viene quasi la rabbia perché non ci sia un gruppo, ora, in grado di fare almeno in parte quello che hanno fatto i Clash con Sandinista. Il coraggio e la volontà di comunicare al mondo il mondo stesso, la ricchezza e la varietà delle musiche che hanno sempre la stessa provenienza, lo stesso retaggio culturale, sempre lo stesso infinito patrimonio, che è quello afroamericano e africano in particolare. Sandinista ricorda a tutti e tutte che la nostra musica viene da lì, non se ne esce. E i Clash riescono nell’impresa di onorarla e allo stesso tempo arricchirla, di modificarne certe istanze e di rafforzarle, di esaltare il/i ritmo/ritmi, di riscaldare i corpi con i bassi e di accendere le menti con le parole, con i testi. Perché va oltremodo sottolineato anche l’alto valore poetico e di critica sociale e politica dei testi del gruppo, qui per la prima volta autore collettivo, anche se ovviamente Strummer ne aveva la prerogativa. Se Washington Bullets è l’accusa all’imperialismo statunitense (con uno sguardo anche all’URSS e alla Cina), Something About England attraversa la storia inglese con l’occhio dei perdenti, Lose This Skin tocca le tematiche transgender in anticipo sui tempi e l’antimilitarista Call Up affianca la ribelle Rebel Waltz.




Ma tutto il lavoro trasuda impegno e passione, in un tempo che già mostrava le profonde crepe dell’utopia socialista compromessa dalle derive staliniane dell’URSS e dall’avvento dell’ideologia liberista con il trionfo della Thatcher. In un quadro del genere i Clash seppero mostrarci la speranza di un altro mondo, una moltitudine colma di suoni e di gioia, strettamente ancorata alle nostre radici africane e afroamericane, come a volerne sugellare il trionfo. Tutto sommato, per il valore di Sandinista, poco spazio è stato dato al quarantennale di un’opera fondamentale della popular music. La speranza, ora, è di riuscire a vedere, nelle nostre sale, White Riot, questo splendido documentario che affronta tematiche ancora attualissime e che suggerisce percorsi di lotta e di organizzazione da non sottovalutare, pur in contesti differenti sia a livello temporale che sociale e politico. Certo, non avremo più al nostro fianco una musica così ricca e ribelle come quella che seppero donarci i Clash. Peccato.


pop

lunedì 8 marzo 2021

Rivoluzioni!

A novembre del 2008 Vladimir Luxuria, ex parlamentare di Rifondazione Comunista e simbolo transgender, vinceva L'isola dei famosi, noto programma Fininvest ed emblema dei reality show. Il quotidiano del partito, Liberazione, allora diretto da Piero Sansonetti, paragonava questa vittoria all'elezione a presidente degli Stati Uniti di Obama, mettendo la foto di Luxuria in prima pagina e dando una lettura dell'evento di assoluta rottura, di fenomeno "rivoluzionario" per la società italiana. Sarebbe ingrato ora chiederne riscontri, sia per quanto riguarda il percorso di Vladimir Luxuria (non mi sembra faccia più politica ma saltabella da una trasmissione all'altra in qualità di opinionista di costume) che per quanto riguarda il quotidiano Liberazione o il Partito della Rifondazione Comunista, definitivamente chiuso il primo e certo non in buone acque il secondo. Ma sarebbe ancora più imbarazzante chiedere riscontri di quella fantomatica rivoluzione del costume in un paese come il nostro oggi, dove i due partiti dalle ideologie reazionarie, omofobe e sessiste raggiungono oltre il 40%, o dove continuano con straziante continuità i femminicidi. E così, di quell'evento tutto mediatico, prodotto televisivo di mercato, rimane ben poca traccia, assorbito dal consumo e infantilmente paragonato ad eventi di ben altra natura. 



"Con i Maneskin (e non solo) a Sanremo 2021 ha vinto la rivoluzione. Questa edizione ha avuto il suono di una generazione nuova e ha segnato uno strappo fortissimo con il passato. Artisti che sfuggono alla grande industria, crescono nei nuovi media, e segnano una profonda distanza dalle generazioni precedenti". Questo uno dei titoli di Repubblica online, a firma del ben noto critico musicale Ernesto Assante, che nel suo facebook commenta ulteriormente e rincara la dose.

Confesso di non aver visto nulla di Sanremo 2021, come molte altre volte, ma poi, incuriosito dai commenti, sono andato a vedere i video di qualche brano, in particolare dei vincitori ovviamente. Dunque, il problema non è Sanremo nè i Maneskin o il resto dei cantanti. Il festival della canzone italiana è un prodotto commerciale, lo è sempre stato, e più che alla creazione artistica è interessato al mercato, alla vendita di spazi pubblicitari e all'audience. Tuttalpiù, come ogni prodotto commerciale, può registrare, inconsapevolmente o meno, dei cambiamenti in atto all'interno della società, delle modificazioni dei gusti o dei comportamenti. E Sanremo, con notevole ritardo rispetto a ciò che si muoveva nel paese dal punto di vista artistico/musicale, lo ha sempre fatto. D'altronde è un prodotto, e come tale deve essere venduto e per venderlo al meglio deve cercare di interpretare i gusti da una parte e dall'altra anche indirizzarli. Non a caso in queste ultime edizioni c'è sempre stato il trionfo di interpreti che venivano dai talent, certificando, anche qui con ritardo, il successo di questi format. Saranno rivoluzionari anch'essi?

