Cerca nel blog

giovedì 24 marzo 2022

Weird Tales. Il "modernismo" di Pee Wee Russell


 


Il clarinetto è stato uno strumento sfortunato in ambito jazzistico. Tra i protagonisti agli albori, addirittura strumento simbolo durante la swing era, con l’avvento del be bop diventa praticamente obsoleto, vecchio, fuori moda. Soppiantato dal sassofono, il clarinetto rimane in vita grazie a pochissimi musicisti, tra gli anni 40 e i settanta, quando c’è un timido riaffacciarsi sulle scene del jazz contemporaneo. Tony ScottBuddy De FrancoJimmy Giuffre, Pee Wee Russell e poi John Carter, sono tra i pochi jazzisti di un certo livello che suonano esclusivamente o, nel caso di Giuffre e Carter, alternandolo al sax, lo strumento che fu protagonista, insieme alla cornetta e al trombone, della nascita del jazz. Ma in questo breve elenco la figura di Pee Wee Russell emerge con un ulteriore anomalia rispetto agli altri suoi colleghi; è sempre stato considerato un musicista dixieland pur non avendo mai suonato, propriamente, dixieland. Sembra un paradosso ma effettivamente è proprio così.

Andiamo con ordine.

Charles Ellsworth Russell nasce il 27 marzo 1906 a Maplewood, in Missouri, ma la sua famiglia è originaria di Muskogee, in Oklahoma ed è lì che cresce e inizia a suonare vari strumenti musicali, su impulso del padre. Violino, pianoforte e batteria finché, dopo aver assistito ad un concerto del clarinettista di New Orleans Alcide “Yellow” NunezPee Wee Russell opta definitivamente per il clarinetto. Nel 1920 la famiglia si trasferisce a St. Louis e qui inizia l’avventura musicale di Russell, accanto a musicisti del calibro di Bix Beiderbecke e Frankie Trumbauer, per poi spostarsi a New York e aggregarsi al trombettista Red Nichols e al chitarrista e bandleader Eddie Condon, con il quale suonerà e registrerà praticamente durante tutta la sua carriera.

Come dicevamo, Pee Wee Russell è sempre stato associato al dixieland, e i suoi compagni di palco sono quasi sempre stati in quell’ambito, anche se lo stile e l’approccio improvvisativo distano notevolmente dai cliché del genere, così come dall’estetica swing. Ma come suona Russell, perché è così particolare, così intrigante per certi versi?

“Non è un virtuoso e il suo suono è ansimante e stridulo, ma dimentichi quei difetti quando senti la beatitudine, la tristezza, la compassione e l’umiltà che sono lì nelle note che suona”. George Frazier, giornalista e critico jazz.

Queste definizioni racchiudono in gran parte il fascino di Pee Wee Russell, quel suo costruire le improvvisazioni con un accento “moderno”, dove il rumore, il soffio, le note storte e le spigolosità sono parte integrante della musica. Pee Wee improvvisa in modo bizzoso, con frequenti suoni disarticolati e improvvisi slanci melodici, inserendo elementi grotteschi e lavorando spesso sui toni bassi dello strumento. La scelta delle note a volte può sembrare errata ma la costruzione delle anomale melodie è così efficace da tratteggiare assoli imprevedibili e originali. Il bello è che anche la sua faccia e i suoi atteggiamenti sul palco corrispondono a quel suono, con un andamento goffo e un’espressione triste, quasi fosse una sorta di Buster Keaton del jazz.

Tuttavia, questa sua modernità non lo ha portato a frequentare altri ambienti e musicisti se non, appunto, il giro dixieland, probabilmente per una sua pigrizia, per i suoi problemi con l’alcool, o semplicemente per un’ingiusta sottovalutazione delle sue qualità. Ma agli inizi degli anni ’60 qualcosa cambia, le acque si smuovono.

Dopo una crisi dovuta al suo cattivo stato di salute nella prima metà degli anni 50, sul finire della decade Pee Wee riprende a suonare con regolarità e con i giusti apprezzamenti, anche da parte della critica. Le prime avvisaglie del cambio di rotta sono un incredibile duo con Jimmy Giuffre e un disco registrato insieme all’altro grande clarinettista, Tony Scott (Tony Scott And The All Stars52nd St. Scene, registrato il 6 agosto del 1958). Inoltre, inizia a partecipare ad importanti festival jazz, suonando accanto a Coleman Hawkins e a Lester Young. E arriviamo così al febbraio del 1961 quando Russell incide il bellissimo Pee Wee Russell – Coleman Hawkins All Stars, insieme allo storico sassofonista e con, tra gli altri, Bob Brookmeyer al trombone a pistoni e Nat Pierce al piano e agli arrangiamenti, il tutto prodotto da Nat Hentoff. Questo nuovo interesse e rivalutazione del clarinettista attira l’attenzione del trombonista, arrangiatore e direttore di big band Marshall Brown, ansioso di accrescere la sua reputazione nel mondo jazz e intenzionato ad investire i suoi soldi su un progetto abbastanza audace: inserire in modo stabile Pee Wee Russell in un contesto moderno, vicino alle nuove tendenze del jazz degli anni 60. E quindi, insieme al contrabbassista Russell George e al batterista Ron LundbergBrown Russell allestiscono un quartetto pianoless (sulle orme del famoso gruppo di Gerry Mulligan e Chet Baker) con un repertorio da far spalancare gli occhi. Composizioni di John ColtraneThelonious MonkTadd Dameron e persino Ornette Coleman!

Pee Wee è interessato alla sfida e vuole finalmente mettersi alla prova con musicisti e brani lontani dal suo abituale giro, anche se la figura di Marshall Brown non lo convince del tutto, con quel fare da istruttore nei suoi confronti. Alle prime prove, agli inizi del 1962, assistono anche Kenny Davern e Roswell Rudd che spronano Russell a continuare questo esperimento, convinti che il contesto fosse finalmente quello giusto per un musicista come Pee Wee.  

Il 15 ottobre del 1962 il Pee Wee Russell Quartet with Marshall Brown debutta dal vivo a Toronto. E, com’era facile attendersi, il nuovo gruppo scontenta totalmente i suoi vecchi fans e non convince i “modernisti”, ancora restii ad accettare il nuovo corso del clarinettista. Il quale, tuttavia, nelle interviste più volte sostiene di non aver mai suonato dixieland, bensì solo e soltanto jazz. E quindi non c’è nessuna rivoluzione in corso, semplicemente un repertorio diverso. Che in effetti non è del tutto sbagliato.

New Groove, il disco del quartetto, esce per la Columbia Records nel maggio del 1963, dopo sedute di registrazione svolte con tensione e incomprensioni, tra la rigida disciplina di Brown e la rilassatezza e l’indolenza di Russell. Tra i brani presenti nell’lp c’è una Red Planet di Coltrane, la ‘Round Midnight di Monk e Good Bait di Tadd Dameron, più altri standard come Moten Swing o Chelsea Bridge. Il disco è ben arrangiato, con un suono complessivo elegante e corposo, una ritmica puntuale e precisa e un affabile impasto fra trombone a pistoni e clarinetto.  Pee Wee Russell finalmente improvvisa in un ambito a lui consono, e costruisce assoli inusuali, linee storte e note inattese sia su classici come Taps Miller di Count Basie che su brani “moderni” come Good Bait. Discreto e di supporto armonico nel tema di ‘Round Midnight, commovente nell’enunciazione di Chelsea Bridge, con quel soffio intenso e le vibrazioni di un suono che viene da lontano ma che colpisce per la sua contemporaneità ancora adesso. A suo agio in Red Planet, dove mostra la sua capacità di improvvisare con un linguaggio ricco di echi free, Russell è eccezionale nella sua Pee Wee Blues, con un solo di altissimo livello. A mancare, nel disco, è un contraltare all’altezza, perché va detto che il buon Marshall Brown fa il suo compitino ma nulla di più, ed è un peccato perché contrabbasso e batteria suonano egregiamente. Le recensioni sono buone, dal vivo il gruppo riceve consensi entusiasti, addirittura Pee Wee vince il critics’ poll di Down Beat come miglior clarinettista dell’anno, ma i pregiudizi sono duri a morire e il disco non vende, non quanto dovrebbe. Tuttavia, questo non ferma il nuovo corso di Russell e nel luglio del 1963 il clarinettista suona insieme a Thelonious Monk al Festival Jazz di Newport, suscitando clamore tra il pubblico e critiche positive tra i giornalisti.  Prima di questo concerto il quartetto con Marshall Brown conclude le registrazioni e vende alla Impulse il secondo album, Ask Me Now (che però verrà pubblicato solo nel 1965), con una track list di tutto rispetto: insieme a brani scritti dallo stesso Brown, e a classici come Prelude To A Kiss di Ellington o How About Me? di Irving Berlin, figurano Ask Me Now e Hackensak di MonkSome Other Blues di Coltrane e un’incredibile Turnaround di Ornette Coleman 

Tuttavia, le sedute di registrazione per il secondo disco hanno evidenziato ulteriormente il malessere di Pee Wee Russell nei confronti di Marshall Brown, quella sua eccessiva rigidità nel registrare e allo stesso tempo l’inconsistenza improvvisativa che, a detta di Russell, ha pregiudicato i due lavori fin lì conclusi. Tanto è vero che i due provano a cambiare line up, a modificare qualcosa per tentare di raddrizzare il gruppo. E allora, a settembre del 1963, in previsione di una settimana di concerti al Village Vanguard di New York, il quartetto viene ampliato con l’inserimento del pianista Bob HammerJack Six al posto di Russell George al contrabbasso e Ronnie Bedford alla batteria, che già aveva partecipato alle registrazioni di Ask Me Now in luogo di Lundberg. Ma ormai non c’è più nulla da fare, il progetto è al capolinea e queste saranno le ultime esibizioni del gruppo, che si scioglie subito dopo, molto prima della pubblicazione del secondo album. A conclusione dell’esperienza Pee Wee dirà che non ricordava di aver mai preso così tanti ordini dai tempi della scuola militare. E oltretutto, dal punto di vista economico, fu un completo fallimento.

