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mercoledì 16 marzo 2022

Eric Dolphy

 



Questa è la lista praticamente completa delle registrazioni effettuate da Eric Dolphy e poi pubblicate su disco. La quantità e la qualità sono impressionanti, tenuto conto dei pochi anni nei quali Dolphy ha suonato. Solo per fare un esempio: guardate le date del 19, 20 e 21 dicembre 1960 e cosa ha registrato in quei soli tre giorni. 



Eric Dolphy

 

1958

4 e 6 luglio CHICO HAMILTON C. Hamilton & E. Dolphy Complete Studio Recordings (Newport Jazz Festival)

22 agosto CHICO HAMILTON The Original Ellington Suite

26 e 27 ottobre CHICO HAMILTON With Strings Attached

29 e 30 dicembre CHICO HAMILTON Gongs East

 

1959

6 gennaio CHICO HAMILTON Gongs East

25 febbraio CHICO HAMILTON The Three Faces of Chico

19 e 20 maggio CHICO HAMILTON That Hamilton Man (o  Truth)

 

1960

1 aprile ERIC DOLPHY QUINTET Outward Bound

24 e 25 maggio CHARLES MINGUS Pre-Bird

27 maggio OLIVER NELSON Screamin’ the Blues

28 giugno KEN McINTYRE Looking Ahead

13 luglio CHARLES MINGUS Mingus At Antibes

16 agosto ERIC DOLPHY Out There

19 agosto LATIN JAZZ QUINTET + ERIC DOLPHY Caribè

20 ottobre CHARLES MINGUS Charles Mingus Presents Charles Mingus

1 novembre ERIC DOLPHY Candid Dolphy (con Abbey Lincoln)

11 novembre CHARLES MINGUS Mingus

19 e 20 dicembre JOHN LEWIS GUNTHER SCHULLER JIM HALL Jazz Abstractions

21 dicembre ERIC DOLPHY with BOOKER LITTLE Far Cry

21 dicembre ORNETTE COLEMAN Free Jazz

 

1961

22 febbraio ABBEY LINCOLN Straight Ahead

23 febbraio OLIVER NELSON The Blues and The Abstract Truth

1 marzo OLIVER NELSON Straight Ahead

17 marzo BOOKER LITTLE Out Front

4 aprile BOOKER LITTLE Out Front

11 aprile TED CURSON Ted Curson Quintet

8 maggio GEORGE RUSSELL SEXTET Ezz-thetics

25 maggio JOHN COLTRANE Olè Coltrane

7 giugno JOHN COLTRANE The Complete Africa/Brass Sessions

20 giugno RON CARTER Where?

27 giugno MAL WALDRON The Quest

16 luglio ERIC DOLPHY At Five Spot

1,3,8 e 9 agosto MAX ROACH Percussion Bitter Sweet

30 agosto ERIC DOLPHY Berlin Concerts

4 settembre ERIC DOLPHY The Complete Uppsala Concert

6 e 8 settembre ERIC DOLPHY In Europe

25 settembre ERIC DOLPHY Stockholm Sessions

1, 2, 3 e 5 novembre JOHN COLTRANE The Complete 1961 Village Vanguard Recordings

11 novembre JOHN COLTRANE QUINTET (Amsterdam)

19 novembre ERIC DOLPHY Berlin Concerts (solo Serene)

19 novembre ERIC DOLPHY Stockholm Sessions

1 dicembre ERIC DOLPHY QUARTET feat. Lalo Schifrin Complete Recordings (Munich)

2 dicembre ERIC DOLPHY Softly, As In A Morning Sunrise (Munich)

 

1962

10 marzo ERIC DOLPHY Vintage Dolphy

Aprile BENNY GOLSON AND HIS ORCHESTRA Pop + Jazz = Swing

5 ottobre JOHN LEWIS Essence

7 ottobre ERIC DOLPHY feat. Herbie Hancock Complete Recordings

12 ottobre CHARLES MINGUS The Complete Town Hall Concert

 

1963

12 gennaio ORCHESTRA U.S.A. diretta da JOHN LEWIS Debut

4 febbraio ORCHESTRA U.S.A. diretta da JOHN LEWIS Debut

27 febbraio ORCHESTRA U.S.A. diretta da JOHN LEWIS Debut

8 marzo FREDDIE HUBBARD The Body & The Soul

10 marzo ERIC DOLPHY The Illinois Concert

11 marzo FREDDIE HUBBARD The Body & The Soul

14 marzo ERIC DOLPHY Vintage Dolphy

18 aprile ERIC DOLPHY Vintage Dolphy

26 aprile TEDDY CHARLES AND THE ALL STARS Russia Goes Jazz – Swinging Themes From….

2 maggio FREDDIE HUBBARD The Body & The Soul

1 e 3 luglio ERIC DOLPHY Iron Man e Conversations

Settembre GIL EVANS The Individualism of Gil Evans

20 settembre CHARLES MINGUS Mingus Mingus Mingus Mingus Mingus

 

1964

25 febbraio ERIC DOLPHY Out to Lunch

18 marzo CHARLES MINGUS SEXTET Cornell 1964

21 marzo ANDREW HILL Point of Departure

4 aprile CHARLES MINGUS The Jazz Workshop Concert 1964-65

6 aprile GIL EVANS The Individualism of Gil Evans

10 aprile CHARLES MINGUS The Jazz Workshop Concerts 1964-65 (Amsterdam)

12 aprile CHARLES MINGUS The Jazz Workshop Concert Oslo

13 aprile CHARLES MINGUS The Jazz Workshop Concert Stockholm

14 aprile CHARLES MINGUS The Jazz Workshop Concert Copenaghen

16 aprile CHARLES MINGUS The Jazz Workshop Concert Bremen

17 aprile CHARLES MINGUS The Jazz Workshop Concert, Salle Wagram, Paris

19 aprile CHARLES MINGUS The Jazz Workshop Concert, Theatre Des Champs-Elysses, Paris

19 aprile CHARLES MINGUS The Jazz Workshop Concert Liege

20 aprile CHARLES MINGUS The Jazz Workshop Concert Marseille

24 aprile CHARLES MINGUS The Jazz Workshop Concert Bologna

26 aprile CHARLES MINGUS The Jazz Workshop Concert Wuppertal

28 aprile CHARLES MINGUS The Jazz Workshop Concert Stuttgart

2 giugno ERIC DOLPHY Last Date (Hilversum)

11 giugno ERIC DOLPHY Last Recordings (Paris)

 


pop


 

 

 

 

 

 

 

giovedì 10 marzo 2022

Gesto, movimento, sensorialità nell'improvvisazione musicale

 


Questo scritto è solo una parte di un mio più lungo articolo pubblicato tempo fa dalla rivista Adolescenza e Psicoanalisi (numero 1 anno XVI maggio 2021 Edizioni Scientifiche Ma.Gi.). Si ricollega direttamente alle riflessioni di un mio precedente post (https://impropop.blogspot.com/2020/01/limprovvisazione-come-costruzione-di.html?m=0). 


Cosa avviene durante un’improvvisazione, come è strutturata e quali sono gli elementi fondamentali di questo processo creativo?

Per Michel Imberty, filosofo, musicologo e psicologo francese, il gesto musicale è al centro della costruzione musicale, è elemento sostanziale (Michel Imberty "Musica e Metamorfosi del Tempo" 2005, p. 99). Cosa s'intende per gesto? Un movimento del corpo che si muove nello spazio e nel tempo, energia dispiegata in una traiettoria temporale orientata, secondo la definizione di Imberty (2005, p. 90). Anzi, il gesto è composto da una serie di movimenti ed ha una motivazione, un agire determinato, momentaneo e inserito in contesti sociali e culturali. Se da un lato abbiamo la determinazione e l'intenzionalità, dall'altro c'è il carattere improvvisato, intuitivo o di reazione del movimento. Per raccordarci immediatamente all'agire improvvisativo, le nostre improvvisazioni sono frutto di gesti intenzionali, ma anche di movimenti di reazione o intuitivi rispetto ad altri gesti musicali. 