Ma andiamo avanti. Che si tratti di rivoluzione per quel che concerne Sanremo 2021 Assante lo attribuisce a tutta una serie di fattori, tra i quali la vittoria di un gruppo di giovani che fa rock, la presenza di artisti poco conosciuti e fuori dalla grande industria (?), l'esecuzione di cover particolari come brani di CCCP/CSI o Guccini, e in definitiva l'esulare dal gusto medio, il rifuggire dagli ascolti tipici del nostro "fornaio, tassista, medico di base".

Per un gruppo che ha partecipato a X Factor essere definiti poco conosciuti e fuori dal mercato può benissimo considerarsi un successo, molto più della vittoria a Sanremo. E credo che Assante, in fatto di gusti sia rimasto un po'  indietro, se pensa che il nostro tassista o il fornaio oppure il medico di base non conoscano i Maneskin. Va detto, comunque, che l'ascoltatore medio spesso non conosce, o non conosce bene, i vincitori del festival, che sappiamo essere frutto di manovre particolari e non certo sinonimo di qualità. Ma vorrei dire che anche il fatto di essere giovani non rappresenta in sè l'essere rivoluzionari. Il Volo, quella sorta di brutta copia di Andrea Bocelli, è formato da tre giovanissimi e non penso gli si possa dare quell'appellativo. Per quanto riguarda il rock: credo che proprio questa vittoria ne certifichi la crisi profonda. Ormai è come musica leggera (anzi, leggerissima!) e il brano dei Maneskin può certamente essere definito rock, ma solo superficialmente, ne è come colorato, ne porta lontanamente il sapore. A parte il fatto di essere banale, sia nei suoni che nel testo, nell'interpretazione e nella forma, questo "rock" ha perso totalmente le caratteristiche di espressione giovanile di protesta, di canale espressivo artistico che sperimenta, che osa, per trasformarsi in cover di se stesso, in riproduzione scadente dell'originale totalmente slegato dalle dinamiche sociali se non come prodotto commerciale. 

Ma, come dicevo prima, il problema non è certamente il Festival o i suoi partecipanti. Fanno il loro mestiere, più o meno bene. Sono prodotti televisivi che hanno un determinato target, devono rispettare alcune formule, producono senso comune. E, con buona pace di Assante, non penso che questa vittoria dei Maneskin porterà, in futuro, un innalzamento del livello medio artistico/musicale del nostro paese. Il problema è proprio questo: a fronte di un format che privilegia il prodotto di mercato, di facile consumo, c'è poco o nulla che si muova al di fuori di esso. Sanremo c'era anche negli anni Sessanta e Settanta, ma c'era anche molto altro. Io non accuso Sanremo di essere Sanremo, ma accuso coloro che hanno responsabilità intellettuali (sempre meno va detto) di veicolare messaggi falsi in ciò contribuendo pesantemente all'isterilimento artistico. Parlare di rivoluzione a Sanremo significa far credere che quel brano, quelle canzoni, quei presentatori siano altro da ciò che sono, e cioè canzonette, qualcuna buona qualcun'altra meno, e stantii personaggi da avanspettacolo. Dare dignità di messaggio rivoluzionario a un banale "rock" significa ingabbiare all'altare del mercato e della mediocrità le spinte creative che ogni giovane generazione deve avere, significa indirizzare le idee verso un modello che nulla ha di rivoluzionario, nè dal punto di vista artistico nè dal punto di vista del costume. Se pensiamo che sia sufficiente urlare una brano dei CCCP vestiti in modo stravagante per fare una performance "eversiva", allora non avremo più nulla di certamente eversivo, ma solo banali riproposizioni e caricature. Il problema non è Sanremo. Il problema è il realismo sanremese, o il realismo dei talent, l'idea che tutto debba passare da quel contesto che non è neutro ma è materialmente responsabile di un certo tipo di elaborazione artistica, quella che funziona, quella che vende. E che certo non può essere rivoluzionaria. 


pop

venerdì 5 marzo 2021

Disfunti

Questo racconto è stato scritto molto tempo fa, e doveva essere pubblicato su una sorta di raccolta di memorie culturali sul quartiere San Lorenzo di Roma. Alla fine non se ne fece nulla, o meglio, il racconto fu scartato. Ma è rimasto sempre qui, nel cassetto del mio pc e ne sono ancora molto affezionato. Grazie a questo bel documentario https://youtu.be/MIvRjtemikA che ripercorre la storia del mitico negozio di dischi Disfunzioni Musicali, mi è tornato in mente e credo sia l'occasione giusta per pubblicarlo su questo blog. Buona lettura!



DISFUNTI


Si, il quartiere era old style, con quelle pizzerie e trattorie di una volta, con quei muri appassiti eppur gloriosi e forti, con possenti tracce dei movimenti e delle sinistre delle quali il nostro paese era fiero.

Si, il quartiere era ancora popolare, ricco di memorie e dall’aspetto un po’ rude e misterioso, inaspettatamente lontano dall’atmosfera universitaria e per nulla conscio del futuro turistico alle porte.