Resta da commentare l’ultimo disco, quell’ Ask Me Now pubblicato addirittura dalla Impulse.  Anche questo lavoro è ben arrangiato, in modo abbastanza tradizionale ma con garbo ed eleganza. E complessivamente è leggermente superiore al lavoro d’esordio, sia per una prestazione migliore di Brown che per un’ottima scelta dei brani, tra i quali gli originali del trombonista certo non sfigurano. L’apertura è affidata al brano di Ornette Coleman, una Turnaround suonata come un blues d’altri tempi, il suono caldo e quelle note appena accennate di Russell che emozionano e incuriosiscono. In Some Other Blues, di John ColtranePee Wee alterna richiami dixie a passaggi moderni, a note strozzate, in un solo di rara creatività, mentre Ask Me Now di Monk ha tutto il calore e il sapore dell’ebano, della tradizione jazz. Licorice Stick, uno dei brani originali, dall’andamento monkiano, è significativo per l’alternanza dei soli, tra un Brown discreto, ordinato, e un Russell pieno di passaggi inusuali, avventurosi, come se il più giovane fosse lui invece del trombonista. Hackensack, sempre di Monk, è divertente, briosa, mentre lo standard Angel Eyes, privo di improvvisazione, è ben suonato da Marshall Brown, che qui fa intravedere le sue qualità di narratore tematico.

Come dicevamo, il disco esce nel 1965, quando il gruppo già non esiste più e Pee Wee Russell è tornato ai suoi vecchi amori, al suo classico giro di musicisti dixieland, Jack TeagardenBud FreemanEddie Condon. C’è ancora spazio per concerti insieme al trombettista Henry “Red” Allen con una ritmica che vede Steve Kuhn al piano, Charlie Haden al contrabbasso e Marty Morell alla batteria e, nel 1967, un’insolita produzione di Bob ThielePee Wee insieme ad una big band con musiche dirette e arrangiate da Oliver Nelson. Purtroppo, nonostante la buona prova del clarinettista, l’esperimento non sembra del tutto riuscito anche perché il suono e lo stile di Russell non sono propriamente adatti alla forza e all’estetica di una big band.

Finisce così l’avventura “modernista” di Pee Wee Russell, e c’è un grande rammarico per quanto avrebbe potuto ancora dare se fosse stato più deciso nel continuare la svolta e magari avesse cambiato i partner. Ma così non è stato e, in ogni caso, pur in ambiti particolari, Charles Ellworth Russell ha continuato a regalarci ottima musica fino alla sua morte, avvenuta il 15 febbraio 1969.   

“Per trent’anni abbiamo tutti creduto che Russell facesse delle note sbagliate e lui ce lo ha lasciato credere; in realtà sapeva esattamente quello che suonava e noi abbiamo impiegato quasi trent’anni per capirlo!”

Coleman Hawkins


pop

lunedì 21 marzo 2022

L'Europa tra jazz e improvvisazione libera






Anche questo scritto fa parte della serie di schede informative del laboratorio sulla Storia del Jazz, Percorsi Jazz. 


L’Europa tra jazz e improvvisazione libera

 

“Il jazz afferma di essere una forma d’arte. Tutta l’arte è espressione del tempo in cui ha origine, un riflesso dell’ambiente in cui viviamo. Ecco perché un musicista jazz europeo non dovrebbe mai suonare come un musicista nero a New York o Chicago”

Albert Mangelsdorff

 

Se l’arrivo del jazz in Europa data già dai primi anni Venti, in corrispondenza più o meno della nascita di questa musica sul continente nordamericano, è altresì vero che fino al secondo dopoguerra questa musica vivrà in ambiti ristretti e non avrà certo ampia diffusione all’interno delle società europee. In Francia, in Gran Bretagna e nella Germania di Weimar le musiche afroamericane avranno anche i loro momenti di successo, ma ovviamente stiamo parlando di settori sociali esclusivi, avanguardie, circoli artistici, intellettuali. Va comunque sottolineato che il jazz, in molti casi, ricevette maggiori attenzioni ed ebbe un trattamento migliore, da parte degli ambienti culturali europei, di quanto ne avesse avuto negli Stati Uniti. Il primo libro sulla musica jazz è di Hugues Panassiè (“Le Jazz Hot”), un francese amante della nuova musica afroamericana, e molti jazzisti, quando attraversarono l’oceano per esibirsi in Europa, troveranno un atteggiamento di assoluto rispetto, che invoglierà molti di loro a tornarci o, in alcuni casi, a stabilirsi definitivamente.

Ostacolo alla piena diffusione del jazz in Europa furono l’instaurarsi delle dittature fasciste e naziste, in Italia e Germania, e delle ripercussioni che tali regimi provocarono sul resto dei paesi del continente, così come il consolidarsi del regime staliniano soffocò, anche qui, le sperimentazioni artistiche e il favore che il jazz, nei primi anni dopo la rivoluzione, aveva riscosso in Russia. A parte qualche influenza sulle musiche da ballo, del jazz non rimarrà molto fino alla Seconda Guerra Mondiale, con l’arrivo delle truppe americane e dei loro Vdisc, dischi espressamente registrati dalle big band per l’esercito statunitense. Se questo vale per Italia e Germania, per quanto riguarda Francia e Gran Bretagna, la penetrazione del jazz sarà più costante e duratura, nonostante appunto crisi economica e venti di guerra. Django Reinhardt, chitarrista di origine rom, e il violinista Stephan Grappelli, saranno popolari anche nella Francia del maresciallo Petain e persino tra alcuni gerarchi nazisti, mentre il fascino del jazz tradizionale, quello di New Orleans, manterrà solide radici in tutto il Regno Unito, dando vita ad un grande circuito di jazz tradizionale che si svilupperà ancor di più dopo la Guerra.

Il peso degli USA, non solo economico ma anche culturale, condizionerà l’Europa occidentale dopo il 1945, dando vita al modello politico e sociale delle democrazie occidentali, in netta contrapposizione con il blocco sovietico, e questo comporterà, fino al 1989, una netta divisione del continente che solo marginalmente verrà scalfita dai movimenti artistici. Il jazz sarà un elemento fondamentale della penetrazione culturale americana e diverrà velocemente una musica di riferimento non solo per i musicisti professionisti e dilettanti, ma anche per laghi settori della popolazione europea. Il ballo fece da traino ai ritmi delle big band e, anche se in patria il movimento era in netta crisi travolto dall’esplosione del be bop, lo swing sarà sinonimo di jazz nell’Europa degli anni Cinquanta. Ma presto le nuove tendenze presero piede anche nel vecchio continente, grazie ancora una volta ai numerosi concerti di musicisti americani in Scandinavia, Francia, Gran Bretagna, Olanda, Belgio, Germania e la stessa Italia. Questo comportò un consistente sviluppo del jazz europeo, con musicisti di assoluto valore, valga l’esempio degli svedesi Lars Gullin e Arne Dohnerus, oppure degli inglesi Ronnie Scott e Stan Tracey o del contrabbassista danese Niels-Henning Orsted Pedersen, che pur posizionandosi su un terreno di emulazione degli stilemi afroamericani, tra bop e cool, grazie alle loro capacità avranno la concreta possibilità di suonare accanto ai musicisti americani. Tuttavia, nonostante difficoltà e ritardi, tra revival del jazz tradizionale, emulazioni e musica di intrattenimento, l’esplosione del free jazz negli Stati Uniti non tardò molto ad avere ripercussioni anche in Europa. Il nuovo linguaggio permise a tutta una schiera di giovani jazzisti europei di poter approcciare finalmente la materia in modo originale e non seguendo semplicemente le tracce dei musicisti americani. Quell’approccio libero, creativo, fu la scintilla per far esplodere definitivamente la scena europea, questa volta su posizioni innovative, dando vita ad un movimento che travalicò le frontiere pur mantenendo alcune specificità nazionali. Un primo elemento di distinzione fu, in molti casi, la contaminazione con la musica colta, con le pratiche aleatorie e improvvisative dei compositori americani quali Cage, Feldman, Wolff, soprattutto in Gran Bretagna ma anche in Italia. Giorgio Gaslini e la sua musica totale, o il Gruppo Romano Free Jazz, sono mirabili esempi di creazione di un nuovo linguaggio che al suo interno contiene spunti, suggestioni ed elementi di ambedue i mondi sonori, quello accademico e quello jazz. Ma anche le esperienze inglesi del Joseph Holbrooke Trio, oppure dello Spontaneous Music Ensemble intrattengono forti contatti e pratiche con l’aleatorietà e l’improvvisazione colta. Lo stesso si può dire per la scena tedesca, mentre per quanto riguarda i Paesi Bassi, qui c’è un uso più irriverente e giocoso degli stilemi jazz intrecciati all’improvvisazione libera, con sviluppi alquanto originali. Altre caratteristiche sono le pratiche collettive, la formazione di orchestre più o meno stabili e transnazionali come la Globe Unity Orchestra di Schlippenbach, l’Instant Composer Pool di Misha Mengelberg, gli ensemble di Mike Westbrook e la London Jazz Composers’Orchestra, il Willem Breuker Kollektif. Ma anche Centipede, doppio album registrato da ben cinquanta musicisti inglesi, tra jazz, rock e improvvisazione libera, le etichette indipendenti come la Incus di Derek Bailey ed Evan Parker, oppure la tedesca FMP, i concerti autogestiti e i circuiti alternativi. E certo non potevano mancare i contatti con il nuovo rock, soprattutto in Inghilterra, così come forte fu l’influenza dei musicisti sudafricani che aprirono il jazz inglese alla ritmicità, agli intrecci tematici. Altrettanto importante fu il rapporto con le musiche tradizionali, sia in Italia (ad esempio Mario Schiano e il suo bel disco “Sud”), che in Scandinavia, dove peraltro operò con successo anche George Russell, influenzando profondamente la scena di quei luoghi. Ma va detto che molti musicisti americani si stabilirono, in quegli anni, spesso in Europa, dando nuova linfa ma anche ricevendone altrettanta, alla scena europea. Steve Lacy, Don Cherry, l’Art Ensemble Of Chicago, (Albert Ayler ed Eric Dolphy ebbero importanti collaborazioni con musicisti europei) furono tra i molti che seguirono l’esempio del vecchio Sidney Bechet, stabilitosi definitivamente in Francia nel Secondo dopoguerra.