Secondo il semiologo francese Jean Molino, il gesto è presente nel cuore della musica ed è prodotto in tre diverse forme: il gesto strumentale, il gesto vocale e il gesto ritmico (in Imberty, 2005, p. 90). Questi tipi di gesti organizzano la forma musicale, la costruzione temporale. La organizzano seguendo due direttive, due ambiti generali. Il primo è quello di costruzioni realizzate a poco a poco, con un flusso continuo punteggiato di rotture, contrasti dinamici e d'intensità, varietà timbriche e sonore. Il secondo è una costruzione di tipo formalizzato in schemi determinati culturalmente e storicamente. Com'è facile intuire, il primo ambito è rapportabile sicuramente alle improvvisazioni libere, mentre il secondo a quelle idiomatiche e alle strutture compositive. Sempre per Molino, dei tre tipi di gesti quello ritmico riveste un ruolo fondamentale (in Imberty, 2005, p. 93). Rapportato all'attività motoria e sensoriale dell'essere umano, al battito vitale, il ritmo, la scansione regolare ordina il tempo e permette ai musicisti e agli ascoltatori di misurarlo e controllarlo. Anche nei momenti più caotici di un'improvvisazione la presenza di una pulsazione ritmica permette all'ascoltatore di afferrarsi all'esperienza sonora, seppur ostica e ai musicisti di avere un quadro temporale definito e stabile che àncora l'improvvisazione ad una traiettoria intenzionale. L'elemento ritmico fornisce, in generale, stabilità e strutturalità, mentre le variazioni producono instabilità. 

Nell'analizzare il gesto musicale nei bambini Imberty nota che il movimento ha la preminenza sulla struttura, l'elemento dinamico su quello sistematico, sintattico. Movimento che non è solo improvvisato, intuitivo o di reazione ma appoggio e perno del gesto intenzionale. Un gesto che ha un inizio, uno svolgimento e una fine. E che si traduce, come elemento fondamentale di ogni tipo di musica, nell'alternanza tensione/distensione (2005, p. 95). Il bambino, in altre parole, costruisce con i suoi gesti una costruzione temporale che si dà forma musicale a poco a poco, prendendo coscienza dei propri gesti e degli effetti che questi gesti producono sul materiale sonoro, organizzando passo dopo passo il tempo. L'elemento dinamico riveste un ruolo fondamentale, in rapporto alla presenza di stabilità, data spesso dalle ripetizioni ritmiche, e dell'instabilità, prodotta dalle variazioni.

Ma queste elaborazioni possono benissimo essere ricondotte all'improvvisazione libera, alla sua costruzione formale che si costruisce nel tempo, gradatamente, con forti elementi dinamici e utilizzando l'alternanza stabilità/instabilità, tensione/distensione. Che l'improvvisazione fosse stata spesso associata ai primi gesti musicali dei bambini non è certo una novità, ma in questo caso abbiamo dei precisi riferimenti analitici che dimostrano la comparazione. 

Tutto questo ha a che fare con la singolarità, nel senso di una gestualità musicale prodotta da una sola unità, in rapporto sensoriale con i suoi gesti, i suoi movimenti e l'ambiente interno ed esterno. Ma cosa succede in presenza di più unità?

La sensorialità è un mezzo usato dal cervello per ricevere informazioni dall'esterno e dall'interno del corpo. Il suo lavoro è caratterizzato dalla presenza di sensazioni e percezioni. La sensazione è una consapevolezza conscia o inconscia delle modificazioni degli ambienti interni ed esterni. La percezione è una consapevolezza cosciente che interpreta le differenti sensazioni. 

Questo doppio canale è in stretto rapporto con le funzioni cognitive, cioè con la conoscenza dell'ambiente esterno e le possibilità di metterlo in relazione al nostro interno, in una continua ricerca di relazioni e connessioni che ci portano a delineare una mappa ambientale, un quadro della realtà per potervi interagire. 

In una improvvisazione libera collettiva l'aspetto sensoriale deve essere al centro del nostro agire, del suonare. Dobbiamo rapidamente delineare una mappa della realtà per poter interagire e interpretare al meglio le continue sollecitazioni che ci vengono fornite e che a nostra volta forniamo. Per fare un parallelismo certamente arduo ma non del tutto fuori luogo, la sensazione delle modificazioni dell'ambiente è in stretto collegamento con i movimenti, la percezione interpretante è sicuramente gestuale, intenzionale. Per interagire ed improvvisare al meglio abbiamo bisogno di attivare contemporaneamente linguaggio (in questo caso musicale), memoria, attenzione, percezione, movimento, in altre parole le funzioni cognitive. 

pop

martedì 8 marzo 2022

Tatti, all'improvviso

 

 


Baffi, baffi lunghi e all’insù. Pizzetto e basette corte, capelli arruffati, leggermente lunghi. Naso aquilino e labbra fini, bocca grande. Si, era più o meno così Tatti, una sorta di D’Artagnan contemporaneo. Camminava a busto eretto, quasi rimbalzando sulle punte dei piedi, con un andamento curioso ma convincente. Di solito non salutava, se tu non lo facevi per primo. E dopo emetteva una sorta di rantolio, una specie di ciao sbiascicato quasi incomprensibile. Qualcuno, ed erano pochi, era omaggiato di un abbraccio con bacio, gesto estremamente raro per un tipo come Tatti. Ma, appunto, raramente accadeva. Poteva trattarsi di qualche sua vecchia amica, o amante, o tutte e due spesso e volentieri.

Ma non poteva dirsi antipatico Tatti, no. Magari a volte scostante, irascibile, ma di base aveva quella bontà che percepisci pur tra mille difficoltà. Ecco, diciamo che non era assolutamente falso, ambiguo: i suoi sentimenti, le sue sensazioni, i suoi pensieri te li buttava in faccia senza alcuna intermediazione, senza alcun filtro.

E certamente non potevi negare la sua abilità, il suo talento musicale. Con il suo sax era in grado di passare da sensazioni pacate, morbide, sinuose, a momenti di rara potenza, di grande energia e irruenza, per poi tornare a rilassarsi, ad ammaliare l’ascoltatore.  Era uno spettacolo vederlo e sentirlo suonare, con quel suo incedere sul palco quasi fosse un filosofo dell’antica Grecia, intento a educare e istruire i suoi discepoli. Purtroppo, quel suo incedere continuo durante i concerti creava qualche problema anche ai musicisti con i quali suonava. Dovevano sempre lasciargli molto spazio e spesso le condizioni non lo permettevano. Oltretutto l’ipotesi di suonare con un leggio era ovviamente sconsigliata. Ma Tatti era il primo a dichiararlo. Diceva: «se volete suonare insieme a me, beh, io non leggo la musica, io suono». Ed era un concetto non del tutto astruso anche se, per chi non conosceva Tatti, dava l’impressione di un suo sentirsi superiore al resto dei musicisti. E forse l’impressione non era del tutto sbagliata, ma quella sua espressione, quella sua idea di suonare senza leggere per lui era sincera, scevra da ogni idea di superiorità.

