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giovedì 27 febbraio 2020

Radio Gnome Invisible. La Trilogia del Pianeta Gong. Parte 2

Flying Teapot


Registrato dal 2 al 14 gennaio 1973, missaggio effettuato dal 26 febbraio e pubblicato dalla Virgin il 25 maggio (ma per precedenti accordi del gruppo con la BYG di Karakos il disco è edito a doppia etichetta BYG/Virgin), Flying Teapot si apre  con Radio Gnome Invisible, tipico brano a firma Allen, ricco di cromatismi, bizzarre melodie, orientalismi, sassofono decorativo e soffi e gorgheggi stralunati. Da questo punto di vista non troppo lontano da You Can’t Kill Me, brano di apertura del precedente Camembert Electrique. A predominare sono ancora, e lo saranno per gran parte del lavoro, basso, batteria, chitarra, sassofono e voce. Ma il secondo brano invece, Flying Teapot, a firma Allen e Moze, mostra decisi cambiamenti e illumina un percorso che verrà ancor più sviluppato nei  due successivi lavori della trilogia. Si tratta di una tipica fuga strumentale gonghiana, che inizia dalle parti di Echoes dei Pink Floyd di Meddle e poi si sviluppa lungo un classico riff di basso un po’ alla Hugh Hopper, dove si aggiungono i suoni del synth a dare spazialità e evocazione, inserti jazzati di Malherbe e cantilene alleniane, improvvisazioni e strappate alla Zappa, percussionismo alla Art Ensemble Of Chicago. Uno dei capolavori del pianeta Gong, che giustamente sarà parte significativa della loro architettura sonora e del loro repertorio live.


La seconda facciata si apre con The Pot Head Pixies, anche qui passaggi cromatici, basso batteria e chitarra energici e sostenuti dalle decorazioni del sassofono, solito campionario zappiano, un po’ di Captain Beefheart. Non lontani da Camembert Electrique, in questo denotando una certa difficoltà nel passare alle nuove sonorità, anche nell’integrare meglio gli ultimi arrivati come Hillage e Tim Blake, ovviamente ancora troppo nuovi per poter essersi inseriti pienamente.

Il secondo brano, The Octave Doctors & The Crystal Machine, è interamente suonato dal VCS3 di Blake, una sorta di brano ambient non lontano da certe atmosfere del Third dei Soft Machine.
Con Zero The Hero And The Witch’s Spell torniamo alle fughe strumentali, alla psichedelia dilatata, alla piena integrazione e sviluppo dei brani di Allen con le elaborazioni e gli inserimenti strumentali che trasportano l’ascoltatore in dimensioni differenti, tra etnicismi e soffi spaziali, improvvisazioni alternate a inserti cantati e sussurrati, pastiche e ipnotismi, riff e ostinati, assoli e caos organizzati. Da notare la forte somiglianza della parte inziale con Welcome To The Machine dei Pink Floyd di Wish You Were Here, pubblicato due anni dopo.
Il finale, Witch’s Song, I’m Your Pussy, a firma Smyth e Allen è affidato al canto sinuoso e improvvisamente delirante di Gilli che riporta le sonorità ai primi tempi del duo Gong, tra Barrett e Beefheart, accompagnati dal fido Malherbe.


Il primo atto della trilogia si conclude quindi con un lavoro in parte ancora acerbo, diviso com’è tra la vecchia formula tutta bizzarria e nonsense del primo periodo e l’evoluzione verso fughe strumentali e dilatazioni cosmiche già in parte definite. La parte testuale, che in questo caso, come anche nei precedenti lavori, riveste un ruolo importante la analizzeremo successivamente, cercando di definire in modo unitario la/le storia/storie del pianeta Gong attraverso l’intera trilogia.