A S. Lorenzo si andava per una pizza o per le riunioni politiche, o per tutte e due, un fortino ben protetto e nel quale ti sentivi sicuro, a tuo agio. La musica? Ma sì, forse c’era, forse no, c’era stata ma ora, nei terribili anni ’80, la musica quella nuova, quella rock, quella alternativa, quella che nessuno conosceva o forse solo pochi sapevano e la custodivano gelosamente, beh quella non c’era… non c’era neanche a Roma.

Si leggevano riviste e fanzine con avidità e tenero amore, alla ricerca dei nuovi gruppi che sconvolgevano la perfida Albione e che stavano trasformando il rock e la musica giovanile in generale. Il punk, la new wave, il dark, poi la nuova psichedelia… un trionfo di stili, di generi e sottogeneri, di scaffali e cassetti dove potevi infilare il tuo gruppo preferito e condividerlo con pochi altri. Questi gruppi segreti, questi giovani carbonari, ebbero all’improvviso il loro ritrovo, la loro sede, un luogo fisico dove potersi incontrare e soprattutto toccare con mano gli amati vinili fin lì solo immaginati e conosciuti tramite recensioni e articoli delle suddette riviste.

Apparve senza nessun preavviso, come in una sorta di magia, quasi dal nulla e per di più nell’unico vicolo di S. Lorenzo, una specie di traversina storta, chissà come e chissà perché scelta quale luogo di culto e di ritrovo. Alle spalle dell’antico bar, vicino alla storica radio e alle storiche sedi, ad un passo dall’automobilistica pizzeria, il piccolo negozio di dischi aprì i suoi battenti probabilmente più per passione che per affari.

Piccolo ma fornitissimo, per i giovani carbonari che iniziarono a frequentarlo con assiduità. Era incredibile l’emozione che si provò alla vista, per la prima volta dei dischi dei quali si era favoleggiato e sognato per mesi e mesi. Ed ora erano lì, incellofanati ma ben visibili, vivi, colorati, ne potevi sentire il profumo ma anche i suoni. Era come poterli finalmente ascoltare anche se rimanevano nel loro bello scaffale in attesa di essere comprati.

<<Guarda, c’è anche questo...>>. << Sì, pazzesco…e questo? Hai letto la recensione? Dice che è fantastico>>. << Nooo, …incredibile, guarda qui!>>. Il piccolo tempio risuonava di affermazioni di questo tipo, condite da sospiri e vocalizzi vari, in un crescendo di stupore ed eccitazione.  Era un ruminare tra uno scaffale e l’altro, come alla ricerca dell’oro, e con il movimento delle dita sempre più veloce ed esperto, salvo poi bloccarsi alla vista del disco preferito o desiderato. Allora le dita lo prendevano delicatamente e lo estraevano dallo scaffale e gli occhi rimanevano lì ad ammirarlo per poi immediatamente procedere alla lettura delle mitiche note di copertina. Ci si passava delle ore in quel piccolo nido, magari senza comprare niente, anzi, era più facile uscire da lì senza nessun disco per via della penuria di soldi, ma soddisfatti e sicuri del prossimo acquisto da fare.

Loro, i sacerdoti del tempio, gli invidiati proprietari dall’aspetto semplice e soddisfatto immagino considerassero con simpatia e con un senso di affetto quasi paterno quella piccola folla di adepti che, soprattutto il sabato pomeriggio, affollava il locale o rimaneva proprio fuori l’entrata, a parlare o semplicemente a guardare gli altri che entravano ed uscivano. Immagino fosse per loro motivo di grande soddisfazione l’essere riusciti a radunare, in poco tempo, un nugolo di fedeli appassionati che spesso e volentieri li interrogava sulle ultime uscite o sulla qualità e la bontà dell’ultimo 45 giri o dell’extended play, che settimanalmente si recava al bancone chiedendo se fosse arrivato l’lp atteso da mesi o la compilation recensita poco tempo fa. Le loro risposte erano come vaticini, come verità dette da un adulto quando si è piccoli; non si discutevano bensì si assumevano come assolute. E servivano per avvalorare o contestare opinioni e idee sui gruppi e sui dischi dei quali si discuteva animatamente a scuola o in cantina prima, durante e dopo le prove.

La gioia che si provava uscendo da quel piccolo rifugio con in mano la busta del negozio era qualcosa di inimmaginabile. Li potevi riconoscere da lontano: uscivano velocissimi, e con passo spedito si avviavano verso la fermata dell’autobus, controllando spesso se la loro mano teneva ancora la busta. E poi, una volta saliti sull’autobus, ancora con il fiatone, aprire la busta e osservare l’lp, girarlo e rigirarlo, leggerlo, odorarlo, con un sorriso stampato sulla faccia e quasi le lacrime agli occhi. Erano così i giovani adepti della nuova musica. Forse la gioia dell’acquisto resisteva anche alla delusione per un disco e una musica che non piacevano, per un gruppo che ormai non era più come agli inizi, ai tempi del loro primo lavoro.