A dirla tutta c’era anche un’altra motivazione per quel suo rifiuto: effettivamente non era molto abile nel solfeggiare e gli costava enorme fatica la lettura a prima vista di un brano. Quelle poche volte che si trovava a dover leggere uno spartito iniziava a toccarsi i capelli, a sbuffare, a muoversi nervosamente. Chi lo conosceva bene evitava di riprenderlo, di dirgli che stava sbagliando, di cercare di aiutarlo. Sapeva che doveva solo aspettare, aspettare che Tatti prendesse confidenza con la parte assegnatagli, che la digerisse lentamente, che ne prendesse possesso a modo suo. Al massimo gli si poteva appena accennare la linea melodica della sua parte oppure, magari rivolgendosi a qualcun altro del gruppo, solfeggiare quella figurazione particolare che Tatti non riusciva a decifrare. Il più delle volte bisognava aspettare la prova successiva dove, dopo essersi portato a casa lo spartito, tornava sicuro e perfettamente in grado di suonare la sua parte.

 Tatti e la musica erano una cosa sola, unica, inscindibile. Era sempre disponibile, non si tirava mai indietro, e questa sua disponibilità levigava le sue asprezze, i suoi modi spesso bruschi, adirati.  Non faceva differenza se a chiamarlo erano musicisti di gran levatura, famosi e importanti, oppure gruppi o situazioni più dilettantesche, non proprio alla sua altezza. Non passava giorno che non dovesse suonare con qualcuno, che non studiasse o si preparasse per un concerto.

Tuttavia, la sua amabilità, come detto, spesso si scontrava con alcuni atteggiamenti che lo configuravano come uno scostante e presuntuoso, e per questo da evitare. Era contraddittorio, ai limiti della follia. Potevi chiedergli suggerimenti e consigli e lui magari si prodigava nel darteli, rimaneva con te fino a tardi e ti offriva birre e amari in continuazione. Il giorno dopo lo rivedevi e neanche ti salutava. Non sapevi mai quale sarebbe stato il vero Tatti. Il generoso e ciarliero musicista oppure il personaggio altero, scontroso e indisponente. Potevi trovartelo in platea a sentire il tuo concerto e ad applaudire convinto, a sostenerti a gran voce e a complimentarsi con te alla fine della serata. Oppure potevi vederlo alzarsi dopo il primo brano, muovere rumorosamente la sedia ed andarsene con fare disgustato. Ci passavi una sera tranquilla a bere e a parlare di jazz, blues, rock, di musicisti amici e di personaggi famosi. E lui riusciva a trovare parole e giudizi buoni per tutti. Sembrava essere in pace con il mondo, distante e illuminato come fosse un Buddha. Beh, il giorno dopo potevi trovarlo demoniaco, scuro e curvo in un silenzio carico di odio. E ce n’era per tutti, amici e parenti, musicisti e pubblico e locali.

Così alla fine eravamo in pochi ad apprezzarlo veramente per quello che era, e cioè un gran musicista con degli aspetti caratteriali alquanto bizzarri. E avevamo imparato a contenerlo e a rapportarci a lui a seconda dei suoi stati d’animo. Ovviamente tutto andava bene nei momenti dove c’era il Tatti solare e illuminato. Quando si presentava la sua versione scura, come un alter ego, allora si mettevano in atto una serie di accorgimenti. Il primo era quello di eclissarsi, con estrema attenzione e gradualità ci si allontanava adducendo improvvisi impegni o cattivo stato di salute, mal di testa o febbre. Il secondo era quello di stringere una specie di cordone sanitario intorno a Tatti, fatto di discorsi e discussioni che si allontanavano dall’argomento musicale cercando di interpellarlo il meno possibile, magari sperando in un suo repentino cambio d’umore, che effettivamente talvolta poteva succedere. Questa seconda opzione spesso veniva attuata quando si era in presenza di persone che conoscevano poco Tatti, e quindi si tentava di evitare bruschi litigi o cattive figure. L’ultima opzione era quella di farlo bere o fumare cercando in questo modo di obnubilarlo e renderlo inoffensivo. Ma era una soluzione che, francamente, non era di grande spessore umano e ne ricorrevamo in rarissime occasioni.

Una sera ci si era dati appuntamento nel locale dove eravamo solito vederci e suonare, ascoltare concerti o semplicemente farci due chiacchiere a fine prove. Eravamo intorno alla classica birra e, quasi di soppiatto, con quel suo incedere molleggiato, armonioso e mosso, apparve Tatti. Aveva uno strano sorriso, quasi inquietante e anomalo, come fosse fuori posto sul suo viso. Lo salutammo calorosamente perché effettivamente era un po’ di tempo che non ci si vedeva. Stava suonando con un nuovo gruppo, giovani musicisti che però promettevano bene e, soprattutto, avevano diversi contatti in giro per l’Italia e per questo erano riusciti a inanellare una lunga serie di date.  

Gli offrimmo una birra ma lui rilanciò offrendoci a tutti un amaro. Insistemmo un po’ nel rifiutare, ma alla fine accettammo. Con i bicchierini in mano, pronti a sorseggiare, Tatti ci fermò e disse che voleva brindare. Ovviamente chiedemmo per quale motivo, ricorrenza, occasione. Allora quel suo sorriso estraneo si sciolse in un viso colmo di gioia, con gli occhi luccicanti e le guance distese, rilassate.

Era stato invitato a suonare con uno degli ultimi grandi musicisti di jazz che stava per arrivare in tour in Italia, a partire proprio dalla nostra città. Un grande trombettista afroamericano che era ancora attivo e, anzi, sembrava aver trovato una seconda giovinezza, con nuovi dischi e tour mondiali. Di solito, per alcuni concerti in città importanti, invitava a suonare con il suo gruppo qualche musicista locale, non di quelli già famosi, così da instaurare anche un rapporto amichevole con le scene musicali e, aspetto non secondario, attirare ancora più pubblico.

E questa volta la scelta era caduta su Tatti. E, detto tra noi, non poteva essere altrimenti. Era lui l’unico in grado di condividere il palco con una leggenda del jazz americano, ed era solo lui che non avrebbe certo sfigurato in un live del genere.

Così, per settimane, non si parlò d’altro. Le circostanze per le quali avvenne questa chiamata furono dibattute, argomentate, ingigantite e travisate. C’è chi diceva che il trombettista già da tempo conosceva Tatti per averlo ascoltato su alcuni dischi. Chi raccontava di un furtivo incontro a Londra dove Tatti suonava in piccolo locale. Chi semplicemente diceva che alla richiesta al suo manager di segnalargli un musicista bravo e promettente questi gli avesse segnalato per l’appunto Tatti, che era amico di alcuni suoi conoscenti. Insomma, voci che si rincorrevano spesso senza alcun fondamento, il tutto alimentato dall’alone di mistero che Tatti si procurò di alimentare intorno alla vicenda.

Alle nostre insistenti domande su come fosse avvenuto il contatto, in che ambito, se avesse già parlato con lui o con il suo manager, Tatti rimaneva evasivo, spesso cambiava versione, si contraddiceva, salvo poi concludere che c’era poco da dire su questa vicenda. L’importante sarebbe stato il concerto, non le modalità organizzative. Cosa, peraltro, vera e incontestabile.

E finalmente arrivò il grande giorno. Il concerto era ovviamente previsto per la sera ma Tatti era stato convocato al locale nel primo pomeriggio per una prova e relativo soundcheck. Fino ad allora le discussioni intorno all’evento vertevano per lo più sulle modalità dell’incontro, sui pettegolezzi, sugli sviluppi futuri. Sembrava che il fattore musicale vero e proprio fosse un accessorio, una sorta di appendice, tutto sommato scontata e priva di interesse. In effetti era il solo Tatti che più volte aveva posto l’accento sulla musica che sarebbe uscita da quel concerto, sulle emozioni e sensazioni che quell’incontro avrebbe sprigionato.