Come abbiamo visto, le registrazioni di Flying Teapot hanno portato all’implosione del gruppo. Bob Bènamou, il loro manager, dopo tre anni al servizio della band e una grossa quantità di tempo e soldi spesi per lanciare il gruppo, decide di lasciare. Moze, Tritsch, Allan, Houari abbandonano i Gong, e persino Daevid e Gilli decidono di prendersi una delle loro ricorrenti pause tornandosene alle Baleari e occupandosi solo del missaggio del disco. 
A questo punto, di concerto con Gomelski, Didier Malherbe si incarica di continuare l’attività del gruppo sotto un nuovo nome, ParaGong, e di amalgamare i nuovi arrivati Blake e Hillage. Per una serie di circostanze particolari, amici comuni e voglia di mettersi alla prova con un gruppo rock, Pierre Moerlen diventa  il nuovo batterista. Percussionista, vibrafonista, batterista e compositore, Moerlen ha studiato al conservatorio di Strasburgo e ha fatto parte dell’ensemble Les Percussions Des Strasbourg, collaborando inoltre con piccoli gruppi di jazz rock come Hasm Congelateur in compagnia del futuro chitarrista dei Magma Gabriel Federow
All’inizio alquanto indeciso se intraprendere una carriera da percussionista classico o dare seguito alla sua passione per il rock, Moerlen, nonostante la crisi nella quale si dibatte il gruppo, accetta l’invito di partecipare a questo esperimento chiamato ParaGong, in compagnia di Malherbe, Blake, Hillage e del nuovo bassista Didier Thibault, ex Moving Gelatine Plates, gruppo alla Soft Machine, suggerito da Gomelski come sostituto di Francis Moze.


L’attività dei Paragong, fino a fine aprile, sarà inaspettatamente fondamentale per il futuro dei Gong. Lontani dai tormenti creativi di Allen e Smyth, e finalmente stabilizzatisi con una formazione di assoluto valore, i cinque musicisti avranno tutto il tempo di perfezionare la loro intesa, provare i nuovi brani e affinare i live. 
Per Tim Blake in realtà l’esperienza non fu così positiva, con difficoltà a suonare il repertorio dei due dischi sin lì registrati, Camembert Electrique e Flying Teapot, e la mancanza di tempo per comporre nuovi brani. Ma in realtà questa parentesi effettivamente contribuì a costruire in modo definitivo il gruppo Gong e la sua  nuova architettura sonora che poi sarà quella classica al quale sia i fans che i musicisti stessi  faranno riferimento. Resta ancora il tempo per un ulteriore cambio di formazione, con l’arrivo al posto di Thibault, del bassista Mike Howlett, ascoltato a Londra da Allen, e scelto proprio dall’australiano per sostituire Didier Thibault. All’inizio il background funky rock del nuovo bassista si scontra con l’impostazione classica e precisa di Moerlen,  “ma alla fine siamo riusciti a trovare un buon equilibrio tra cuore e cervello, tra emozione e tecnica”, dirà poi Mike.

All’inizio di maggio Daevid e Gilli tornano dalle Baleari e trovano un gruppo ben affiatato, con un suono preciso e anche una serie di nuove idee. Nei concerti live di ParaGong la scaletta era formata da alcune vecchie composizioni, per esempio Why Are We Sleeping di Kevin Ayers o una rielaborazione di Fohat Digs Holes In Space, da Camembert Electrique, ma anche da nuovi brani che poi, con i contributi di Allen e Smyth, faranno parte del secondo lavoro della trilogia: I Never Glid Before, Sold To The Highest Buddha, The Other Side Of The Sky. Secondo Tim Blake a questa lista andrebbero aggiunti anche Inner Temple/Outer Temple e Oily Way. Un bel cd uscito per la GAS nel 1995 testimonia questo breve ma importante periodo dell’attività di ParaGong, Live 73.


Da maggio agli inizi di agosto la nuova formazione a sette dei Gong è impegnata nel tour promozionale di Flying Teapot, con concerti memorabili, brevi set organizzati dall’etichetta Virgin e live divisi a metà con il gruppo tedesco Faust. Dal 3 al 16 agosto presso il Pavillon du Hay, a Voisinesin Francia, la residenza collettiva dei Gong, grazie al Mobile Manor, il nuovissimo studio mobile della Virgin, vengono effettuate le sessioni di registrazione per il nuovo disco.  Mike Howlett, il nuovo bassista, racconta che venne registrata la sezione ritmica, cioè lui, Hillage e Moerlen, al piano terra, nella sala prove, Daevid Allen era invece nel piano di sopra, la sala meditazione, mentre Gilli, Malherbe e Tim Blake erano collocati in diversi punti della foresta circostante. 