Ad ogni modo, fu così che S.Lorenzo divenne il quartiere dove c’era la musica, anzi il quartiere della musica. Non esisteva altro posto che S.Lorenzo se eri uno che leggeva avidamente due o tre riviste musicali al mese e conoscevi le formazioni e i gruppi dell’ultima ora. Sui muri, specialmente all’entrata del piccolo negozio di dischi, cominciarono ad apparire scritte con nomi assurdi e improbabili. Erano i nomi dei gruppi, magari anche sbagliati talvolta, o con commenti poco piacevoli e dispregiativi nei confronti di quella formazione o di quel cantante. Era buffo questo miscuglio di politica e musica sugli storici muri che avevano resistito persino al bombardamento. Ovviamente le scritte politiche erano in maggioranza, erano grosse e possenti, mentre le scritte sui gruppi rock erano ancora timide, piccole, quasi nascoste. Nondimeno cominciarono ad essere parte integrante del quartiere, tratto distintivo.

La piccola tribù cominciò a crescere e il negozietto era ormai troppo piccolo per accogliere i sempre più numerosi appassionati e fedeli. Alla notizia del cambio di sede, sempre a S.Lorenzo, ma in un posto molto, molto più grande, beh, la felicità fu infinita. Seconda solo alla vista del nuovo locale, ai primi passi dentro quel nuovo tempio musicale pronto ad ospitare e soddisfare le voglie sempre più sfrenate dei giovani acquirenti. Era incredibile: un posto così non era apparso neanche nei sogni. Ora potevi compiere diversi passi tra un genere musicale e l’altro, ora non c’era più bisogno di appostarsi come gufi alle spalle del tuo predecessore, maledicendolo perché non liberava lo spazio davanti allo scaffale prescelto, perché potevi benissimo spostarti ad un altro, ed un altro ancora, e potevi servirti all’usato, oppure vedere le vetrine interne, con le offerte di alcune rarità e la bacheca con gli annunci. E chi soggiornava fuori poteva gustarsi quelle tre, quattro vetrine con le ultime uscite, i manifesti dei concerti e le famigerate scritte dei gruppi sui muri. E c’era tanto spazio sul marciapiede, così tanto che ad un certo punto il locale prese il posto della famosa lampada Osram alla stazione Termini quale punto favorito d’incontro e di appuntamenti.

Insomma, non si era più degli gnomi simpatici ma poco visibili, bensì degli elfi luminosi, fieri e dall’aria ormai europea, quasi londinese. E anche l’avvento del cd fu assorbito in modo quasi indolore. Tutto sommato gli scaffali c’erano ancora, anche l’usato, le ultime uscite, i generi e i sottogeneri godevano di ottima salute e altre musiche prendevano il loro spazio all’interno del locale. Certo, il costo era cresciuto rispetto al vecchio lp, certo le copertine erano veramente tristi, piccole e con poche informazioni se non all’interno, certo il suono era un po’ più piatto. Ma l’emozione era quasi sempre la stessa: uscivi da lì questa volta con una piccola bustina, correvi verso casa cercando di aprire il cd e trovando spesso difficoltà insormontabili nel rompere la plastica che lo rinchiudeva e poi lo mettevi nel lettore senza più la paura del deterioramento, delle righe sul vinile, dei salti della puntina.

Ormai il locale era affermato, ben conosciuto a Roma, in Italia e all’estero, e con lui anche S.Lorenzo divenne famoso. Era come fosse una sala da tè, oppure un bar, o una sede di un collettivo o una galleria d’arte. Si andava lì per dare un’occhiata ai cd, si incontrava qualcuno, magari si comprava qualcosa, si mettevano in piedi gruppi e si organizzavano concerti. Si compravano riviste, fanzine, si portavano vecchi cd o vinili da vendere o permutare. Insomma, forse la movida a S.Lorenzo nacque proprio da questo posto. O forse no, forse era solo amore, passione pura per la musica. In ogni caso nessuno avrebbe immaginato la fine di un posto così.

Anche se più recente di tanti altri quel negozio era S.Lorenzo e S.Lorenzo era quel negozio.




L’avvento della musica digitale segnò la dolorosa fine di un simbolo. Cominciò lentamente, ma fu inesorabile. Le nuove uscite dovevi ordinarle, in vetrina c’era ormai poca roba, negli scaffali c’erano molti cd ormai vecchi, frutto di precedenti ordini, l’usato cresceva ma rimaneva spesso invenduto. Resistevano le musiche di confine e le specializzazioni, ma era troppo poco. Internet e gli mp3 stavano affossando quello che per molti anni era stato un luogo di culto, pieno di calore e colmo di musiche ed emozioni. All’improvviso, proprio come era nato, chiuse.

Così, un giorno uno va in quella strada per dare un’occhiata a qualche cd, per scambiare due chiacchiere e le serrande sono chiuse. Eppure, non è lunedì mattina. Niente, torna il giorno dopo ed è ancora chiuso. Partono telefonate con amici per cercare di sapere, di capire. Ma no, hanno solo chiuso temporaneamente, problemi di magazzino, liti tra vecchi soci, un attimo di pausa per riorganizzarsi. Ma si, ora riapre. E fu così, veramente. Il negozio riaprì, sempre come prima. Nessun restyling, come si usa ora, nessun cambiamento, tutto come prima. Allora si va avanti, allora si continua. Ok, c’è sempre meno gente, ma i cd sono ancora lì e si possono toccare, guardare, anche se le fotocopie incellofanate delle copertine sono sempre più sbiadite e illeggibili. Ok, non ci sono più le rarità, e i vinili sono pochissimi, ma si entra e si sente la musica, l’ultimo cd uscito di un gruppo del quale non ricordo il nome, oppure l’ultima scoperta dei proprietari del negozio ai quali chiedi il nome della band e di farti vedere la copertina. Si, c’è l’mp3, il downloading, ma quelle quattro mura sembrano poter ancora resistere.