Il trombettista afroamericano era un personaggio abbastanza particolare. Amava stupire di continuo i suoi ascoltatori e da quando era rientrato in scena, circa quattro anni prima, aveva prodotto una serie di dischi uno differente dall’altro. Tra scrittura elaborata e libera improvvisazione non sapevi mai cosa aspettarti dalla sua musica, anche se la qualità era alta in ogni caso. Il suo ultimo prodotto discografico era uscito da qualche mese ed era ricco di ospiti che contribuivano a spiazzare l’ascoltatore di brano in brano. Era come se avesse voluto concentrare in 50 minuti, tale era la durata del cd, tutte le sue esperienze precedenti. Si andava da un brano orchestrale a brevi momenti in solo, duo improvvisati e atmosfere hard bop con il suo quartetto.

Il giorno del concerto, finalmente, si manifestò con tutta la sua potenza e invasività la domanda che molti di noi avevano evitato fino ad allora: che musica avrebbero suonato il trombettista e Tatti? Avrebbero improvvisato liberamente, come era nei nostri propositi e come tutti, in fin dei conti immaginavano e speravano, oppure avrebbero suonato brani originali, o magari qualche standard, o arrangiamenti elaborati appositamente per quel concerto? Qualcuno di noi provò ad inviare un messaggio a Tatti per sapere come era andata la prova e il soundcheck, se era tutto ok, ma non ricevette alcuna risposta. Non restava che attendere la sera e l’inizio del concerto per soddisfare la nostra curiosità e le nostre aspettative.

E la sera arrivò, placida e leggera, con quel suo incedere ammaliante, avvolgente e allo stesso tempo dolorante, di un sapore agrodolce. C’era la fila fuori dal locale, e non si faceva in tempo a salutare un amico che immediatamente ne sbucava un altro, e poi un altro ancora. Sembrava quasi di conoscerci tutti ma, effettivamente, era una di quelle sere dove avresti potuto incontrare chiunque, anche i tuoi vicini di casa o il tuo vecchio insegnante al liceo.

Ci affrettammo a prendere posto proprio davanti al palco, e nel frattempo cercavamo con lo sguardo di intravedere la sagoma di Tatti, dietro al palco o in giro per la sala, in uscita dai camerini. Ma nulla, neanche l’ombra. C’erano tutti i suoi amici e le sue amiche, c’era tutto il suo pubblico e c’era la folla delle grandi occasioni. Ma lui sembrava essersi dissolto, svanito nei meandri della città. Provammo al bancone del bar, nelle toilette, fuori nel cortile di lato al locale. E poi iniziammo a chiamarlo al cellulare, a tempestarlo di messaggi e WhatsApp. Ma non c’era risposta. Per un attimo iniziammo a temere qualcosa di grave, una sua improvvisa defezione dovuta a malore o a qualsiasi altro problema. Una lite improvvisa con il manager, con qualcuno del gruppo, con lo stesso trombettista. Da Tatti potevi aspettarti qualsiasi cosa, effettivamente, ma sapevamo che non avrebbe mai potuto perdersi un’occasione come quella.

Finalmente, dopo lunga attesa, uscirono sul palco il trombettista con il suo gruppo, pianoforte contrabbasso e batteria. Di Tatti nessuna traccia. Ma sapevamo le modalità organizzative di quel tipo di concerto: una mezz’ora il gruppo e poi il resto del concerto con l’ospite.

La musica fu subito entusiasmante, così calda e avvolgente da penetrare all’interno delle superfici cutanee e risalire su per tutto il corpo, alimentare il battito del cuore e aprire universi velati all’interno delle menti. Era effettivamente in gran forma il trombettista, e con lui tutto il gruppo. Alternavano composizioni a lunghe suite improvvisate, assoli infuocati e placidi momenti meditativi, minimalisti. Tuttavia, nei nostri pensieri, pur completamente obnubilati dall’ondata di musica che si riversava su di noi, in un angolo nascosto ma pur sempre attivo si celava l’attesa per l’arrivo di Tatti. Non avevamo dubbi che sarebbe uscito, c’era lo spazio per un altro musicista con relativa cassa spia sul palco.

Dopo circa una quarantina di minuti il trombettista prese il microfono e, con grande enfasi, invitò sul palco Tatti. Eravamo eccitatissimi e rispondemmo all’incitazione con un grido di gioia incommensurabile e liberatorio. L’attesa, la lunga attesa era finalmente terminata e tutti avrebbero goduto del trionfo di Tatti, non avevamo dubbi.

Passarono circa trenta, quaranta secondi e Tatti non usciva. Il trombettista era rivolto verso i camerini e con lui il resto del gruppo, in un’attesa nervosa, stizzita. Noi eravamo passati dal massimo dell’eccitazione all’angoscia per qualcosa che non riuscivamo a spiegarci, a comprendere. Iniziammo a battere le mani, a chiamarlo per nome e finalmente, dopo più di un minuto di attesa lui uscì.

Non facemmo in tempo a gioire e rallegrarci per la sua entrata perché subito, contestualmente al suo apparire sul palco notammo che aveva con sé un leggio, il sax a tracolla e nell’altra mano degli spartiti.

Fu come una pugnalata sul petto, come una scossa elettrica che ci passò da capo a piedi. Solo pochi di noi sapevano del suo difficile rapporto con la musica scritta, e solo noi potevamo intuire le enormi difficoltà che Tatti aveva incontrato il pomeriggio durante le prove, e l’ansia e la tensione che si apprestava a vivere durante quel concerto. La nostra unica speranza era nella facilità della musica scritta, speranzosi di una certa comprensione da parte del trombettista americano per gli ospiti che si trovavano a dover leggere e suonare le sue parti in così poco tempo.

Tatti prese posizione alla destra del palco, proprio di fronte al contrabbassista, e molto vicino al trombettista che ovviamente, come tutto il suo gruppo, non aveva né spartiti né leggii. Posò il leggio davanti a sé, mise sopra gli spartiti, levò il copri bocchino e bagnò leggermente l’ancia. Era molto teso, ma allo stesso tempo sembrava fosse assente, lontano da quel palco, da quei musicisti, da quella folla che lo aspettava. Provammo a salutarlo, a farci vedere, ma il suo sguardo andava oltre la platea, lontano oltre le porte del locale, del parcheggio e della via, sopra i palazzi e tra le nuvole, in alto nel cielo, oltre la luna e più su ancora, immerso nella galassia.

Iniziarono a suonare. Un’improvvisazione molto probabilmente libera, ma con dei riferimenti tematici, quieta e riflessiva. Il sax di Tatti dialogava alla meraviglia con la tromba, e il piano accompagnava i due fiati con discrezione, quasi in punta di piedi. Poi partì la batteria con un tempo velocissimo, seguita subito da contrabbasso e pianoforte. A quel punto il trombettista iniziò a suonare un tema abbastanza articolato al quale Tatti rispondeva con brevi frasi. Il tema si ripeteva più volte, spostandosi d’accento e divenendo ancora più complesso. Iniziammo a vedere Tatti un po’ difficoltà, curvo sul leggio, come se tentasse di pararsi dai fendenti di un pugile. E le frasi iniziarono a farsi smozzicate, incerte, deboli, fuori tempo fino a che Tatti smise di suonare e alzò lo sguardo oltre la terra, laggiù nel cosmo dove solo lui poteva esserci.

Il trombettista lo guardò di soppiatto ma continuò a suonare e con lui il resto del gruppo. Tatti rimase immobile senza suonare per quasi cinque minuti che a noi sembrarono ore, giorni, mesi. Era là con il suo sax e fisso osservava un punto lontano nell’infinito, senza luce nei suoi occhi, totalmente impermeabile a ciò che gli accadeva intorno. Il brano finì e ci fu un applauso timido, quasi preoccupato. Tutti avevano compreso la difficile situazione che si era creata sul palco, ma altresì tutti erano speranzosi per il prosieguo del concerto.