Prima session dello studio Mobile Manor e tra i primi lavori in Europa ad essere registrati con un 24 piste, la registrazione fu condotta questa volta con assoluta efficacia da Simon Heyworth, coadiuvato da Daevid Allen. Su disco viene accreditato in qualità di produttore Giorgio Gomelski, ma secondo Mike quest’ultimo si presentò solo durante il missaggio, iniziato il 18 settembre 1973 al Manor. In realtà i produttori furono effettivamente Simon e Daevid, come confermò successivamente lo stesso Gomelski: “il rapporto molto efficace tra Simon e Daevid mi spinse a lasciare la produzione nelle mani di Simon”.

pop

martedì 25 febbraio 2020

Radio Gnome Invisible. La Trilogia del Pianeta Gong. Parte 1

Questa è la prima parte del lungo articolo che la rivista Prog Italia Magazine ha pubblicato nel numero 26, corredato di bellissime foto e di una pagina, non presente su questo blog, che annunciava l'uscita dello splendido cofanetto Love From Planet Gong: The Virgin Years 1973-1975, curato da Steve Hillage e comprendente ben 13 cd e un libretto di 63 pagine. Potete immaginare che solo questo cofanetto esiga un ampio e articolato commento a parte, che prima o poi farò. Nel frattempo qui sono raccontate le vicende e le musiche dei Gong nel loro momento migliore: gli anni della creazione della splendida trilogia, Radio Gnome Invisible,  e di un immaginario musicale fantastico, affascinante e coinvolgente.


Radio Gnome Invisible

Nell’agosto del 1967 i Soft Machine, reduci da una serie di concerti in Costa Azzurra, decidono di posticipare un loro già programmato concerto ad Amsterdam e continuare per alcuni giorni la loro permanenza in Francia. Il 24 dello stesso mese si recano al porto di Dover per fare finalmente rientro in Gran Bretagna e lì la polizia doganale, dopo controlli approfonditi, scopre che Daevid Allen ha il permesso  per risiedere e lavorare in Inghilterra scaduto. Il resto del gruppo parte mentre Allen non può far altro che rimanere in Francia e dirigersi verso Parigi, dove verrà poi raggiunto da Gilli Smyth.


Questo banale imprevisto, con un pesante intervento del fato che a Daevid sicuramente non sarà passato inosservato, in realtà ha determinato in modo significativo le vicende musicali di due fra i più importanti gruppi della storia del rock: Soft Machine e Gong. E’ proprio grazie all’impossibilità di tornare in Gran Bretagna che Daevid Allen si stabilisce a Parigi e, tra le innumerevoli attività che intraprende e i tanti avvenimenti, non ultimo il ’68 francese, che lo vedono protagonista, con insolita preveggenza mette in piedi quello che all’inizio altro non era che un collettivo dal nome Gong.

Mentre i Soft Machine continuano in trio e vanno in tour negli USA di spalla a Jimi Hendrix, Daevid Allen, insieme a Gilli Smyth, sembra barcollare tra progetti più o meno stabili, concerti importanti come quello di Stoccolma con Don Cherry, rimpatriate con Kevin Ayers e i Softs, collaborazioni saltuarie e serate soliste nei bar della Rive Gauche. In realtà la sigla Gong comincia subito a circolare negli ambienti parigini, all’inizio solo come duo con Gilli, poi radunando intorno a sé altri musicisti, “about eight of the maddest musicians imaginable” come dirà poi Daevid e incontrando immediatamente i favori del pubblico e della critica. Accanto alla sigla Gong Allen organizza ( non propriamente la parola più adatta per un tipo come l’australiano) un altro ensemble, Bananamoon, che registrerà del materiale poi pubblicato solo nel 1993.