In conclusione, il jazz europeo si inserì all’interno di quel vasto movimento, politico, sociale e culturale, che negli anni Sessanta rivoluzionò le società del vecchio continente e ne fu una delle espressioni artistiche di maggior rilievo. L’esperienza del free jazz ha permesso la nascita di un linguaggio comune europeo improntato alle pratiche di improvvisazione libera, quel territorio che prende spunti e insegnamenti sia dal mondo delle musiche afroamericane che da quello della musica contemporanea. E quest’approccio ha consentito l’emancipazione del jazz europeo dall’estetica americana, pur non negandone certamente le influenze, ma riuscendo a declinare la propria creatività con un linguaggio personale, ricco e composito, variegato ma allo stesso tempo con un substrato comune, valicando confini e cortine di ferro, ed arrivando effettivamente ad unificare, sotto la bandiera dell’arte libera, l’Europa.

 

pop

venerdì 18 marzo 2022

Disorder at the Border

 



Questo breve scritto fa parte di una serie di schede compilate per un laboratorio sulla storia del jazz, Percorsi Jazz. 



DISORDER AT THE BORDER

 

Il mito della frontiera, dello spostamento dei confini sempre più in là, fino alla conquista dell’intero continente, è stata una delle narrazioni più evidenti ed importanti delle vicende americane. E per quanto riguarda le arti, e il jazz in particolare, la ricerca e il superamento dei limiti hanno fatto da elemento propulsore delle dinamiche artistiche, in stretto rapporto con le vicende storiche e sociali. In circa un secolo di storia il jazz ha promosso una serie di trasformazioni tali da rivoluzionare in maniera profonda l’ascolto e la pratica musicale in tutto il mondo. Ovviamente questo è in stretta relazione con l’emergere e lo stabilizzarsi degli Stati Uniti come prima potenza mondiale, sia dal punto di vista economico che militare. E le evoluzioni tecnologiche, la radio e i dischi, hanno certo favorito l’espansione della musica jazz in tutto l’occidente, e non solo.

L’intreccio con le vicende storiche non è certamente circoscritto ad una dinamica di causa effetto, o posto in maniera meccanica, ma va interpretato e connesso dialetticamente. Come per tutte le arti, le vicende storico sociali, politiche ed economiche sono traslate, anticipate o interpretate dall’espressione artistica. La musica, in questo caso il jazz, è agente di storia, strumento di narrazione storica e fonte per la ricerca e siamo noi a dover interrogare la produzione artistica per rintracciare ed analizzare i rapporti che intercorrono tra essa e le vicende storiche. Agente di storia in quanto è presente ai mutamenti e, all’interno di essi, costruisce, delinea e organizza identità e partecipazione. Strumento di narrazione storica perché è in grado di narrare il passato, la storia e le storie delle vicende umane. Ed è, da ultimo, un materiale per la ricerca storica, una fonte certo difficile da maneggiare, stratificata e complessa[1].

Da questo punto di vista possiamo rintracciare, all’interno della storia del jazz che va dagli anni della Seconda guerra mondiale fino al 1959, anno di registrazione del disco Free Jazz a nome di Ornette Coleman, una tensione, un movimento spasmodico verso il superamento di confini, regole e comportamenti in ambito jazzistico. Il tutto strettamente intrecciato all’evoluzione storica degli Stati Uniti, alle sue contraddizioni interne e al suo ruolo esterno.

Il coinvolgimento degli USA nella Seconda guerra mondiale, nel dicembre del 1941 dopo l’attacco di Pearl Harbour, trova una nazione e una società ancora alle prese, seppur parzialmente, con la crisi economica innescata dal crollo di Wall Street del 1929. Il New Deal Roosveltiano aveva certo permesso un miglioramento generale delle condizioni di vita della popolazione ma la disoccupazione toccava, ancora nel 1940, il 14,5 per cento della popolazione, più di 8 milioni, e 5,6 milioni nel 1941[2]. La partecipazione in guerra riportò la piena occupazione e nuovi e grandi profitti per il sistema industriale americano, con conseguente rafforzamento del capitalismo americano anche in prospettiva mondiale[3]. L’entrata in guerra comportò uno stravolgimento dell’assetto sociale con il coinvolgimento, nella produzione e nel conflitto, di ampie fasce di popolazione fin lì escluse o emarginate. Le donne e gli afroamericani, ma anche gli operai, ora centrali nello sforzo della nazione per vincere la guerra, assunsero un ruolo importante che comportò un aumento di conflittualità e di richiesta di diritti. Si combatteva in nome di ideali progressisti e di uguaglianza all’esterno ma ovviamente quegli stessi principi dovevano essere messi in atto anche all’interno del paese. 

Il protagonismo delle masse popolari, e all’interno di esse della comunità afroamericana, ebbe riscontro anche nel campo delle arti, in particolare in ambito jazzistico. La guerra mise in crisi le grandi orchestre votate all’intrattenimento e al ballo, che tanto avevano spopolato negli anni ’30. Ma anche lo stesso ruolo del musicista, visto spesso come semplice esecutore, stava cambiando. La spinta a forzare i limiti sia della società che dal punto di vista artistico iniziò a manifestarsi in un momento cruciale come quello della Seconda guerra mondiale. Al successo della cinquantaduesima strada di New York, ricca di locali famosi con orchestre e star dello spettacolo, si andava contrapponendo in maniera sotterranea la Harlem dei Minton’s Playhouse e Monroe’s Uptown, piccoli locali dove si svolgevano jam session furiose e si sperimentavano nuovi linguaggi. L’iniziativa era nelle mani e nelle note dei musicisti neri, ora certamente in sintonia con il nuovo ruolo della loro comunità nella società americana. La mobilitazione della nazione americana in nome della libertà nella guerra contro il nazifascismo riportava a galla la questione razziale, e con essa un nuovo protagonismo degli afroamericani che si intrecciava alle rivendicazioni delle masse popolari bianche, impegnate nello sforzo bellico sia al fronte esterno che in quello interno. La crescita degli iscritti ai sindacati comportò anche la loro parziale apertura ai lavoratori neri, e un generale movimento di conquista di maggiori diritti serpeggiava in tutto il paese.

Il Be Bop, anche se in un momento particolarmente difficile, è segnale inequivocabile di maggiore dinamismo, di rottura di schemi preesistenti. La struttura dell’orchestra, con ruoli predeterminati, un leader, solisti per poche battute e in generale macchina per divertirsi, viene lentamente sradicata a favore di una musica che non è più d’intrattenimento ma è musica d’arte. I piccoli combo diventano i protagonisti e con loro una musica veloce, angolosa, irrequieta, lontana dalle atmosfere patinate dello swing. Ovviamente non si arriva a questo all’improvviso, ma la tendenza inizia a manifestarsi già a fine anni Trenta grazie ad alcuni musicisti che saranno poi fondamentali per la nascita e l’affermazione del Bop. Charlie Christian, chitarrista dell’orchestra di Benny Goodman, è uno di loro, così come ovviamente Charlie Parker nell’orchestra di Jay MacShann e Dizzy Gillespie, che grazie anche al sostegno di uno dei grandi del jazz come Coleman Hawkins, ha la possibilità di mettersi in mostra a fianco, per l’appunto, di uno dei padri dal jazz. In Disorder at the border (brano di Hawkins registrato nel 1944 https://youtu.be/IqEjHzusYUo) si può notare l’estrema differenza solistica e la ricerca, fatta da Dizzy, di infrangere alcune regole fin lì acquisite, come in una specie di moto ondoso che sempre più avanza.