Il trombettista fece cenno a Tatti di iniziare. Spostò il primo spartito, ne prese uno dietro e lo mise davanti a sé. Lo osservò sempre con quel suo sguardo assente, liquido, debole. Iniziò a suonare da solo ma immediatamente il trombettista lo fermò. «Again», disse con una voce metallica. Tatti ricominciò ma lui lo fermò di nuovo. «Sorry», disse rivolto al pubblico. «Once again, please». E Tatti allora lo guardò con un fare interrogativo, quasi a dire perché, cosa vuoi. Tatti spostò leggermente lo spartito e lo mise più al centro del leggio. Lo guardò attentamente e riprese a suonare. Ma per l’ennesima volta il trombettista lo fermò e si avvicinò a lui. Tatti si spostò leggermente e il trombettista iniziò a suonare lo spartito di Tatti. Finito di suonare guardò Tatti con occhi accesi e un sorriso di compassione, invitandolo a suonare correttamente, come lui aveva fatto, ciò che era scritto sulla parte.

Eravamo increduli e allo stesso tempo oppressi da una sofferenza indicibile, un’angoscia che trafiggeva i nostri cuori, lacrime represse che irroravano tutto il nostro corpo. Avremmo voluto andarcene via, oppure che il concerto terminasse immediatamente, o che Tatti iniziasse ad improvvisare coinvolgendo il trombettista ed il suo gruppo per poi concludere un concerto di quelli che si ricordano per tutta la vita.

Ma la realtà, scura e tetra, continuò a colpirci con furore e spietatezza. Il trombettista era là, con la sua tromba in mano in attesa che Tatti suonasse, che Tatti facesse il suo ennesimo tentativo pronto a correggerlo nuovamente, di questo eravamo certi. E Tatti prese di nuovo il sax e avvicinò il bocchino alle labbra. C’era del sudore sulla fronte e gli occhi erano lucidi. Poi, ad un tratto, notai una leggera increspatura sulla sua bocca, quel suo strano sorriso che talvolta inquietava. I suoi occhi presero luce, si illuminarono intensamente, spargendo di fronte a sé dardi velenosi. E nel momento stesso in cui compresi ciò che stava per accadere, senza neanche avere il tempo di allarmarmi o di urlare qualcosa, Tatti prese il sax con tutte e due le mani e colpì con forza il viso del trombettista, che cadde tramortito sul palco. Ci fu un silenzio innaturale, e Tatti era già sul corpo del musicista e continuava a colpirlo con i pugni sul volto. A quel punto gli altri del gruppo si lanciarono su di lui, seguiti immediatamente da altre persone dell’organizzazione. E anche noi salimmo sul palco cercando di difendere Tatti. Fu una rissa clamorosa, con pugni che volavano da tutte le parti e il sax di Tatti che colpiva a ripetizione chiunque provasse ad aggredirlo. Si sentì il suono delle sirene e l’avvicinarsi di macchine, le urla del pubblico e dei contendenti, il fumo e la polvere, la batteria che rotolava sul palco e il legno del contrabbasso orrendamente squarciato. Nel caos generale riuscii ad intravedere Tatti con il suo sax fuggire via da una porta laterale mentre al mio fianco, sdraiato e immobile, il trombettista con il volto coperto di sangue.

Di Tatti si persero completamente le tracce. Non lo vedemmo più e le rarissime notizie che circolavano ogni tanto su di lui lo davano a Berlino o addirittura in Islanda. Qualcuno sosteneva che aveva abbandonato la musica ed era diventato un insegnante di yoga, qualcun’ altro aveva sentito di un suo concerto in solo a Edimburgo. Il trombettista dovette interrompere la sua attività per molti mesi ma alla fine tornò a suonare e ad incidere dischi.

A noi rimase il ricordo dei suoni del suo sax e per molti anni a venire la possibilità di raccontare una storia, una di quelle incredibili, assurde, straordinarie. «C’era molta tensione sul palco, e allora Tatti, all’improvviso…».


pop

 

 

 

 



mercoledì 9 giugno 2021

La moltitudine dei Clash

 

Qualche mese fa (dicembre 2020) è stato possibile vedere in streaming, gratuitamente e solo per 4 giorni, il documentario di Rubika Shah White Riot, vincitore al London Film Festival 2020, a Krakow 2020 e alla Berlinale 2019 come miglior documentario. Si narrano le vicende che portarono alla nascita del movimento Rock Against  Racism in Gran Bretagna culminato con il mega concerto a Londra nel 1978 davanti a più di 100.000 persone.  E il 12 dicembre è caduto l’anniversario dei quarant’anni dall’uscita del triplo album Sandinista dei Clash, tra i maggiori esponenti e artefici del successo di quel movimento.



Che il regista di White Riot abbia fatto riferimento ad un brano dei Clash (il loro primo 45 giri!) non ci deve meravigliare perché il gruppo è un po’ il simbolo di quella sottocultura, il punk, che fu coinvolta in quegli anni nella mobilitazione contro il gruppo neofascista inglese National Front. Nel contrastare la violenta campagna d’odio portata avanti dall’organizzazione di estrema destra, i ragazzi e le ragazze soprattutto provenienti dall’area di immigrazione caraibica, e giamaicana in particolare, con la cultura e la musica reggae come punto di riferimento, incontrarono il punk, quel movimento anarchico, provocatorio e fatto in gran parte da bianchi, che tanto aveva scandalizzato la società inglese ma che certo non si era proposto con fini politici. Insomma, quell’incontro tra due sottoculture non era per niente scontato, tantomeno su un terreno di mobilitazione politica, quale fu a tutti gli effetti Rock Against Racism. 

Ma i Clash non sono stati soltanto un simbolo di quel movimento, o del punk in generale. Partiti da quel suono rudimentale, istintivo, grezzo eppur già contaminato da altri suoni e altre culture, Strummer, Jones, Simonon e Headon hanno incarnato per almeno un decennio l’idea e l’icona del gruppo rock per eccellenza. È stata la band che nessuno poteva ignorare, alla quale tutti in qualche modo si rapportavano, da ascoltatori e da musicisti, un ensemble che racchiudeva in sé l’intraprendenza artistica e la valenza sociale e politica. Non potevi non amare i Clash, non potevi non sorprenderti di fronte alla loro inesauribile vena artistica, al loro rapido percorso verso una maturità sonora inimmaginabile ai loro esordi.