Intorno al 1969 il progetto Gong inizia a stabilizzarsi con l’arrivo del sassofonista e flautista Didier Malherbe, il chitarrista e bassista Christian Tritsch e il batterista Rachid Houari,  questi ultimi due entrambi insoddisfatti delle loro carriere al fianco di star francesi come Johnny Hallyday e Claude Francois. Questo nucleo, escluso Tritsch,  registra il primo disco dei Gong, Magick Brother, anche se effettivamente il lavoro è intestato a Daevid Allen e Gilli Smyth. Come dirà Didier Malherbe, “era un album di Daevid, delle sue canzoni, non proprio un album dei Gong”.  


Insieme ad Allen, Smyth, Malherbe e Houari ci sono una serie di ospiti come Barre Philips al contrabbasso e Earl Freeman sempre al contrabbasso e al piano, entrambi esponenti dell’area free jazz, musicisti abituati all’improvvisazione sia libera che più propriamente jazzistica e con collaborazioni di tutto rilievo come Archie Shepp per quanto riguarda Freeman. Il disco esce per la BYG di Jean Karakos, etichetta che pubblicherà anche i lavori, tra gli altri,  dell’ Art Ensemble Of Chicago, Sun Ra, Steve Lacy

Il lavoro è una sorta di pastiche psichedelico, dalle parti di Syd Barrett e Kevin Ayers,  folk e pop dalla strumentazione scarna, filastrocche, scherzi musicali e prodromi futuri del pianeta Gong, soprattutto verso la fine del disco.
Decisamente più significativo è il successivo Camembert Electrique, vero e proprio primo lavoro del gruppo Gong. La formazione, rispetto a Magick Brother, vede al posto di Richard Houari Pip Pyle, batterista che sarà fondamentale per la scena di Canterbury (Hatfield And The North e National Health), presentato ad Allen da Robert Wyatt, Christian Tritsch al basso e il nucleo fondamentale dei Gong, Daevid Allen alla voce e alla sua glissando guitar, Gilli Smyth al soffio spaziale e Didier Malherbe ai fiati.


Pubblicato all’inizio solo in Francia sempre dalla BYG nel 1971, Camembert Electrique è disco compiuto, ben suonato, con dei brani che faranno parte del classico repertorio live del gruppo e intriso di glissandi, soffi, stranezze zappiane e un’incredibile energia. L’estetica gonghiana inizia a prendere forma, con passaggi psichedelici uniti a loop e bizzarrie cosmiche. Anche per quanto riguarda i testi iniziano ad emergere gli elementi portanti che saranno poi definitivamente sviluppati nella trilogia. 
Ultima annotazione: il 1971 vede anche la pubblicazione del disco solista di Daevid Allen, Banana Moon, con Robert Wyatt alla batteria, e altri strani progetti che vedono coinvolti i Gong, dalla colonna sonora per un documentario su due campioni di motociclismo, Giacomo Agostini e il suo rivale francese Jack Findlay, alla collaborazione con il regista cinematografico Martial Raysse per il suo film Le Grand Depart.


Ed arriviamo finalmente alla nostra trilogia.
Dopo la pubblicazione di Camembert Electrique i Gong intraprendono una serie di concerti, coadiuvati in questo dal  loro manager Bob Bènamou e dalla super visione di Giorgio Gomelsky, figura centrale dell’underground inglese. 
Ma Allen non è certo tipo da normale carriera musicale e quindi, tra continui cambiamenti di formazione e difficoltà gestionali, a metà agosto 1972 decide di interrompere brevemente l’avventura Gong per concentrarsi sulla vita familiare e sulla poesia. Bènamou cerca di persuadere Allen nel continuare, anche con nuovi musicisti e con un progetto suggeritogli da Gomelsky, una trilogia che lo stesso Gomelsky già aveva proposto al gruppo rock progressive francese Magma. Allen è incuriosito e ben disposto, decide quindi di iniziare a lavorare su questa proposta durante il suo soggiorno estivo a Deja (Isole Baleari), usuale ritrovo hippie frequentato anche da Wyatt, Ayers e altri musicisti. 
A settembre Daevid si reca in Inghilterra a visitare il nuovo studio di registrazione della neonata casa discografica Virgin di Richard Branson, il Manor , allestito in un maniero a nord di Oxford. 