Per quanto, dal punto di vista armonico, la rivoluzione bop non sia così profonda, richiamandosi in parte ad acquisizioni già avvenute in ambito classico, grazie a Debussy, Hindemith e Schoenberg, nondimeno all’interno del quadro jazzistico sono mutazioni che pesano, che incidono. Una caratteristica fondamentale delle innovazioni boppistiche è la diversa concezione ritmica rispetto allo swing. Una batteria che accentua momenti importanti all’interno del brano e non più limitata al solo 4/4 per ballare. In generale un diverso approccio ritmico più intraprendente, meno legato al sostegno e più in primo piano. Questa irruenza ritmica è una sorta di flusso che tende ad infrangere le regole, traslando nel jazz quel nuovo protagonismo delle masse popolari americane, tutte, impegnate sia nello sforzo bellico che nella ricerca di una società diversa, tese a rompere le dinamiche pre-guerra.

Un altro aspetto del rinnovamento e della tensione verso la rottura e lo spostamento dei confini, musicali e no, è la volontà di avere un nuovo repertorio o, in alcuni casi, di riscrivere totalmente vecchi brani e rimodularli sulle nuove concezioni armonico stilistiche. C’è da sottolineare, comunque, il solo parziale lavoro di rinnovamento della forma. Anzi, da questo punto di vista, è come se si segnasse una sorta di passo indietro rispetto alle elaborazioni fatte soprattutto sul repertorio delle grandi orchestre, Ellington su tutti. C’è una semplificazione, tema assoli tema, che da un lato permette lo sviluppo e la maggiore importanza del solo, ma dall’altra impoverisce, per l’appunto, il discorso formale, le modifiche e gli sviluppi sui temi che successivamente verranno ripresi in parte dal Cool jazz.

Il protagonismo musicale e sociale si arresta nella seconda metà degli anni ’40, in pratica dopo la fine della Seconda guerra mondiale. La morte di Roosevelt e l’elezione a presidente del suo vice, Truman, nell’aprile del 1945 sposta gli assi della politica interna ed esterna degli USA. Il nuovo presidente è certamente più attento alle richieste degli industriali del nord e dei proprietari terrieri del sud, modificando di fatto il ruolo egemonico avuto sin lì dei settori popolari. Da questo punto di vista, l’avvio della guerra fredda avrà un duplice scopo: da una parte contrastare a livello mondiale l’URSS e, dopo la vittoria di Mao nel 1949, la Cina, ma dall’altra mettere a tacere le richieste e le rivendicazioni salariali dei sindacati all’interno e congelare ogni movimento con il terrore del comunismo.  

L’assenza di conflitti e la normalizzazione della società americana, portata avanti sia dai democratici (o almeno una grossa parte del partito) che dai repubblicani, determina anche cambiamenti nel mondo del jazz. La rivoluzione bop viene anch’essa normalizzata, come depotenziata. Se ne assumono alcune conquiste inserendole però in un contesto più rispettabile. I comportamenti provocatori, le sperimentazioni e l’irruenza tipici dei primi boppers vengono messi in crisi dalla soffocante politica di caccia ai comunisti e ai loro fiancheggiatori. E così un’orchestra valida e intraprendente come quella del bianco Woody Herman raccoglie e porta avanti i frutti della rivoluzione bop incanalandola in differenti ambiti, meno sovversivi se così vogliamo dire. Ma l’attestarsi sulla difensiva, il ritiro e poi la stasi delle masse popolari è come se si riflettesse anche nel jazz, con l’emergere di un tipo di musica più rilassata, ben arrangiata e priva di grosse asprezze. Il Cool jazz, preso atto delle sperimentazioni del Bop, ne sussume le conseguenze e le rielabora in forma differente. Complice anche il passaggio propulsivo dai musicisti neri a, in gran parte, quelli bianchi. E anche lo spostamento dell’iniziativa dalla costa est, New York in particolare, alla costa ovest, dove c’era Hollywood e le atmosfere erano certamente meno tese.

Nondimeno le sperimentazioni Cool, portate avanti agli inizi da Miles Davis, Gil Evans, Gerry Mulligan, John Lewis, tra gli altri, mostrano quanto profondo sia il sommovimento provocato dalla rivoluzione bop, e ne conferma, come dicevo sopra, alcune conquiste, prima fra tutte la trasformazione del jazz da musica di consumo a forma d’arte. E, ovviamente, anche le innovazioni stilistiche, dalla pronuncia alla differente concezione ritmica, all’uso di scale e accordi particolari. Ma l’esuberanza nera è come messa in sordina, vincolata a forme di sperimentazione che certamente molto devono al materiale armonico/teorico occidentale e bianco. Da questo punto di vista, pur perdendo di irruenza e spontaneità, le musiche di estrazione cool sono però contraddistinte da un profondo lavoro sulla forma e sulla struttura tematica, così come sulla sperimentazione armonica. Soggiace nelle atmosfere e nello spirito di questa musica, pur di stretta derivazione bop, come un senso di levigatezza e introspezione, un mettersi di lato rispetto all’evoluzione della società americana, quasi a non voler troppo disturbare o non essere disturbati. La prima metà degli anni ’50 è, per gli USA, il trionfo, perlomeno declamato e omaggiato dal cinema e dalla televisione, della classe media, delle villette unifamiliari nelle aree residenziali suburbane delle città. Questo sviluppo, segnato dalle dinamiche repressive maccartiste, comporta un’ulteriore emarginazione delle masse afroamericane, così come dei settori liberal o alternativi, fuori dalla cortina di consenso e assurti a nemici interni nella guerra contro l’URSS. Non è certo un giudizio di valore che viene dato a questo jazz così elaborato e patinato, di alto livello, bensì solo una sottolineatura dei legami che la musica afroamericana, in questo caso, ha avuto con le dinamiche politico sociali ed economiche statunitensi.

Non bisogna tuttavia generalizzare troppo, dare un segno univoco a quegli anni, renderli di un solo colore. Non tutti erano classe media e l’altra faccia dei suburbs erano i ghetti neri delle grandi città, la condizione di estremo sfruttamento della classe operaia, o perlomeno di una sua fascia, quella più povera ovviamente. E gli eventi, sia storici che artistici, non hanno inizi o termini precisi, netti, bensì innovazioni e tendenze anticipatrici si muovono sotterraneamente per poi uscire in maniera dirompente o meno allo scoperto. E quindi insieme agli esperimenti di Giuffre, al contrappuntismo[4] di Mulligan o al “progressismo” di Stan Kenton, convivono i laboratori sperimentali di Charles Mingus così come resiste l’orchestra di Ellington, senza parlare dei cosiddetti reduci bopper della prima ora come Davis (peraltro già protagonista con la nascita del Cool) o Monk. Tuttavia, c’è una data precisa che può essere presa a misura del cambiamento di rotta delle dinamiche sociali e politiche, oltreché artistiche, che avviene negli USA: il primo dicembre 1955, a Montgomery in Alabama, profondo sud, viene arrestata l’attivista afroamericana Rosa Parks per essersi rifiutata di cedere il suo posto in autobus ad un bianco. È come un segnale che accende la rivolta e le rivolte, soprattutto innesca di nuovo e con maggior forza il protagonismo delle masse afroamericane. Le lotte per i diritti civili e la fine del segregazionismo coinvolgono anche settori ampi della società americana bianca e poi si fonderanno con i movimenti contro la guerra in Vietnam agli inizi degli anni ’60. Dal punto di vista artistico e musicale in generale, questa effervescenza sociale e politica non può non avere ricadute ed effetti. Nel 1954 Art Blakey e Horace Silver fondano i Jazz Messenger, alfieri di quello che viene definito Hard Bop, nient’altro che una versione più nera, più funk del Be Bop, con una forte componente blues e uno sviluppo del solismo ad alti livelli. Clifford Brown, Sonny Rollins, Jackie McLean, Hank Mobley, Cannonball Adderley, Lee Morgan, ma anche la rinascita di Miles Davis, che avviene proprio nel 1955, con il suo quintetto insieme a John Coltrane o allo stesso Sonny Rollins, insomma un fiorire di grandi solisti che segnano la storia del jazz e che sviluppano la loro arte proprio in questo periodo, con evidenti connessioni alle dinamiche in atto nella società americana.