Si può dire che il punk abbia portato a felice conclusione le sue istanze di ribellione proprio grazie ai Clash, anche se non va dimenticato il contributo di John Lydon e dei suoi PIL. Ma Strummer e co erano certamente un’altra cosa. Nessuno poteva immaginare che dopo un capolavoro come London Calling, sarebbero riusciti ancora a stupirci, meravigliarci, con un triplo lp come Sandinista. Se London Calling aveva rappresentato la compiutezza dello sporco rock da strada, confluito in un suono ribelle e sfaccettato, che avrebbe rinnovato alla base l’estetica rock, Sandinista dipinge una multiforme partitura, un trionfo di colori in un mondo di suoni. London Calling ambisce ad essere un manuale del rock, un’opera compatta, finita, a sugellare il trionfo del punk e allo stesso tempo la sua dissoluzione in un suono sì grezzo ma anche raffinato, elegante, fiero delle sue molteplici influenze, tutte ricondotte ad un’unicità che è quella dei Clash, il gruppo che rimette il rock al posto giusto, lo ri/vitalizza e lo modernizza, mostrandone le radici e il futuro. Sandinista, invece, è qualcosa di indecifrabile, la moltitudine che assale il fortino delle certezze. Stracolmo di idee, di riferimenti, di suoni e di linee di basso, di melodie indimenticabili e di bizzarri esperimenti, Sandinista porta le ricche culture di origine africana al trionfo vero e proprio, all’esplosione creativa.  È come leggere un libro pieno di avventure e colpi di scena, senza mai un attimo di sosta, senza indulgere sulle raggiunte capacità artistiche ma mettendosi di nuovo in gioco, sperimentando per l’appunto. Riascoltarlo oggi viene quasi la rabbia perché non ci sia un gruppo, ora, in grado di fare almeno in parte quello che hanno fatto i Clash con Sandinista. Il coraggio e la volontà di comunicare al mondo il mondo stesso, la ricchezza e la varietà delle musiche che hanno sempre la stessa provenienza, lo stesso retaggio culturale, sempre lo stesso infinito patrimonio, che è quello afroamericano e africano in particolare. Sandinista ricorda a tutti e tutte che la nostra musica viene da lì, non se ne esce. E i Clash riescono nell’impresa di onorarla e allo stesso tempo arricchirla, di modificarne certe istanze e di rafforzarle, di esaltare il/i ritmo/ritmi, di riscaldare i corpi con i bassi e di accendere le menti con le parole, con i testi. Perché va oltremodo sottolineato anche l’alto valore poetico e di critica sociale e politica dei testi del gruppo, qui per la prima volta autore collettivo, anche se ovviamente Strummer ne aveva la prerogativa. Se Washington Bullets è l’accusa all’imperialismo statunitense (con uno sguardo anche all’URSS e alla Cina), Something About England attraversa la storia inglese con l’occhio dei perdenti, Lose This Skin tocca le tematiche transgender in anticipo sui tempi e l’antimilitarista Call Up affianca la ribelle Rebel Waltz.




Ma tutto il lavoro trasuda impegno e passione, in un tempo che già mostrava le profonde crepe dell’utopia socialista compromessa dalle derive staliniane dell’URSS e dall’avvento dell’ideologia liberista con il trionfo della Thatcher. In un quadro del genere i Clash seppero mostrarci la speranza di un altro mondo, una moltitudine colma di suoni e di gioia, strettamente ancorata alle nostre radici africane e afroamericane, come a volerne sugellare il trionfo. Tutto sommato, per il valore di Sandinista, poco spazio è stato dato al quarantennale di un’opera fondamentale della popular music. La speranza, ora, è di riuscire a vedere, nelle nostre sale, White Riot, questo splendido documentario che affronta tematiche ancora attualissime e che suggerisce percorsi di lotta e di organizzazione da non sottovalutare, pur in contesti differenti sia a livello temporale che sociale e politico. Certo, non avremo più al nostro fianco una musica così ricca e ribelle come quella che seppero donarci i Clash. Peccato.


pop

lunedì 8 marzo 2021

Rivoluzioni!

A novembre del 2008 Vladimir Luxuria, ex parlamentare di Rifondazione Comunista e simbolo transgender, vinceva L'isola dei famosi, noto programma Fininvest ed emblema dei reality show. Il quotidiano del partito, Liberazione, allora diretto da Piero Sansonetti, paragonava questa vittoria all'elezione a presidente degli Stati Uniti di Obama, mettendo la foto di Luxuria in prima pagina e dando una lettura dell'evento di assoluta rottura, di fenomeno "rivoluzionario" per la società italiana. Sarebbe ingrato ora chiederne riscontri, sia per quanto riguarda il percorso di Vladimir Luxuria (non mi sembra faccia più politica ma saltabella da una trasmissione all'altra in qualità di opinionista di costume) che per quanto riguarda il quotidiano Liberazione o il Partito della Rifondazione Comunista, definitivamente chiuso il primo e certo non in buone acque il secondo. Ma sarebbe ancora più imbarazzante chiedere riscontri di quella fantomatica rivoluzione del costume in un paese come il nostro oggi, dove i due partiti dalle ideologie reazionarie, omofobe e sessiste raggiungono oltre il 40%, o dove continuano con straziante continuità i femminicidi. E così, di quell'evento tutto mediatico, prodotto televisivo di mercato, rimane ben poca traccia, assorbito dal consumo e infantilmente paragonato ad eventi di ben altra natura. 



"Con i Maneskin (e non solo) a Sanremo 2021 ha vinto la rivoluzione. Questa edizione ha avuto il suono di una generazione nuova e ha segnato uno strappo fortissimo con il passato. Artisti che sfuggono alla grande industria, crescono nei nuovi media, e segnano una profonda distanza dalle generazioni precedenti". Questo uno dei titoli di Repubblica online, a firma del ben noto critico musicale Ernesto Assante, che nel suo facebook commenta ulteriormente e rincara la dose.

Confesso di non aver visto nulla di Sanremo 2021, come molte altre volte, ma poi, incuriosito dai commenti, sono andato a vedere i video di qualche brano, in particolare dei vincitori ovviamente. Dunque, il problema non è Sanremo nè i Maneskin o il resto dei cantanti. Il festival della canzone italiana è un prodotto commerciale, lo è sempre stato, e più che alla creazione artistica è interessato al mercato, alla vendita di spazi pubblicitari e all'audience. Tuttalpiù, come ogni prodotto commerciale, può registrare, inconsapevolmente o meno, dei cambiamenti in atto all'interno della società, delle modificazioni dei gusti o dei comportamenti. E Sanremo, con notevole ritardo rispetto a ciò che si muoveva nel paese dal punto di vista artistico/musicale, lo ha sempre fatto. D'altronde è un prodotto, e come tale deve essere venduto e per venderlo al meglio deve cercare di interpretare i gusti da una parte e dall'altra anche indirizzarli. Non a caso in queste ultime edizioni c'è sempre stato il trionfo di interpreti che venivano dai talent, certificando, anche qui con ritardo, il successo di questi format. Saranno rivoluzionari anch'essi?

Ma andiamo avanti. Che si tratti di rivoluzione per quel che concerne Sanremo 2021 Assante lo attribuisce a tutta una serie di fattori, tra i quali la vittoria di un gruppo di giovani che fa rock, la presenza di artisti poco conosciuti e fuori dalla grande industria (?), l'esecuzione di cover particolari come brani di CCCP/CSI o Guccini, e in definitiva l'esulare dal gusto medio, il rifuggire dagli ascolti tipici del nostro "fornaio, tassista, medico di base".

Per un gruppo che ha partecipato a X Factor essere definiti poco conosciuti e fuori dal mercato può benissimo considerarsi un successo, molto più della vittoria a Sanremo. E credo che Assante, in fatto di gusti sia rimasto un po'  indietro, se pensa che il nostro tassista o il fornaio oppure il medico di base non conoscano i Maneskin. Va detto, comunque, che l'ascoltatore medio spesso non conosce, o non conosce bene, i vincitori del festival, che sappiamo essere frutto di manovre particolari e non certo sinonimo di qualità. Ma vorrei dire che anche il fatto di essere giovani non rappresenta in sè l'essere rivoluzionari. Il Volo, quella sorta di brutta copia di Andrea Bocelli, è formato da tre giovanissimi e non penso gli si possa dare quell'appellativo. Per quanto riguarda il rock: credo che proprio questa vittoria ne certifichi la crisi profonda. Ormai è come musica leggera (anzi, leggerissima!) e il brano dei Maneskin può certamente essere definito rock, ma solo superficialmente, ne è come colorato, ne porta lontanamente il sapore. A parte il fatto di essere banale, sia nei suoni che nel testo, nell'interpretazione e nella forma, questo "rock" ha perso totalmente le caratteristiche di espressione giovanile di protesta, di canale espressivo artistico che sperimenta, che osa, per trasformarsi in cover di se stesso, in riproduzione scadente dell'originale totalmente slegato dalle dinamiche sociali se non come prodotto commerciale. 