Qui iniziano anche le audizioni per cercare una nuova sezione ritmica per il gruppo, che aveva visto avvicendarsi alla batteria Pip Pyle, Laurie AllanMac Poole (ex Warhorse) e Charles Hayward (ex Quiet Sun). La scelta cade su Rob Tait, ex batterista di Pete Brown, con la sua compagna Diane Stewart-Bond alla voce e alle percussioni. 
Per il ruolo di bassista Wyatt, presente alle audizioni, suggerisce l’ex Matching Mole Bill MacCormick, il quale dopo pochi giorni in Francia decide di lasciare. A quel punto Gomelski, in qualità di produttore del nuovo lavoro dei Gong, propone ad Allen Francis Moze, bassista del gruppo progressive francese Magma, con il quale avevano in passato diviso il palco. 
Per Gomelski il problema principale del gruppo era proprio la sezione ritmica, spesso instabile e non in grado di far decollare in modo significativo le composizioni di Allen. La sicurezza e la precisione di Moze avrebbero dato una base stabile e compatta al nuovo lavoro dei Gong.


Allen da parte sua decide di includere nel progetto Tim Blake, in passato roadie e collaboratore del gruppo, che si stava specializzando nell’uso del sintetizzatore. Aveva partecipato ad alcune performance del gruppo Musica Elettronica Viva e poi aveva sviluppato un suo progetto solista, Crystal Machine, proprio intorno all’utilizzo del synth. 
Inoltre nel dicembre del 1972 i Gong si recano a Fontainebleu a vedere il concerto del loro amico Kevin Ayers e del suo gruppo Decadence, nelle fila del quale è presente un chitarrista che Malherbe con Allen decideranno immediatamente di coinvolgere nelle registrazioni del nuovo disco: Steve Hillage.
Prima delle sedute di registrazione ancora una volta la sezione ritmica subisce l’ennesimo cambio, con l’abbandono di Tait e il ritorno di Laurie Allan alla batteria e Rachid Houari alle percussioni.
Le registrazioni avvengo in un clima difficile, teso, con Francis Moze che cerca di imporsi come direttore musicale del gruppo e il rapporto tra Tritsch e Allen sulla via della rottura, che poi effettivamente avverrà. 
Inoltre il tecnico del suono Simon Heyworth è in evidente difficoltà nel padroneggiare le attrezzature del nuovo studio e questo aumenta le tensioni e il nervosismo, con dimissioni e abbandoni a catena: il manager Bob Bènamou, Christian Tritsch, Francis Moze, Laurie Allan, Rachid Houari, e alla fine persino Daevid e Gilli. Ad aggiungere un elemento ancor più bizzarro c’è anche la cacciata dallo studio di un certo Mike Oldfield che era lì per registrare Tubolar Bells ma in quel momento i Gong avevano la precedenza in quanto clienti “paganti”!


Fin qui le vicende, per così dire di cronaca, che portano al primo lavoro della trilogia Radio Gnome Invisible, Flying Teapot. Soffermiamoci un attimo sulla composizione del gruppo e sul deciso, anche se non pienamente definito, cambio di estetica musicale che avviene con le registrazioni di questo nuovo lavoro.
Il primo nucleo dei Gong è caratterizzato musicalmente da tre elementi.
Le composizioni alquanto originali di Allen, ricche di cromatismi e nonsense musicali e testuali, figlie della psichedelia anni ’60 così come della sperimentazione, vicine a Zappa e Beefheart, il tutto colorato dalla sua glissando guitar, mutuata da Syd Barrett.
Il sassofono e il flauto di Didier Malherbe, non propriamente un jazzista ma un estimatore delle sonorità etniche, abile nel tematizzare e ricamare le strambe melodie di Allen.
Il soffio spaziale di Gilli Smyth, che fluttua attraverso le note dei Gong e ne definisce una sonorità eterea, cosmica.  
Il nuovo corso gonghiano, che possiamo già ascoltare in grossa parte su Flying Teapot, presenta alcune consistenti novità: innanzitutto il suono del synth VCS3 di Tim Blake che dà profondità, rafforza la componente spaziale (lo space rock tante volte evocato proprio per definire la musica dei Gong) e ammanta di fascino e mistero la musica del gruppo, in questo ricollegandosi in parte, e lo vedremo in dettaglio, ai Pink Floyd degli anni ’70.