La corsa quasi spasmodica a rompere consuetudini, regole, confini, procede di pari passo con le conquiste sociali e politiche soprattutto degli afroamericani, un’esplosione creativa che probabilmente non avrà più eguali. È l’ampliamento della fase improvvisativa, a scapito per alcuni versi dell’elaborazione tematica, a far esplodere l’edificio armonico, orami percepito come gabbia, come costrizione. Le nuove concezioni e i nuovi approcci di Ornette Coleman e Cecil Taylor liberano completamente l’improvvisazione dalla progressione armonica dandole finalmente la libertà creativa totale, basata sull’ispirazione del/dei musicista/i e senza alcun vincolo. È come se ora l’afroamericano (ma non solo, pensiamo per esempio al trio di Jimmy Giuffre con Paul Bley e Steve Swallow) fosse fuori dalle regole che, seppur modificate e piegate alla propria espressività, erano state espressione della storia e della cultura bianca e occidentale, quelle leggi e formule armonico/teoriche che avevano comunque segnato il jazz, la sua storia. Se l’esperienza Cool, fatta di sperimentazioni colte e avanguardistiche, aveva infranto le forme provenienti dal mondo pop e traslate nel jazz, l’Hard Bop sfocia nell’affrancamento della fase improvvisativa dalla schiavitù dell’armonia, lasciando al tema la funzione di ispirazione, di guida. Va detto che questi due approcci troveranno molti punti di contatto, per esempio nelle elaborazioni della cosiddetta Third Stream, una corrente musicale che tentava di coniugare il mondo colto e classico occidentale/europeo con il jazz. Nondimeno l’arrivo di Ornette Coleman porta a compimento una spinta insita alla musica jazz all’infrangere il corpus di regole e leggi dell’armonia occidentale, una folle corsa alla piena espressività di un popolo che fin lì era stato ancora soggetto al predominio bianco. Non che non lo sarà più, ma quelle conquiste musicali, a fianco delle conquiste sociali e politiche pagate a caro prezzo, saranno fondamentali per il prosieguo della storia culturale e sociale afroamericana. Un’ultima annotazione: anche lo stesso Davis, con il suo jazz modale, rappresenta, con un altro approccio, quel desiderio di emancipare l’improvvisazione, di permettere al solista di comporre istantaneamente senza dover porre attenzione alla progressione armonica. È uno sviluppo assolutamente fertile che sarà forte fonte di ispirazione per tanta musica, non solo jazz. E avrà una sua importante declinazione nella fase elettrica del trombettista, dove Davis porrà al centro della sua musica il ritmo black a sostegno di una piena libertà, persino dal tema. Ma questo è un altro discorso!

 

pop


[1] Marco Pieroni, Il nostro concerto. La storia contemporanea tra musica leggera e canzone popolare, 2001, R.C.S. Libri, Milano

[2] Bruno Cartosio, Stati Uniti contemporanei. Dalla guerra civile a oggi, 2002, Giunti, Firenze

[3] Richard Boyer – Herbert Morais, Storia del movimento operaio negli Stati Uniti, 2012, Casa Editrice Odoya, Bologna

[4] Stefano Zenni “Storia del jazz. Una prospettiva globale” Viterbo, 2012, Stampa Alternativa, pag.329

mercoledì 16 marzo 2022

Eric Dolphy

 



Questa è la lista praticamente completa delle registrazioni effettuate da Eric Dolphy e poi pubblicate su disco. La quantità e la qualità sono impressionanti, tenuto conto dei pochi anni nei quali Dolphy ha suonato. Solo per fare un esempio: guardate le date del 19, 20 e 21 dicembre 1960 e cosa ha registrato in quei soli tre giorni. 



Eric Dolphy

 

1958

4 e 6 luglio CHICO HAMILTON C. Hamilton & E. Dolphy Complete Studio Recordings (Newport Jazz Festival)

22 agosto CHICO HAMILTON The Original Ellington Suite

26 e 27 ottobre CHICO HAMILTON With Strings Attached

29 e 30 dicembre CHICO HAMILTON Gongs East

 

1959

6 gennaio CHICO HAMILTON Gongs East

25 febbraio CHICO HAMILTON The Three Faces of Chico

19 e 20 maggio CHICO HAMILTON That Hamilton Man (o  Truth)

 

1960

1 aprile ERIC DOLPHY QUINTET Outward Bound

24 e 25 maggio CHARLES MINGUS Pre-Bird

27 maggio OLIVER NELSON Screamin’ the Blues

28 giugno KEN McINTYRE Looking Ahead

13 luglio CHARLES MINGUS Mingus At Antibes

16 agosto ERIC DOLPHY Out There

19 agosto LATIN JAZZ QUINTET + ERIC DOLPHY Caribè

20 ottobre CHARLES MINGUS Charles Mingus Presents Charles Mingus

1 novembre ERIC DOLPHY Candid Dolphy (con Abbey Lincoln)

11 novembre CHARLES MINGUS Mingus

19 e 20 dicembre JOHN LEWIS GUNTHER SCHULLER JIM HALL Jazz Abstractions

21 dicembre ERIC DOLPHY with BOOKER LITTLE Far Cry

21 dicembre ORNETTE COLEMAN Free Jazz

 

1961

22 febbraio ABBEY LINCOLN Straight Ahead

23 febbraio OLIVER NELSON The Blues and The Abstract Truth

1 marzo OLIVER NELSON Straight Ahead

17 marzo BOOKER LITTLE Out Front

4 aprile BOOKER LITTLE Out Front

11 aprile TED CURSON Ted Curson Quintet

8 maggio GEORGE RUSSELL SEXTET Ezz-thetics

25 maggio JOHN COLTRANE Olè Coltrane

7 giugno JOHN COLTRANE The Complete Africa/Brass Sessions

20 giugno RON CARTER Where?

27 giugno MAL WALDRON The Quest

16 luglio ERIC DOLPHY At Five Spot

1,3,8 e 9 agosto MAX ROACH Percussion Bitter Sweet

30 agosto ERIC DOLPHY Berlin Concerts

4 settembre ERIC DOLPHY The Complete Uppsala Concert

6 e 8 settembre ERIC DOLPHY In Europe

25 settembre ERIC DOLPHY Stockholm Sessions

1, 2, 3 e 5 novembre JOHN COLTRANE The Complete 1961 Village Vanguard Recordings

11 novembre JOHN COLTRANE QUINTET (Amsterdam)

19 novembre ERIC DOLPHY Berlin Concerts (solo Serene)

19 novembre ERIC DOLPHY Stockholm Sessions

1 dicembre ERIC DOLPHY QUARTET feat. Lalo Schifrin Complete Recordings (Munich)

2 dicembre ERIC DOLPHY Softly, As In A Morning Sunrise (Munich)

 

1962

10 marzo ERIC DOLPHY Vintage Dolphy

Aprile BENNY GOLSON AND HIS ORCHESTRA Pop + Jazz = Swing

5 ottobre JOHN LEWIS Essence

7 ottobre ERIC DOLPHY feat. Herbie Hancock Complete Recordings

12 ottobre CHARLES MINGUS The Complete Town Hall Concert

 

1963

12 gennaio ORCHESTRA U.S.A. diretta da JOHN LEWIS Debut

4 febbraio ORCHESTRA U.S.A. diretta da JOHN LEWIS Debut

27 febbraio ORCHESTRA U.S.A. diretta da JOHN LEWIS Debut

8 marzo FREDDIE HUBBARD The Body & The Soul

10 marzo ERIC DOLPHY The Illinois Concert

11 marzo FREDDIE HUBBARD The Body & The Soul

14 marzo ERIC DOLPHY Vintage Dolphy

18 aprile ERIC DOLPHY Vintage Dolphy

26 aprile TEDDY CHARLES AND THE ALL STARS Russia Goes Jazz – Swinging Themes From….

2 maggio FREDDIE HUBBARD The Body & The Soul

1 e 3 luglio ERIC DOLPHY Iron Man e Conversations

Settembre GIL EVANS The Individualism of Gil Evans

20 settembre CHARLES MINGUS Mingus Mingus Mingus Mingus Mingus

 

1964

25 febbraio ERIC DOLPHY Out to Lunch

18 marzo CHARLES MINGUS SEXTET Cornell 1964

21 marzo ANDREW HILL Point of Departure

4 aprile CHARLES MINGUS The Jazz Workshop Concert 1964-65

6 aprile GIL EVANS The Individualism of Gil Evans

10 aprile CHARLES MINGUS The Jazz Workshop Concerts 1964-65 (Amsterdam)

12 aprile CHARLES MINGUS The Jazz Workshop Concert Oslo

13 aprile CHARLES MINGUS The Jazz Workshop Concert Stockholm

14 aprile CHARLES MINGUS The Jazz Workshop Concert Copenaghen

16 aprile CHARLES MINGUS The Jazz Workshop Concert Bremen

17 aprile CHARLES MINGUS The Jazz Workshop Concert, Salle Wagram, Paris

19 aprile CHARLES MINGUS The Jazz Workshop Concert, Theatre Des Champs-Elysses, Paris

19 aprile CHARLES MINGUS The Jazz Workshop Concert Liege

20 aprile CHARLES MINGUS The Jazz Workshop Concert Marseille

24 aprile CHARLES MINGUS The Jazz Workshop Concert Bologna

26 aprile CHARLES MINGUS The Jazz Workshop Concert Wuppertal

28 aprile CHARLES MINGUS The Jazz Workshop Concert Stuttgart

2 giugno ERIC DOLPHY Last Date (Hilversum)

11 giugno ERIC DOLPHY Last Recordings (Paris)

 


pop


 

 

 

 

 

 

 

giovedì 10 marzo 2022

Gesto, movimento, sensorialità nell'improvvisazione musicale

 


Questo scritto è solo una parte di un mio più lungo articolo pubblicato tempo fa dalla rivista Adolescenza e Psicoanalisi (numero 1 anno XVI maggio 2021 Edizioni Scientifiche Ma.Gi.). Si ricollega direttamente alle riflessioni di un mio precedente post (https://impropop.blogspot.com/2020/01/limprovvisazione-come-costruzione-di.html?m=0). 


Cosa avviene durante un’improvvisazione, come è strutturata e quali sono gli elementi fondamentali di questo processo creativo?