E invece no.

Accade che un giorno passi di lì e vedi caricare alcuni cartoni in macchina e chiudere le serrande. Allora, memore della precedente temporanea chiusura, con un tono speranzoso e anche un po’ complice, chiedi: << quando riaprite? >>. << No, questa volta non riapriamo più. Questa volta chiudiamo>>. Ecco, esattamente le parole che non avresti mai voluto sentire. Questa volta chiudiamo, questa volta basta, è finita.

Forse è anche giusto così, forse è stato meglio così.

Ma a me sembra ancora di vedere, talvolta, nelle strade del quartiere, giovani che camminano con passo svelto e in mano una busta di dischi. Mi è sembrato anche che qualcuno passasse davanti alle vecchie vetrine e rimanesse immobile con lo sguardo socchiuso. E sembra che nel vicoletto storto, ogni tanto, riaffiori dai muri qualche vecchia scritta punk o dark. Mi è sembrato di aver sentito nella via qualcuno che cercasse quel negozio di dischi. Oppure di aver ascoltato discorsi nei quali se ne parlava come ci fosse ancora.

In ogni caso io continuo a dare appuntamenti lì, nella via dove c’era il negozio di dischi. Non si sa mai, dovesse riaprire!!! 

 

pop


venerdì 26 febbraio 2021

Weird Tales. Il giardino dei Trees: tra folk e psichedelia!

 

Il grande patrimonio folk anglo-scoto-irlandese è stato una delle caratteristiche forse meno evidenti dell’esplosione del rock inglese, spesso oscurato dal blues, dallo skiffle e dal rock’n’roll, musiche più chiaramente riconoscibili nella costruzione della British Invasion. Eppure, quelle centinaia di ballate che si sono trasmesse oralmente per tutta la Gran Bretagna e l’Irlanda, sconfinando anche negli Stati Uniti, sono state il substrato di tanta musica inglese, primi fra tutti i Beatles. È un patrimonio che è stato sottovalutato ma che con tutta evidenza rappresenta quell’elemento particolare, quell’ingrediente speciale che ha permesso la nascita e lo sviluppo del rock d’Albione. Tale è stata la forza di questo retaggio culturale da aver dato vita anche ad un vero e proprio genere musicale, il cosiddetto folk rock, che ha prodotto dei veri capolavori ed una serie di gruppi eccezionali. La triade Fairport Convention/Pentangle/Steeleye Span, con la Incredible String Band a fare da stralunato e sperimentale jolly, già di per se mostra la ricchezza e lo splendore di una musica ancorata si alla tradizione ma in grado di rinnovarsi e sperimentare nuove sonorità e nuovi approcci musicali. Il rock, il jazz e il blues hanno contribuito a dare una nuova luce alle ballate e alle canzoni tradizionali, dimostrando che un materiale, pur antico, può e deve avere sempre una nuova vita. 



Tra i numerosi gruppi e musicisti che hanno attraversato la gloriosa stagione del folk rock, tra il 1968 e il 1973, i Trees rivestono un ruolo particolare, lontani dal successo eppure autori di una miscela originale e significativa, con quel loro folk psichedelico, tra la California e le campagne inglesi. Bias Boshell, principale autore, bassista e tastierista, Barry Clarke, chitarra solista, David Costa, chitarra acustica e ritmica, Unwin Brown, batterista, e Celia Humphris, cantante, formano nella primavera del 1969 uno dei tanti gruppi che andrà ad arricchire il folto immaginario inglese, la nuova Arcadia, un paesaggio preindustriale, popolato da esseri fantastici e ricco di melodie e suoni naturali, con le foreste incontaminate e i bardi che narrano leggende d’altri tempi. Da questo punto di vista i Trees non sfuggono all’estetica folky del periodo, e gran parte della loro musica sarà tratta dal patrimonio folkloristico opportunamente riarrangiato, sulla falsa riga di ciò che facevano Fairport, Pentangle e tanti altri. Ma in loro c’è un approccio in parte diverso dagli altri gruppi folk rock. Potremmo quasi dire che l’esperimento Trees coniuga gli ultimi lasciti della rivoluzione pop di entrambe le sponde dell’oceano con il susseguente ripiegamento in ambito “fantasy”, di un immaginario lontano dalla contemporaneità e situato in un passato fiabesco. Da questo punto di vista non avremmo molta difficoltà a leggere come una tendenza comune e omogenea l’Arcadia folk con la Terra del Grigio e Rosa o le copertine di Roger Dean così come le atmosfere barocche dei Gentle Giant o la pastoralità di certi Genesis.

Tuttavia, nei Trees è possibile rintracciare consistenti elementi che contaminano e cambiano di segno le atmosfere e le musiche del repertorio tradizionale da loro arrangiato. Elementi potremmo dire progressivi, che di fatto rimandano spesso alla musica psichedelica, alle lunghe improvvisazioni e ad atmosfere dilatate.