Ancora non pienamente sfruttata, anzi decisamente sottoutilizzata in Flying Teapot, la chitarra di Steve Hillage. Probabilmente a causa della presenza nel gruppo di Christian Tritsch, il solismo così evocativo e sognante di Hillage, che sarà fondamentale nei capitoli successivi,  qui ancora non è presente, limitandosi a brevi apparizioni, perlopiù nascosto o immerso nel magma sonoro.  
La sezione ritmica inizia ad avere una sua stabilità e a sostenere quelle fughe strumentali che, seppur poco presenti in questo lavoro, già iniziano ad avere la loro importanza nell’estetica del gruppo.  


pop

mercoledì 18 settembre 2019

Ancora su scrittura e improvvisazione

Tornando ai collegamenti tra scrittura e musica vorrei soffermarmi ancora sull'argomento "indispensabile". Parlando di Bailey e Coe e del loro disco Time, ho fatto riferimento a delle frasi di Raymond Carver (Tempo. O dell'indispensabile!) perché la musica di quel duo sembra contenere quell'essenzialità, quella capacità di arrivare dritti al punto propria dello scrittore americano. Nulla è superfluo, ogni nota e ogni parola servono per costruire il racconto, musicale o letterario che sia.
Ma è l'unica modalità questa? Cioè siamo obbligati, al fine di raggiungere l'obiettivo, ad essere essenziali, avari di effetti? Di limitare la nostra azione all'indispensabile, di dosare con cura gli elementi a nostra disposizione per costruire una narrazione perfetta?


Prendiamo Philip Roth. Al di là del fatto che Carver scriva racconti e quindi, probabilmente, il format costringa l'autore alla stringatezza, la scrittura di Roth è per certi versi agli antipodi. 
In Pastorale Americana, in uno dei momenti più intensi del libro, lo scrittore di Newark riesce a prendere tempo descrivendo con cura il plastico in miniatura della nuova casa dello Svedese e di sua moglie, come se volesse ritardare volutamente il culmine, lo zenit della narrazione, posticipando la risoluzione in un continuo alternarsi di sottodominanti e dominanti che non risolvono, per usare un linguaggio musicale. 
In realtà Roth sembra utilizzare il fiume di eventi, descrizioni, deviazioni, per immergerci nel racconto, in un mondo che è proprio costruito attraverso un alto numero di percorsi, quasi a farci perdere la ragione. Immissione di una quantità di elementi che elaborano, chi in maniera decisiva chi secondariamente, la narrazione come fosse una sorta di uragano che ci prende e ci trasporta altrove. 
Ovviamente il trovarsi di fronte un romanzo o un racconto, ripeto, incide alquanto nella costruzione del linguaggio. Ma non è solo questo. E' proprio un approccio differente che prescinde dal formato. Questa modalità ha, come ulteriore caratteristica, quella di portare il lettore, o l'ascoltatore, in un continuo saliscendi di emozioni, come se non ci fosse un obiettivo finale ma un continuo, per l'appunto, alternarsi di tensioni senza soluzione di continuità. Laddove invece l'approccio "essenzialista" punta a crescendi con inaspettate risoluzioni, lasciando da parte gli orpelli e le divagazioni per puntare dritto al finale, alla catarsi.
Come tradurre tutto ciò in musica? Come riuscire a improvvisare costruendo una narrazione fatta di continui rimandi, divagazioni, tensioni e mancate risoluzioni?
In realtà sembra molto più facile questo approccio che l'altro. Siamo, di solito, portati a suonare molto, e ci riesce complicato fermarci, ascoltare gli altri, stringere all'essenziale. Ma la quantità di note non è automaticamente sinonimo di ampia costruzione, di racconto elaborato e ricco di percorsi. Anzi. Spesso produciamo solo confusione o indeterminatezza.
Un musicista che sembra essere una sorta di alter ego dello scrittore Philip Roth, almeno per quanto mi riguarda, è Lee Konitz.