Per Michel Imberty, filosofo, musicologo e psicologo francese, il gesto musicale è al centro della costruzione musicale, è elemento sostanziale (Michel Imberty "Musica e Metamorfosi del Tempo" 2005, p. 99). Cosa s'intende per gesto? Un movimento del corpo che si muove nello spazio e nel tempo, energia dispiegata in una traiettoria temporale orientata, secondo la definizione di Imberty (2005, p. 90). Anzi, il gesto è composto da una serie di movimenti ed ha una motivazione, un agire determinato, momentaneo e inserito in contesti sociali e culturali. Se da un lato abbiamo la determinazione e l'intenzionalità, dall'altro c'è il carattere improvvisato, intuitivo o di reazione del movimento. Per raccordarci immediatamente all'agire improvvisativo, le nostre improvvisazioni sono frutto di gesti intenzionali, ma anche di movimenti di reazione o intuitivi rispetto ad altri gesti musicali. 

Secondo il semiologo francese Jean Molino, il gesto è presente nel cuore della musica ed è prodotto in tre diverse forme: il gesto strumentale, il gesto vocale e il gesto ritmico (in Imberty, 2005, p. 90). Questi tipi di gesti organizzano la forma musicale, la costruzione temporale. La organizzano seguendo due direttive, due ambiti generali. Il primo è quello di costruzioni realizzate a poco a poco, con un flusso continuo punteggiato di rotture, contrasti dinamici e d'intensità, varietà timbriche e sonore. Il secondo è una costruzione di tipo formalizzato in schemi determinati culturalmente e storicamente. Com'è facile intuire, il primo ambito è rapportabile sicuramente alle improvvisazioni libere, mentre il secondo a quelle idiomatiche e alle strutture compositive. Sempre per Molino, dei tre tipi di gesti quello ritmico riveste un ruolo fondamentale (in Imberty, 2005, p. 93). Rapportato all'attività motoria e sensoriale dell'essere umano, al battito vitale, il ritmo, la scansione regolare ordina il tempo e permette ai musicisti e agli ascoltatori di misurarlo e controllarlo. Anche nei momenti più caotici di un'improvvisazione la presenza di una pulsazione ritmica permette all'ascoltatore di afferrarsi all'esperienza sonora, seppur ostica e ai musicisti di avere un quadro temporale definito e stabile che àncora l'improvvisazione ad una traiettoria intenzionale. L'elemento ritmico fornisce, in generale, stabilità e strutturalità, mentre le variazioni producono instabilità. 

Nell'analizzare il gesto musicale nei bambini Imberty nota che il movimento ha la preminenza sulla struttura, l'elemento dinamico su quello sistematico, sintattico. Movimento che non è solo improvvisato, intuitivo o di reazione ma appoggio e perno del gesto intenzionale. Un gesto che ha un inizio, uno svolgimento e una fine. E che si traduce, come elemento fondamentale di ogni tipo di musica, nell'alternanza tensione/distensione (2005, p. 95). Il bambino, in altre parole, costruisce con i suoi gesti una costruzione temporale che si dà forma musicale a poco a poco, prendendo coscienza dei propri gesti e degli effetti che questi gesti producono sul materiale sonoro, organizzando passo dopo passo il tempo. L'elemento dinamico riveste un ruolo fondamentale, in rapporto alla presenza di stabilità, data spesso dalle ripetizioni ritmiche, e dell'instabilità, prodotta dalle variazioni.

Ma queste elaborazioni possono benissimo essere ricondotte all'improvvisazione libera, alla sua costruzione formale che si costruisce nel tempo, gradatamente, con forti elementi dinamici e utilizzando l'alternanza stabilità/instabilità, tensione/distensione. Che l'improvvisazione fosse stata spesso associata ai primi gesti musicali dei bambini non è certo una novità, ma in questo caso abbiamo dei precisi riferimenti analitici che dimostrano la comparazione. 

Tutto questo ha a che fare con la singolarità, nel senso di una gestualità musicale prodotta da una sola unità, in rapporto sensoriale con i suoi gesti, i suoi movimenti e l'ambiente interno ed esterno. Ma cosa succede in presenza di più unità?

La sensorialità è un mezzo usato dal cervello per ricevere informazioni dall'esterno e dall'interno del corpo. Il suo lavoro è caratterizzato dalla presenza di sensazioni e percezioni. La sensazione è una consapevolezza conscia o inconscia delle modificazioni degli ambienti interni ed esterni. La percezione è una consapevolezza cosciente che interpreta le differenti sensazioni. 

Questo doppio canale è in stretto rapporto con le funzioni cognitive, cioè con la conoscenza dell'ambiente esterno e le possibilità di metterlo in relazione al nostro interno, in una continua ricerca di relazioni e connessioni che ci portano a delineare una mappa ambientale, un quadro della realtà per potervi interagire. 

In una improvvisazione libera collettiva l'aspetto sensoriale deve essere al centro del nostro agire, del suonare. Dobbiamo rapidamente delineare una mappa della realtà per poter interagire e interpretare al meglio le continue sollecitazioni che ci vengono fornite e che a nostra volta forniamo. Per fare un parallelismo certamente arduo ma non del tutto fuori luogo, la sensazione delle modificazioni dell'ambiente è in stretto collegamento con i movimenti, la percezione interpretante è sicuramente gestuale, intenzionale. Per interagire ed improvvisare al meglio abbiamo bisogno di attivare contemporaneamente linguaggio (in questo caso musicale), memoria, attenzione, percezione, movimento, in altre parole le funzioni cognitive. 

pop

martedì 8 marzo 2022

Tatti, all'improvviso

 

 


Baffi, baffi lunghi e all’insù. Pizzetto e basette corte, capelli arruffati, leggermente lunghi. Naso aquilino e labbra fini, bocca grande. Si, era più o meno così Tatti, una sorta di D’Artagnan contemporaneo. Camminava a busto eretto, quasi rimbalzando sulle punte dei piedi, con un andamento curioso ma convincente. Di solito non salutava, se tu non lo facevi per primo. E dopo emetteva una sorta di rantolio, una specie di ciao sbiascicato quasi incomprensibile. Qualcuno, ed erano pochi, era omaggiato di un abbraccio con bacio, gesto estremamente raro per un tipo come Tatti. Ma, appunto, raramente accadeva. Poteva trattarsi di qualche sua vecchia amica, o amante, o tutte e due spesso e volentieri.

Ma non poteva dirsi antipatico Tatti, no. Magari a volte scostante, irascibile, ma di base aveva quella bontà che percepisci pur tra mille difficoltà. Ecco, diciamo che non era assolutamente falso, ambiguo: i suoi sentimenti, le sue sensazioni, i suoi pensieri te li buttava in faccia senza alcuna intermediazione, senza alcun filtro.

E certamente non potevi negare la sua abilità, il suo talento musicale. Con il suo sax era in grado di passare da sensazioni pacate, morbide, sinuose, a momenti di rara potenza, di grande energia e irruenza, per poi tornare a rilassarsi, ad ammaliare l’ascoltatore.  Era uno spettacolo vederlo e sentirlo suonare, con quel suo incedere sul palco quasi fosse un filosofo dell’antica Grecia, intento a educare e istruire i suoi discepoli. Purtroppo, quel suo incedere continuo durante i concerti creava qualche problema anche ai musicisti con i quali suonava. Dovevano sempre lasciargli molto spazio e spesso le condizioni non lo permettevano. Oltretutto l’ipotesi di suonare con un leggio era ovviamente sconsigliata. Ma Tatti era il primo a dichiararlo. Diceva: «se volete suonare insieme a me, beh, io non leggo la musica, io suono». Ed era un concetto non del tutto astruso anche se, per chi non conosceva Tatti, dava l’impressione di un suo sentirsi superiore al resto dei musicisti. E forse l’impressione non era del tutto sbagliata, ma quella sua espressione, quella sua idea di suonare senza leggere per lui era sincera, scevra da ogni idea di superiorità.

A dirla tutta c’era anche un’altra motivazione per quel suo rifiuto: effettivamente non era molto abile nel solfeggiare e gli costava enorme fatica la lettura a prima vista di un brano. Quelle poche volte che si trovava a dover leggere uno spartito iniziava a toccarsi i capelli, a sbuffare, a muoversi nervosamente. Chi lo conosceva bene evitava di riprenderlo, di dirgli che stava sbagliando, di cercare di aiutarlo. Sapeva che doveva solo aspettare, aspettare che Tatti prendesse confidenza con la parte assegnatagli, che la digerisse lentamente, che ne prendesse possesso a modo suo. Al massimo gli si poteva appena accennare la linea melodica della sua parte oppure, magari rivolgendosi a qualcun altro del gruppo, solfeggiare quella figurazione particolare che Tatti non riusciva a decifrare. Il più delle volte bisognava aspettare la prova successiva dove, dopo essersi portato a casa lo spartito, tornava sicuro e perfettamente in grado di suonare la sua parte.

 Tatti e la musica erano una cosa sola, unica, inscindibile. Era sempre disponibile, non si tirava mai indietro, e questa sua disponibilità levigava le sue asprezze, i suoi modi spesso bruschi, adirati.  Non faceva differenza se a chiamarlo erano musicisti di gran levatura, famosi e importanti, oppure gruppi o situazioni più dilettantesche, non proprio alla sua altezza. Non passava giorno che non dovesse suonare con qualcuno, che non studiasse o si preparasse per un concerto.