Ma, come dicevo prima, il problema non è certamente il Festival o i suoi partecipanti. Fanno il loro mestiere, più o meno bene. Sono prodotti televisivi che hanno un determinato target, devono rispettare alcune formule, producono senso comune. E, con buona pace di Assante, non penso che questa vittoria dei Maneskin porterà, in futuro, un innalzamento del livello medio artistico/musicale del nostro paese. Il problema è proprio questo: a fronte di un format che privilegia il prodotto di mercato, di facile consumo, c'è poco o nulla che si muova al di fuori di esso. Sanremo c'era anche negli anni Sessanta e Settanta, ma c'era anche molto altro. Io non accuso Sanremo di essere Sanremo, ma accuso coloro che hanno responsabilità intellettuali (sempre meno va detto) di veicolare messaggi falsi in ciò contribuendo pesantemente all'isterilimento artistico. Parlare di rivoluzione a Sanremo significa far credere che quel brano, quelle canzoni, quei presentatori siano altro da ciò che sono, e cioè canzonette, qualcuna buona qualcun'altra meno, e stantii personaggi da avanspettacolo. Dare dignità di messaggio rivoluzionario a un banale "rock" significa ingabbiare all'altare del mercato e della mediocrità le spinte creative che ogni giovane generazione deve avere, significa indirizzare le idee verso un modello che nulla ha di rivoluzionario, nè dal punto di vista artistico nè dal punto di vista del costume. Se pensiamo che sia sufficiente urlare una brano dei CCCP vestiti in modo stravagante per fare una performance "eversiva", allora non avremo più nulla di certamente eversivo, ma solo banali riproposizioni e caricature. Il problema non è Sanremo. Il problema è il realismo sanremese, o il realismo dei talent, l'idea che tutto debba passare da quel contesto che non è neutro ma è materialmente responsabile di un certo tipo di elaborazione artistica, quella che funziona, quella che vende. E che certo non può essere rivoluzionaria. 


pop

venerdì 5 marzo 2021

Disfunti

Questo racconto è stato scritto molto tempo fa, e doveva essere pubblicato su una sorta di raccolta di memorie culturali sul quartiere San Lorenzo di Roma. Alla fine non se ne fece nulla, o meglio, il racconto fu scartato. Ma è rimasto sempre qui, nel cassetto del mio pc e ne sono ancora molto affezionato. Grazie a questo bel documentario https://youtu.be/MIvRjtemikA che ripercorre la storia del mitico negozio di dischi Disfunzioni Musicali, mi è tornato in mente e credo sia l'occasione giusta per pubblicarlo su questo blog. Buona lettura!



DISFUNTI


Si, il quartiere era old style, con quelle pizzerie e trattorie di una volta, con quei muri appassiti eppur gloriosi e forti, con possenti tracce dei movimenti e delle sinistre delle quali il nostro paese era fiero.

Si, il quartiere era ancora popolare, ricco di memorie e dall’aspetto un po’ rude e misterioso, inaspettatamente lontano dall’atmosfera universitaria e per nulla conscio del futuro turistico alle porte.

A S. Lorenzo si andava per una pizza o per le riunioni politiche, o per tutte e due, un fortino ben protetto e nel quale ti sentivi sicuro, a tuo agio. La musica? Ma sì, forse c’era, forse no, c’era stata ma ora, nei terribili anni ’80, la musica quella nuova, quella rock, quella alternativa, quella che nessuno conosceva o forse solo pochi sapevano e la custodivano gelosamente, beh quella non c’era… non c’era neanche a Roma.

Si leggevano riviste e fanzine con avidità e tenero amore, alla ricerca dei nuovi gruppi che sconvolgevano la perfida Albione e che stavano trasformando il rock e la musica giovanile in generale. Il punk, la new wave, il dark, poi la nuova psichedelia… un trionfo di stili, di generi e sottogeneri, di scaffali e cassetti dove potevi infilare il tuo gruppo preferito e condividerlo con pochi altri. Questi gruppi segreti, questi giovani carbonari, ebbero all’improvviso il loro ritrovo, la loro sede, un luogo fisico dove potersi incontrare e soprattutto toccare con mano gli amati vinili fin lì solo immaginati e conosciuti tramite recensioni e articoli delle suddette riviste.

Apparve senza nessun preavviso, come in una sorta di magia, quasi dal nulla e per di più nell’unico vicolo di S. Lorenzo, una specie di traversina storta, chissà come e chissà perché scelta quale luogo di culto e di ritrovo. Alle spalle dell’antico bar, vicino alla storica radio e alle storiche sedi, ad un passo dall’automobilistica pizzeria, il piccolo negozio di dischi aprì i suoi battenti probabilmente più per passione che per affari.

Piccolo ma fornitissimo, per i giovani carbonari che iniziarono a frequentarlo con assiduità. Era incredibile l’emozione che si provò alla vista, per la prima volta dei dischi dei quali si era favoleggiato e sognato per mesi e mesi. Ed ora erano lì, incellofanati ma ben visibili, vivi, colorati, ne potevi sentire il profumo ma anche i suoni. Era come poterli finalmente ascoltare anche se rimanevano nel loro bello scaffale in attesa di essere comprati.

<<Guarda, c’è anche questo...>>. << Sì, pazzesco…e questo? Hai letto la recensione? Dice che è fantastico>>. << Nooo, …incredibile, guarda qui!>>. Il piccolo tempio risuonava di affermazioni di questo tipo, condite da sospiri e vocalizzi vari, in un crescendo di stupore ed eccitazione.  Era un ruminare tra uno scaffale e l’altro, come alla ricerca dell’oro, e con il movimento delle dita sempre più veloce ed esperto, salvo poi bloccarsi alla vista del disco preferito o desiderato. Allora le dita lo prendevano delicatamente e lo estraevano dallo scaffale e gli occhi rimanevano lì ad ammirarlo per poi immediatamente procedere alla lettura delle mitiche note di copertina. Ci si passava delle ore in quel piccolo nido, magari senza comprare niente, anzi, era più facile uscire da lì senza nessun disco per via della penuria di soldi, ma soddisfatti e sicuri del prossimo acquisto da fare.

Loro, i sacerdoti del tempio, gli invidiati proprietari dall’aspetto semplice e soddisfatto immagino considerassero con simpatia e con un senso di affetto quasi paterno quella piccola folla di adepti che, soprattutto il sabato pomeriggio, affollava il locale o rimaneva proprio fuori l’entrata, a parlare o semplicemente a guardare gli altri che entravano ed uscivano. Immagino fosse per loro motivo di grande soddisfazione l’essere riusciti a radunare, in poco tempo, un nugolo di fedeli appassionati che spesso e volentieri li interrogava sulle ultime uscite o sulla qualità e la bontà dell’ultimo 45 giri o dell’extended play, che settimanalmente si recava al bancone chiedendo se fosse arrivato l’lp atteso da mesi o la compilation recensita poco tempo fa. Le loro risposte erano come vaticini, come verità dette da un adulto quando si è piccoli; non si discutevano bensì si assumevano come assolute. E servivano per avvalorare o contestare opinioni e idee sui gruppi e sui dischi dei quali si discuteva animatamente a scuola o in cantina prima, durante e dopo le prove.