L’esordio è su CBS, The Garden Of Jane Delawney, registrato all’inizio del 1970 e pubblicato il 24 aprile dello stesso anno.  La produzione è di David Howells e di Terry Cox (Caravan, Yes, Family e tanti altri) mentre la copertina è opera dello stesso David Costa, uno stupendo disegno in stile Magritte.  Metà dei brani sono tradizionali, ovviamente riarrangiati, mentre il resto sono a firma di Boshell e il primo brano del disco è opera di tutto il gruppo. L’album è caratterizzato da un alternarsi tra acustico ed elettrico, un aspetto comune a tante altre opere di folk rock. Spesso l’elemento elettrico, sporco, aggressivo, è riservato ad intermezzi che spezzano le composizioni e introducono, per l’appunto, altri territori, dove la chitarra elettrica è protagonista. Alcune volte questa operazione sembra un po’ meccanica, frutto di giustapposizioni, nondimeno il risultato è pregevole e affascinante. Il brano di apertura mostra già gli inequivocabili segni della musica dei Trees, a cavallo tra folk e psichedelia, una ballata attraversata in lungo e largo da una chitarra elettrica dal netto sapore West Coast, a tratti simile al Kaukonen lisergico, anche nel suono oltre che stilisticamente. L’eterea e delicata voce di Humphris, tipicamente folk, è contrappuntata dal solismo di Barry Clarke e rende questa Nothing Special un giusto mix tra energia rock e sapori pastorali. The Great Silkie e Lady Margaret sono esemplificativi del lavoro di arrangiamento che i Trees compiono sul materiale tradizionale. La prima è tratta dal repertorio delle isole Orcadi in Scozia e narra le vicende di un uomo che si trasforma in un animale acquatico soprannaturale. Qui la ballata dolce e appena segnata da leggeri tocchi elettrici si trasforma in una cavalcata psichedelica grazie ad un intermezzo dove le due chitarre soliste intrecciate ricordano atmosfere decisamente acid rock.  La seconda, ballata apparsa in Inghilterra intorno al diciassettesimo secolo e chiamata anche Lady Margaret And Sweet William, ha un inizio alla Fairport, tra chitarre acustiche ed elettriche pulite per poi, anch’essa, irrobustirsi e distorcersi, con una ritmica vivace ed incalzante. She Moved Thro’ The Fair, antica ballata irlandese del Donegal, registrata anche dai Fairport Convention nel loro secondo album, mostra un Bushell virtuosistico, con il suo strumento a disegnare continue linee melodiche, quasi una sorta di Jerry Garcia del basso, e poi un’improvvisazione collettiva coinvolgente ed affascinante, per uno dei migliori brani dell’album. E dai Fairport si passa ai Pentangle, perché Glasgerion altri non è che la Jack Orion del gruppo di Jansch e Renbourn. Una delle 305 tradizionali ballad raccolte da Francis James Child nella seconda metà del diciannovesimo secolo, Glasgerion venne modificata in Jack Orion (con il protagonista della storia che da suonatore d’arpa diventa violinista!) dal folk singer A.L. Lloyd negli anni 60 e quindi poi ulteriormente trasformata dai Pentangle nel loro stupendo Cruel Sister. Qui la versione dei Trees è leggermente più veloce, con cambi di tempo e un’elettrificazione moderata, un andamento tradizionale e una voce non sempre all’altezza, pur se ricca di fascino.  I brani originali di Bushell spaziano dal country rock di Road, con la voce del bassista ad alternarsi con quella della Humphris, alle atmosfere tipicamente folk di Epitaph, contraddistinto da una splendida chitarra arpeggiata, oppure alle suggestioni West Coast di Snail’s Lament, dove il canto della coppia Bushell Humpris ricorda gli impasti vocali dei primi Jefferson Airplane. Menzione speciale la merita la title track, scritta sempre da Bushell, un piccolo gioiello acustico, impreziosito dal dulcimer e con un atmosfera cupa, triste, il giardino di Miss Delawney colmo di sogni gotici e selvagge fantasie.

Il primo album dei Trees non ottiene il successo sperato, pur essendo inequivocabilmente un ottimo disco, ma il gruppo va avanti, suona regolarmente, anche se soprattutto nei circuiti universitari, ed ha il sostegno di importanti dj come John Peel e Pete Drummond (che più tardi sposerà proprio la cantante Celia Humphris). E quindi a fine anno arriva un nuovo album, On The Shore, registrato nell’ottobre del 1970 e pubblicato sempre dalla CBS, con una stupenda copertina frutto del lavoro di Storm Thorgesen, dello studio Hipgnosis.