Tuttavia, la sua amabilità, come detto, spesso si scontrava con alcuni atteggiamenti che lo configuravano come uno scostante e presuntuoso, e per questo da evitare. Era contraddittorio, ai limiti della follia. Potevi chiedergli suggerimenti e consigli e lui magari si prodigava nel darteli, rimaneva con te fino a tardi e ti offriva birre e amari in continuazione. Il giorno dopo lo rivedevi e neanche ti salutava. Non sapevi mai quale sarebbe stato il vero Tatti. Il generoso e ciarliero musicista oppure il personaggio altero, scontroso e indisponente. Potevi trovartelo in platea a sentire il tuo concerto e ad applaudire convinto, a sostenerti a gran voce e a complimentarsi con te alla fine della serata. Oppure potevi vederlo alzarsi dopo il primo brano, muovere rumorosamente la sedia ed andarsene con fare disgustato. Ci passavi una sera tranquilla a bere e a parlare di jazz, blues, rock, di musicisti amici e di personaggi famosi. E lui riusciva a trovare parole e giudizi buoni per tutti. Sembrava essere in pace con il mondo, distante e illuminato come fosse un Buddha. Beh, il giorno dopo potevi trovarlo demoniaco, scuro e curvo in un silenzio carico di odio. E ce n’era per tutti, amici e parenti, musicisti e pubblico e locali.

Così alla fine eravamo in pochi ad apprezzarlo veramente per quello che era, e cioè un gran musicista con degli aspetti caratteriali alquanto bizzarri. E avevamo imparato a contenerlo e a rapportarci a lui a seconda dei suoi stati d’animo. Ovviamente tutto andava bene nei momenti dove c’era il Tatti solare e illuminato. Quando si presentava la sua versione scura, come un alter ego, allora si mettevano in atto una serie di accorgimenti. Il primo era quello di eclissarsi, con estrema attenzione e gradualità ci si allontanava adducendo improvvisi impegni o cattivo stato di salute, mal di testa o febbre. Il secondo era quello di stringere una specie di cordone sanitario intorno a Tatti, fatto di discorsi e discussioni che si allontanavano dall’argomento musicale cercando di interpellarlo il meno possibile, magari sperando in un suo repentino cambio d’umore, che effettivamente talvolta poteva succedere. Questa seconda opzione spesso veniva attuata quando si era in presenza di persone che conoscevano poco Tatti, e quindi si tentava di evitare bruschi litigi o cattive figure. L’ultima opzione era quella di farlo bere o fumare cercando in questo modo di obnubilarlo e renderlo inoffensivo. Ma era una soluzione che, francamente, non era di grande spessore umano e ne ricorrevamo in rarissime occasioni.

Una sera ci si era dati appuntamento nel locale dove eravamo solito vederci e suonare, ascoltare concerti o semplicemente farci due chiacchiere a fine prove. Eravamo intorno alla classica birra e, quasi di soppiatto, con quel suo incedere molleggiato, armonioso e mosso, apparve Tatti. Aveva uno strano sorriso, quasi inquietante e anomalo, come fosse fuori posto sul suo viso. Lo salutammo calorosamente perché effettivamente era un po’ di tempo che non ci si vedeva. Stava suonando con un nuovo gruppo, giovani musicisti che però promettevano bene e, soprattutto, avevano diversi contatti in giro per l’Italia e per questo erano riusciti a inanellare una lunga serie di date.  

Gli offrimmo una birra ma lui rilanciò offrendoci a tutti un amaro. Insistemmo un po’ nel rifiutare, ma alla fine accettammo. Con i bicchierini in mano, pronti a sorseggiare, Tatti ci fermò e disse che voleva brindare. Ovviamente chiedemmo per quale motivo, ricorrenza, occasione. Allora quel suo sorriso estraneo si sciolse in un viso colmo di gioia, con gli occhi luccicanti e le guance distese, rilassate.

Era stato invitato a suonare con uno degli ultimi grandi musicisti di jazz che stava per arrivare in tour in Italia, a partire proprio dalla nostra città. Un grande trombettista afroamericano che era ancora attivo e, anzi, sembrava aver trovato una seconda giovinezza, con nuovi dischi e tour mondiali. Di solito, per alcuni concerti in città importanti, invitava a suonare con il suo gruppo qualche musicista locale, non di quelli già famosi, così da instaurare anche un rapporto amichevole con le scene musicali e, aspetto non secondario, attirare ancora più pubblico.

E questa volta la scelta era caduta su Tatti. E, detto tra noi, non poteva essere altrimenti. Era lui l’unico in grado di condividere il palco con una leggenda del jazz americano, ed era solo lui che non avrebbe certo sfigurato in un live del genere.

Così, per settimane, non si parlò d’altro. Le circostanze per le quali avvenne questa chiamata furono dibattute, argomentate, ingigantite e travisate. C’è chi diceva che il trombettista già da tempo conosceva Tatti per averlo ascoltato su alcuni dischi. Chi raccontava di un furtivo incontro a Londra dove Tatti suonava in piccolo locale. Chi semplicemente diceva che alla richiesta al suo manager di segnalargli un musicista bravo e promettente questi gli avesse segnalato per l’appunto Tatti, che era amico di alcuni suoi conoscenti. Insomma, voci che si rincorrevano spesso senza alcun fondamento, il tutto alimentato dall’alone di mistero che Tatti si procurò di alimentare intorno alla vicenda.

Alle nostre insistenti domande su come fosse avvenuto il contatto, in che ambito, se avesse già parlato con lui o con il suo manager, Tatti rimaneva evasivo, spesso cambiava versione, si contraddiceva, salvo poi concludere che c’era poco da dire su questa vicenda. L’importante sarebbe stato il concerto, non le modalità organizzative. Cosa, peraltro, vera e incontestabile.

E finalmente arrivò il grande giorno. Il concerto era ovviamente previsto per la sera ma Tatti era stato convocato al locale nel primo pomeriggio per una prova e relativo soundcheck. Fino ad allora le discussioni intorno all’evento vertevano per lo più sulle modalità dell’incontro, sui pettegolezzi, sugli sviluppi futuri. Sembrava che il fattore musicale vero e proprio fosse un accessorio, una sorta di appendice, tutto sommato scontata e priva di interesse. In effetti era il solo Tatti che più volte aveva posto l’accento sulla musica che sarebbe uscita da quel concerto, sulle emozioni e sensazioni che quell’incontro avrebbe sprigionato.

Il trombettista afroamericano era un personaggio abbastanza particolare. Amava stupire di continuo i suoi ascoltatori e da quando era rientrato in scena, circa quattro anni prima, aveva prodotto una serie di dischi uno differente dall’altro. Tra scrittura elaborata e libera improvvisazione non sapevi mai cosa aspettarti dalla sua musica, anche se la qualità era alta in ogni caso. Il suo ultimo prodotto discografico era uscito da qualche mese ed era ricco di ospiti che contribuivano a spiazzare l’ascoltatore di brano in brano. Era come se avesse voluto concentrare in 50 minuti, tale era la durata del cd, tutte le sue esperienze precedenti. Si andava da un brano orchestrale a brevi momenti in solo, duo improvvisati e atmosfere hard bop con il suo quartetto.

Il giorno del concerto, finalmente, si manifestò con tutta la sua potenza e invasività la domanda che molti di noi avevano evitato fino ad allora: che musica avrebbero suonato il trombettista e Tatti? Avrebbero improvvisato liberamente, come era nei nostri propositi e come tutti, in fin dei conti immaginavano e speravano, oppure avrebbero suonato brani originali, o magari qualche standard, o arrangiamenti elaborati appositamente per quel concerto? Qualcuno di noi provò ad inviare un messaggio a Tatti per sapere come era andata la prova e il soundcheck, se era tutto ok, ma non ricevette alcuna risposta. Non restava che attendere la sera e l’inizio del concerto per soddisfare la nostra curiosità e le nostre aspettative.

E la sera arrivò, placida e leggera, con quel suo incedere ammaliante, avvolgente e allo stesso tempo dolorante, di un sapore agrodolce. C’era la fila fuori dal locale, e non si faceva in tempo a salutare un amico che immediatamente ne sbucava un altro, e poi un altro ancora. Sembrava quasi di conoscerci tutti ma, effettivamente, era una di quelle sere dove avresti potuto incontrare chiunque, anche i tuoi vicini di casa o il tuo vecchio insegnante al liceo.

Ci affrettammo a prendere posto proprio davanti al palco, e nel frattempo cercavamo con lo sguardo di intravedere la sagoma di Tatti, dietro al palco o in giro per la sala, in uscita dai camerini. Ma nulla, neanche l’ombra. C’erano tutti i suoi amici e le sue amiche, c’era tutto il suo pubblico e c’era la folla delle grandi occasioni. Ma lui sembrava essersi dissolto, svanito nei meandri della città. Provammo al bancone del bar, nelle toilette, fuori nel cortile di lato al locale. E poi iniziammo a chiamarlo al cellulare, a tempestarlo di messaggi e WhatsApp. Ma non c’era risposta. Per un attimo iniziammo a temere qualcosa di grave, una sua improvvisa defezione dovuta a malore o a qualsiasi altro problema. Una lite improvvisa con il manager, con qualcuno del gruppo, con lo stesso trombettista. Da Tatti potevi aspettarti qualsiasi cosa, effettivamente, ma sapevamo che non avrebbe mai potuto perdersi un’occasione come quella.