La gioia che si provava uscendo da quel piccolo rifugio con in mano la busta del negozio era qualcosa di inimmaginabile. Li potevi riconoscere da lontano: uscivano velocissimi, e con passo spedito si avviavano verso la fermata dell’autobus, controllando spesso se la loro mano teneva ancora la busta. E poi, una volta saliti sull’autobus, ancora con il fiatone, aprire la busta e osservare l’lp, girarlo e rigirarlo, leggerlo, odorarlo, con un sorriso stampato sulla faccia e quasi le lacrime agli occhi. Erano così i giovani adepti della nuova musica. Forse la gioia dell’acquisto resisteva anche alla delusione per un disco e una musica che non piacevano, per un gruppo che ormai non era più come agli inizi, ai tempi del loro primo lavoro.

Ad ogni modo, fu così che S.Lorenzo divenne il quartiere dove c’era la musica, anzi il quartiere della musica. Non esisteva altro posto che S.Lorenzo se eri uno che leggeva avidamente due o tre riviste musicali al mese e conoscevi le formazioni e i gruppi dell’ultima ora. Sui muri, specialmente all’entrata del piccolo negozio di dischi, cominciarono ad apparire scritte con nomi assurdi e improbabili. Erano i nomi dei gruppi, magari anche sbagliati talvolta, o con commenti poco piacevoli e dispregiativi nei confronti di quella formazione o di quel cantante. Era buffo questo miscuglio di politica e musica sugli storici muri che avevano resistito persino al bombardamento. Ovviamente le scritte politiche erano in maggioranza, erano grosse e possenti, mentre le scritte sui gruppi rock erano ancora timide, piccole, quasi nascoste. Nondimeno cominciarono ad essere parte integrante del quartiere, tratto distintivo.

La piccola tribù cominciò a crescere e il negozietto era ormai troppo piccolo per accogliere i sempre più numerosi appassionati e fedeli. Alla notizia del cambio di sede, sempre a S.Lorenzo, ma in un posto molto, molto più grande, beh, la felicità fu infinita. Seconda solo alla vista del nuovo locale, ai primi passi dentro quel nuovo tempio musicale pronto ad ospitare e soddisfare le voglie sempre più sfrenate dei giovani acquirenti. Era incredibile: un posto così non era apparso neanche nei sogni. Ora potevi compiere diversi passi tra un genere musicale e l’altro, ora non c’era più bisogno di appostarsi come gufi alle spalle del tuo predecessore, maledicendolo perché non liberava lo spazio davanti allo scaffale prescelto, perché potevi benissimo spostarti ad un altro, ed un altro ancora, e potevi servirti all’usato, oppure vedere le vetrine interne, con le offerte di alcune rarità e la bacheca con gli annunci. E chi soggiornava fuori poteva gustarsi quelle tre, quattro vetrine con le ultime uscite, i manifesti dei concerti e le famigerate scritte dei gruppi sui muri. E c’era tanto spazio sul marciapiede, così tanto che ad un certo punto il locale prese il posto della famosa lampada Osram alla stazione Termini quale punto favorito d’incontro e di appuntamenti.

Insomma, non si era più degli gnomi simpatici ma poco visibili, bensì degli elfi luminosi, fieri e dall’aria ormai europea, quasi londinese. E anche l’avvento del cd fu assorbito in modo quasi indolore. Tutto sommato gli scaffali c’erano ancora, anche l’usato, le ultime uscite, i generi e i sottogeneri godevano di ottima salute e altre musiche prendevano il loro spazio all’interno del locale. Certo, il costo era cresciuto rispetto al vecchio lp, certo le copertine erano veramente tristi, piccole e con poche informazioni se non all’interno, certo il suono era un po’ più piatto. Ma l’emozione era quasi sempre la stessa: uscivi da lì questa volta con una piccola bustina, correvi verso casa cercando di aprire il cd e trovando spesso difficoltà insormontabili nel rompere la plastica che lo rinchiudeva e poi lo mettevi nel lettore senza più la paura del deterioramento, delle righe sul vinile, dei salti della puntina.

Ormai il locale era affermato, ben conosciuto a Roma, in Italia e all’estero, e con lui anche S.Lorenzo divenne famoso. Era come fosse una sala da tè, oppure un bar, o una sede di un collettivo o una galleria d’arte. Si andava lì per dare un’occhiata ai cd, si incontrava qualcuno, magari si comprava qualcosa, si mettevano in piedi gruppi e si organizzavano concerti. Si compravano riviste, fanzine, si portavano vecchi cd o vinili da vendere o permutare. Insomma, forse la movida a S.Lorenzo nacque proprio da questo posto. O forse no, forse era solo amore, passione pura per la musica. In ogni caso nessuno avrebbe immaginato la fine di un posto così.

Anche se più recente di tanti altri quel negozio era S.Lorenzo e S.Lorenzo era quel negozio.




L’avvento della musica digitale segnò la dolorosa fine di un simbolo. Cominciò lentamente, ma fu inesorabile. Le nuove uscite dovevi ordinarle, in vetrina c’era ormai poca roba, negli scaffali c’erano molti cd ormai vecchi, frutto di precedenti ordini, l’usato cresceva ma rimaneva spesso invenduto. Resistevano le musiche di confine e le specializzazioni, ma era troppo poco. Internet e gli mp3 stavano affossando quello che per molti anni era stato un luogo di culto, pieno di calore e colmo di musiche ed emozioni. All’improvviso, proprio come era nato, chiuse.

Così, un giorno uno va in quella strada per dare un’occhiata a qualche cd, per scambiare due chiacchiere e le serrande sono chiuse. Eppure, non è lunedì mattina. Niente, torna il giorno dopo ed è ancora chiuso. Partono telefonate con amici per cercare di sapere, di capire. Ma no, hanno solo chiuso temporaneamente, problemi di magazzino, liti tra vecchi soci, un attimo di pausa per riorganizzarsi. Ma si, ora riapre. E fu così, veramente. Il negozio riaprì, sempre come prima. Nessun restyling, come si usa ora, nessun cambiamento, tutto come prima. Allora si va avanti, allora si continua. Ok, c’è sempre meno gente, ma i cd sono ancora lì e si possono toccare, guardare, anche se le fotocopie incellofanate delle copertine sono sempre più sbiadite e illeggibili. Ok, non ci sono più le rarità, e i vinili sono pochissimi, ma si entra e si sente la musica, l’ultimo cd uscito di un gruppo del quale non ricordo il nome, oppure l’ultima scoperta dei proprietari del negozio ai quali chiedi il nome della band e di farti vedere la copertina. Si, c’è l’mp3, il downloading, ma quelle quattro mura sembrano poter ancora resistere.

E invece no.

Accade che un giorno passi di lì e vedi caricare alcuni cartoni in macchina e chiudere le serrande. Allora, memore della precedente temporanea chiusura, con un tono speranzoso e anche un po’ complice, chiedi: << quando riaprite? >>. << No, questa volta non riapriamo più. Questa volta chiudiamo>>. Ecco, esattamente le parole che non avresti mai voluto sentire. Questa volta chiudiamo, questa volta basta, è finita.

Forse è anche giusto così, forse è stato meglio così.

Ma a me sembra ancora di vedere, talvolta, nelle strade del quartiere, giovani che camminano con passo svelto e in mano una busta di dischi. Mi è sembrato anche che qualcuno passasse davanti alle vecchie vetrine e rimanesse immobile con lo sguardo socchiuso. E sembra che nel vicoletto storto, ogni tanto, riaffiori dai muri qualche vecchia scritta punk o dark. Mi è sembrato di aver sentito nella via qualcuno che cercasse quel negozio di dischi. Oppure di aver ascoltato discorsi nei quali se ne parlava come ci fosse ancora.

In ogni caso io continuo a dare appuntamenti lì, nella via dove c’era il negozio di dischi. Non si sa mai, dovesse riaprire!!! 

 

pop


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