Questo secondo, e ahimè ultimo lavoro ufficiale dei Trees, è sicuramente più organico, il materiale è ben amalgamato e fluido, la voce della Humphris più intraprendente e i suoni, soprattutto della chitarra elettrica, maggiormente definiti e originali. Ma in generale il gruppo appare più maturo e sicuro delle proprie scelte stilistiche così da dare a On The Shore la peculiarità di piccolo capolavoro discografico, purtroppo misconosciuto. Prodotto sempre da Tony Cox (che appare anche al basso in Sally Free And Easy), il disco si apre con Soldiers Three, una ballata composta da Thomas Ravenscroft nel sedicesimo secolo e ideale introduzione al nuovo lp, con le voci di Bushell e Humphris perfettamente combinate e un intermezzo acustico a spezzare l’andamento energico del brano. Murdoch e While The Iron Is Hot sono gli originali di Bushell, che mostra ancora una volta la sua grande capacità di scrivere sia vibranti e serrati scenari come nel primo caso, oppure struggenti melodie, splendidamente arricchite dagli archi, con al loro interno intermezzi classicamente rock, come nel secondo. Little Sadie, un traditional americano, è un simpatico country rock con la voce di Humphris perfettamente calata nel mondo di Nashville, mentre Geordie, una delle tante antiche ballate raccolte da Francis James Child, è delicata, rilassante, punteggiata da una chitarra elettrica discreta e dal solismo appena accennato. Ma il cuore pulsante di On The Shore è rappresentato dal tradizionale Streets Of Derry, con le chitarre elettriche che dialogano nel lungo finale e il basso di Bushell a sostegno delle improvvisazioni, una lunga suite psichedelica di grande fascino. E da Sally Free   And Easy, del folk singer Cyril Tawney, registrata dal vivo in studio al termine di una lunga giornata e provata solo mezz’ora prima, introdotta da un suggestivo pianoforte che poi lascia spazio alle chitarre acustiche ed alla voce limpida e intensa della Humphris. Sono 10 minuti di un incredibile crescendo con tutti gli strumenti che si rincorrono tra loro a delineare un paesaggio sonoro dilatato, vivido, di una luce sognante. In questi due brani i Trees mostrano la loro straordinaria abilità nell’amalgamare linguaggi differenti e creare un folk psichedelico di grande spessore e qualità. Resta da dire ancora dell’originale Fool, scritto da Bushell e Costa, dalle movenze ipnotiche e decisamente rock, l’acquerello acustico dal sapore medievale Adam’s Toon, scritto dal compositore e poeta francese Adam de la Halle vissuto nel tredicesimo secolo, e la tradizionale Polly On The Shore (conosciuta anche come The Valiant Sailor, popolare sea song apparsa  per la prima volta intorno al 1744 e dagli accenti antimilitaristi) a chiudere, con un’altra suite a forti tinte psichedeliche, un disco semplicemente irresistibile e coinvolgente.


 


 

Nel 1971 il gruppo si scioglie, per poi riformarsi brevemente l’anno successivo con Barry Lions al posto di Bias Boshell e Alun Eden alla batteria in luogo di Unwin Brown, con l’aggiunta al violino di Chuck Fleming. Nulla di ufficiale registrato, a parte un bootleg edito in Italia dalla Hablabel nel 1989 con materiale dal vivo e una copertina certamente non all’altezza dei due precedenti album. Purtroppo, anche la musica non è un granché, lontana dal fascino di On The Shore e The Garden Of Jane Delawney, un onesto folk con velate tinte rockeggianti, per di più di scadente qualità sonora.

Resta un mistero lo scioglimento dopo due dischi di assoluto valore, anche se probabilmente le vendite insufficienti e le recensioni non tutte positive hanno contribuito in maniera consistente alla fine del gruppo, lasciando ad un ultimo vano tentativo con una seconda line up la ricerca di quel successo che altre band dello stesso genere musicale avevano avuto in quel periodo. Successo che arrivò in parte, e postumo purtroppo, nel 2006 grazie al duo soul americano Gnarls Barkley che campionò, per la title track del loro disco St. Elsewhere, la versione dei Trees del traditional Geordie, vendendo milioni di copie.



Lo scorso anno, sorprendentemente, è arrivato un elegante cofanetto di quattro cd, corredato da booklet con foto e storia/storie del gruppo, che comprende i due album, un terzo cd di outtakes e remix e il quarto con delle session live alla BBC, più brani dal vivo suonati al Cafè Oto di Londra nel 2018 da una fantomatica On The Shore Band con i soli David Costa e Bias Boshell della formazione originaria. Un piccolo regalo che non fa che aumentare i rimpianti per una band che avrebbe avuto ancora molto da dire.

A noi rimangono musiche eccezionali che acquistano sempre più fascino nel corso degli anni, frutto di stagioni forse irripetibili e che fanno dei Trees certamente uno dei migliori gruppi non solo di folk rock ma della musica popular.

pop

mercoledì 10 febbraio 2021

L'arte del duo!





Ad integrazione di questo post dello scorso anno va aggiunto quello che probabilmente è il lavoro più affascinante del lotto: Keys, a nome del sempre attivo Bill MacKay e del virtuoso del clawhammer banjo Nathan Bowles. I due allestiscono un piccolo gioiello acustico, sempre con lo sguardo rivolto verso le profonde radici folk americane e con quei tocchi improvvisati seducenti, spazi distesi e accenni minimalisti. E se di Bill MacKay ne abbiamo già tessuto le lodi, altrettanto va fatto con il multistrumentista  proveniente da Duhram (North Carolina) Nathan Bowles, nato come batterista e percussionista ma riconvertitosi con meritato successo al banjo. Autore di una manciata di ottimi lavori in solo, in Keys Bowles dialoga perfettamente con il suo compagno intrecciando abilmente i suoni del suo banjo con le chitarre visionarie di MacKay. Un album assolutamente da ascoltare distesi sul divano, sognando ad occhi aperti un'altra America.  



Al centro di questi paesaggi sonori delineati in coppia, certamente anomali ma alquanto suggestivi, c'è lui, Ryley Walker, da Chicago. 