Finalmente, dopo lunga attesa, uscirono sul palco il trombettista con il suo gruppo, pianoforte contrabbasso e batteria. Di Tatti nessuna traccia. Ma sapevamo le modalità organizzative di quel tipo di concerto: una mezz’ora il gruppo e poi il resto del concerto con l’ospite.

La musica fu subito entusiasmante, così calda e avvolgente da penetrare all’interno delle superfici cutanee e risalire su per tutto il corpo, alimentare il battito del cuore e aprire universi velati all’interno delle menti. Era effettivamente in gran forma il trombettista, e con lui tutto il gruppo. Alternavano composizioni a lunghe suite improvvisate, assoli infuocati e placidi momenti meditativi, minimalisti. Tuttavia, nei nostri pensieri, pur completamente obnubilati dall’ondata di musica che si riversava su di noi, in un angolo nascosto ma pur sempre attivo si celava l’attesa per l’arrivo di Tatti. Non avevamo dubbi che sarebbe uscito, c’era lo spazio per un altro musicista con relativa cassa spia sul palco.

Dopo circa una quarantina di minuti il trombettista prese il microfono e, con grande enfasi, invitò sul palco Tatti. Eravamo eccitatissimi e rispondemmo all’incitazione con un grido di gioia incommensurabile e liberatorio. L’attesa, la lunga attesa era finalmente terminata e tutti avrebbero goduto del trionfo di Tatti, non avevamo dubbi.

Passarono circa trenta, quaranta secondi e Tatti non usciva. Il trombettista era rivolto verso i camerini e con lui il resto del gruppo, in un’attesa nervosa, stizzita. Noi eravamo passati dal massimo dell’eccitazione all’angoscia per qualcosa che non riuscivamo a spiegarci, a comprendere. Iniziammo a battere le mani, a chiamarlo per nome e finalmente, dopo più di un minuto di attesa lui uscì.

Non facemmo in tempo a gioire e rallegrarci per la sua entrata perché subito, contestualmente al suo apparire sul palco notammo che aveva con sé un leggio, il sax a tracolla e nell’altra mano degli spartiti.

Fu come una pugnalata sul petto, come una scossa elettrica che ci passò da capo a piedi. Solo pochi di noi sapevano del suo difficile rapporto con la musica scritta, e solo noi potevamo intuire le enormi difficoltà che Tatti aveva incontrato il pomeriggio durante le prove, e l’ansia e la tensione che si apprestava a vivere durante quel concerto. La nostra unica speranza era nella facilità della musica scritta, speranzosi di una certa comprensione da parte del trombettista americano per gli ospiti che si trovavano a dover leggere e suonare le sue parti in così poco tempo.

Tatti prese posizione alla destra del palco, proprio di fronte al contrabbassista, e molto vicino al trombettista che ovviamente, come tutto il suo gruppo, non aveva né spartiti né leggii. Posò il leggio davanti a sé, mise sopra gli spartiti, levò il copri bocchino e bagnò leggermente l’ancia. Era molto teso, ma allo stesso tempo sembrava fosse assente, lontano da quel palco, da quei musicisti, da quella folla che lo aspettava. Provammo a salutarlo, a farci vedere, ma il suo sguardo andava oltre la platea, lontano oltre le porte del locale, del parcheggio e della via, sopra i palazzi e tra le nuvole, in alto nel cielo, oltre la luna e più su ancora, immerso nella galassia.

Iniziarono a suonare. Un’improvvisazione molto probabilmente libera, ma con dei riferimenti tematici, quieta e riflessiva. Il sax di Tatti dialogava alla meraviglia con la tromba, e il piano accompagnava i due fiati con discrezione, quasi in punta di piedi. Poi partì la batteria con un tempo velocissimo, seguita subito da contrabbasso e pianoforte. A quel punto il trombettista iniziò a suonare un tema abbastanza articolato al quale Tatti rispondeva con brevi frasi. Il tema si ripeteva più volte, spostandosi d’accento e divenendo ancora più complesso. Iniziammo a vedere Tatti un po’ difficoltà, curvo sul leggio, come se tentasse di pararsi dai fendenti di un pugile. E le frasi iniziarono a farsi smozzicate, incerte, deboli, fuori tempo fino a che Tatti smise di suonare e alzò lo sguardo oltre la terra, laggiù nel cosmo dove solo lui poteva esserci.

Il trombettista lo guardò di soppiatto ma continuò a suonare e con lui il resto del gruppo. Tatti rimase immobile senza suonare per quasi cinque minuti che a noi sembrarono ore, giorni, mesi. Era là con il suo sax e fisso osservava un punto lontano nell’infinito, senza luce nei suoi occhi, totalmente impermeabile a ciò che gli accadeva intorno. Il brano finì e ci fu un applauso timido, quasi preoccupato. Tutti avevano compreso la difficile situazione che si era creata sul palco, ma altresì tutti erano speranzosi per il prosieguo del concerto.

Il trombettista fece cenno a Tatti di iniziare. Spostò il primo spartito, ne prese uno dietro e lo mise davanti a sé. Lo osservò sempre con quel suo sguardo assente, liquido, debole. Iniziò a suonare da solo ma immediatamente il trombettista lo fermò. «Again», disse con una voce metallica. Tatti ricominciò ma lui lo fermò di nuovo. «Sorry», disse rivolto al pubblico. «Once again, please». E Tatti allora lo guardò con un fare interrogativo, quasi a dire perché, cosa vuoi. Tatti spostò leggermente lo spartito e lo mise più al centro del leggio. Lo guardò attentamente e riprese a suonare. Ma per l’ennesima volta il trombettista lo fermò e si avvicinò a lui. Tatti si spostò leggermente e il trombettista iniziò a suonare lo spartito di Tatti. Finito di suonare guardò Tatti con occhi accesi e un sorriso di compassione, invitandolo a suonare correttamente, come lui aveva fatto, ciò che era scritto sulla parte.

Eravamo increduli e allo stesso tempo oppressi da una sofferenza indicibile, un’angoscia che trafiggeva i nostri cuori, lacrime represse che irroravano tutto il nostro corpo. Avremmo voluto andarcene via, oppure che il concerto terminasse immediatamente, o che Tatti iniziasse ad improvvisare coinvolgendo il trombettista ed il suo gruppo per poi concludere un concerto di quelli che si ricordano per tutta la vita.

Ma la realtà, scura e tetra, continuò a colpirci con furore e spietatezza. Il trombettista era là, con la sua tromba in mano in attesa che Tatti suonasse, che Tatti facesse il suo ennesimo tentativo pronto a correggerlo nuovamente, di questo eravamo certi. E Tatti prese di nuovo il sax e avvicinò il bocchino alle labbra. C’era del sudore sulla fronte e gli occhi erano lucidi. Poi, ad un tratto, notai una leggera increspatura sulla sua bocca, quel suo strano sorriso che talvolta inquietava. I suoi occhi presero luce, si illuminarono intensamente, spargendo di fronte a sé dardi velenosi. E nel momento stesso in cui compresi ciò che stava per accadere, senza neanche avere il tempo di allarmarmi o di urlare qualcosa, Tatti prese il sax con tutte e due le mani e colpì con forza il viso del trombettista, che cadde tramortito sul palco. Ci fu un silenzio innaturale, e Tatti era già sul corpo del musicista e continuava a colpirlo con i pugni sul volto. A quel punto gli altri del gruppo si lanciarono su di lui, seguiti immediatamente da altre persone dell’organizzazione. E anche noi salimmo sul palco cercando di difendere Tatti. Fu una rissa clamorosa, con pugni che volavano da tutte le parti e il sax di Tatti che colpiva a ripetizione chiunque provasse ad aggredirlo. Si sentì il suono delle sirene e l’avvicinarsi di macchine, le urla del pubblico e dei contendenti, il fumo e la polvere, la batteria che rotolava sul palco e il legno del contrabbasso orrendamente squarciato. Nel caos generale riuscii ad intravedere Tatti con il suo sax fuggire via da una porta laterale mentre al mio fianco, sdraiato e immobile, il trombettista con il volto coperto di sangue.

Di Tatti si persero completamente le tracce. Non lo vedemmo più e le rarissime notizie che circolavano ogni tanto su di lui lo davano a Berlino o addirittura in Islanda. Qualcuno sosteneva che aveva abbandonato la musica ed era diventato un insegnante di yoga, qualcun’ altro aveva sentito di un suo concerto in solo a Edimburgo. Il trombettista dovette interrompere la sua attività per molti mesi ma alla fine tornò a suonare e ad incidere dischi.

A noi rimase il ricordo dei suoni del suo sax e per molti anni a venire la possibilità di raccontare una storia, una di quelle incredibili, assurde, straordinarie. «C’era molta tensione sul palco, e allora Tatti, all’improvviso…».


pop

 

 

 

 



Recensioni. Kevin Ayers and The Whole World "Shooting at the Moon"

  Kevin Ayers And The Whole World SHOOTING AT THE MOON Harvest 1970 Il secondo album solista di Kevin Ayers vede al suo fianco, al co...