 


Di Walker se ne è parlato molto, giustamente, e speriamo se ne parli anche in futuro, in attesa di suoi nuovi lavori. Musicista particolare, profondo e creativo, autore di una progressione artistica notevole che in soli tre dischi solisti l'ha portato dalle lande intimiste contornate dai Van Morrison e dai Nick Drake, a territori più impervi, increspati dai rivoli dell'improvvisazione che certamente è di casa in quel di Chicago. Ma il chitarrista è personaggio da innumerevoli appetiti, in continua ricerca e voglioso di approdare in terre inaudite, per nulla fermo sugli allori. E' quindi abbastanza naturale che in questi anni, oltre alle sue opere soliste, abbia intrecciato e incrociato i destini e le musiche di altri inesauribili ricercatori di nuove sonorità, grazie anche all'ambiente favorevole a questo tipo di mutazioni che la città di Chicago, storicamente, offre ai suoi concittadini. 

Meno famoso di Walker, ma anche lui instancabile chitarrista, innovatore e sperimentatore, Bill MacKay è uno di quei musicisti che attraversano i generi con semplicità e spontaneità: dal folk all'avant-rock, al jazz e al blues, dalla collaborazione con la violoncellista della Chicago Symphony Orchestra Katinka Klejn a lavori in solitudine. In poche parole, un tipico prodotto della fertile scena di Chicago. 



E veniamo al terzo protagonista, Charles Rumback, batterista, bandleader e compositore di ambito free, essenzialmente un jazzista, autore di diversi lavori discografici, spesso in trio con il pianista Jim Baker e il bassista John Tate. Provenienza? Chicago, as usual!

Viste le biografie e la residenza comune era assai naturale che questi musicisti si trovassero insieme a collaborare, ovviamente su terreni a loro congeniali, di certo non inclini al mainstream. Ed è quindi con curiosità che mi sono avvicinato a questi lavori prodotti in coppia, due a nome Bill MacKay e Ryley Walker, gli altri due a nome Charles Rumback sempre con lo stesso Walker. Quattro dischi dalle atmosfere e dall'andamento simili, come se fossero suonati da un'unica band contraddistinta da una spasmodica ricerca a rifuggire le etichette, a travalicare gli stili, tutte qualità (perché di questo si tratta) che sembrano essere di casa nella dinamica ed effervescente Windy City, la Chicago del jazz e del blues, dell'Art Ensemble e della techno, del post-rock e della Symphony Orchestra.  



Tuttavia sbaglierebbe di grosso chi pensasse a lavori ardui, duri, di difficile ascolto. Tutt'altro. I tre hanno trovato in quel suono malinconico, pastorale, prettamente acustico, il luogo dove intrecciare le loro anime creative. Quella musica che viaggia tra folk e blues, tra John  Fahey e Nick Drake, il fingerstyle, i Monti Appalachi e i raga indiani, quel sapore di un'America d'altri tempi, ma anche quel richiamo d'Europa, con qualche sottile esotismo. Il tutto reso audace e intrigante da un approccio improvvisativo che attraversa tutti e quattro i lavori costantemente, dando un profondo senso di avventura a tutte le composizioni.  Ed è un piacere sopraffino perdersi nell'ascolto di queste lande. 

Più elettrico e psichedelico Cannots, il primo lavoro di Walker con Rumback, ampiamente improvvisato e vicino a certe atmosfere alla Grateful Dead, mentre il secondo lp, Little Common Twist, è pacato, arioso, sostenuto talvolta dall'elettronica di John Hughes, ma in modo delicato, a far risaltare la compostezza acustica del disco e la morbida batteria di Rumback.

SpiderBeetleBee, con Bill MacKay, è un trionfo di chitarre intrecciate, melodie folk, richiami blues e suggestioni agresti. I due chitarristi, anche qui talvolta aiutati dal violoncello di Katinka Kleijn o dalle percussioni di Ryan Jewell, esplorano con profondità quel mondo acustico che fa riferimento a John Fahey e a Bert Jansch, America ed Europa, folk e blues, radici e sguardi improvvisati. Stesso discorso per il loro primo disco, Land Of Plenty, con qualche richiamo esotico e medievale in più, ma sempre con un'originalità e un'intensità davvero uniche. 



Quattro dischi che ci mostrano un'America differente, quasi compassata, riflessiva, attenta a ricordare i suoi legami con l'Europa ma ricca di pulsioni improvvisate che scorrono sottotraccia, a rinvigorire vecchie melodie e atmosfere sospese nel tempo. Ai quali può benissimo essere aggiunto Fountain Fire, lavoro solista di Bill MacKay, che scorre fluido negli stessi territori. 

Se Ryley Walker di attenzioni ed elogi ne ha avuti molti, credo che altrettanto vada fatto con questi suoi due compagni di viaggio e concittadini, Charles Rumback e Bill MacKay.

 


https://open.spotify.com/playlist/35SZEICX1pJyEfLLWsgtnL?si=A6D4fD-PRmK_kxrH-SUIxA


Bill MacKay - Ryley Walker "SpiderBeetleBee" Drag City, 2017

Bill MacKay - Ryley Walker "Land Of Plenty" Whistler Records, 2015

Charles Rumback - Ryley Walker "Little Common Twist" Thrill Jockey, 2019

Charles Rumback - Ryley Walker "Cannots" Dead Oceans, 2016

Bill MacKay "Fountain Fire" Drag City, 2019

Bill MacKay - Nathan Bowles "Keys" Drag City, 2021


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