L'accostamento può risultare ardito a prima vista, ma tutto sommato non penso sia così lontano dalla realtà. Non voglio solo fare riferimento alla comune origine ebraica, alla capacità e alle risorse che questa cultura possiede in fatto di narrazione e racconto. Nel caso dello scrittore americano questo retaggio è ben presente nelle sue opere, mentre Konitz non ha mai dato troppo peso a questa dimensione culturale (Andy Hamilton, Lee Konitz. Conversazioni sull'arte dell'improvvisatore, EDT, Torino, 2010). Eppure i due possiedono realmente quell'arte di raccontare le storie che rimanda alla millenaria cultura ebraica. Nel loro specifico campo costruiscono personaggi che intrecciano le loro vicende in un fluire narrativo avvincente. E mentre per Roth tutto ciò sembra in parte scontato, essendo uno scrittore, questo vale anche per Konitz. In Motion, uno dei suoi capolavori,  pubblicato dalla Verve nel 1961 e registrato con Elvin Jones alla batteria e Sonny Dallas al contrabbasso, il sassofonista delinea storie che contengono al proprio interno diverse trame, protagonisti e controsoggetti  che trasportano l'ascoltatore nel racconto. Lo fa con una musicalità descrittiva, senza il furore e la drammaticità dei musicisti afroamericani, ma nondimeno narra, crea short stories intricate, fitte di eventi e personaggi che fluiscono dentro le improvvisazioni.  Possiamo sederci all'ascolto di Motion come se stessimo leggendo un libro, pronti ad essere trascinati in avventure raccontate con passione e maestria, attraversati, talvolta, da un profondo senso di dolore subito stemperato dall'estro e dall'ironia. Trame millenarie che viaggiano nel tempo.

pop

venerdì 9 agosto 2019

Tempo. O dell'indispensabile! Derek Bailey e Tony Coe.

"L'economia e la precisione, la ricerca del dettaglio significativo, insieme a un senso di mistero, di eventi che accadono appena sotto la superficie delle cose."
Come scritto in un precedente post, ritorno volentieri su Raymond Carver e sulle sue riflessioni riguardo la scrittura. In questo caso però il pretesto è dovuto ad un bellissimo doppio lp dal titolo Time, di Derek Bailey e Tony Coe. E ciò che ha scritto Carver sembra proprio perfetto per inquadrare al meglio questa uscita discografica, preziosa ristampa di un disco Incus del 1979 con, in aggiunta, materiale inedito, registrazioni effettuate il 4 aprile e il 14 maggio 1979  presso la BBC per il programma Jazz in Britain e che compongono le facciate 3 e 4 del presente doppio lp.



Per parlare di Derek Bailey servirebbero decine di post e probabilmente non avremmo ancora esaurito le argomentazioni e le riflessioni sulla sua opera di musicista, improvvisatore, studioso  e teorico. Qui, in questo disco, è in coppia con un musicista certamente non così affine ai territori di pertinenza del chitarrista, eppure siamo in presenza di un lavoro unico, di raro pregio. Prima di entrare un po' nel dettaglio, quindi, accenniamo brevemente qualcosa sulla figura del sassofonista e clarinettista inglese Tony Coe.


"Sofisticato, gentile e vago, Tony Coe ha un'aria di generale astrazione come se stesse cercando continuamente qualcosa che ha dimenticato. Per quanto riguarda la musica, l'impressione è ingannevole: qualunque cosa faccia, è con concentrazione totale e un'intelligenza che gli permette di essere a casa con qualsiasi genere musicale". 
Questo è quanto scriveva Ian Carr, storico trombettista inglese e leader dei Nucleus, nel suo bel libro Music Outside. Contemporary Jazz in Britain, del 1973.


 Effettivamente siamo in presenza di un musicista alquanto versatile: sassofonista di Henry Mancini per la colonna sonora del film La Pantera Rosa, membro di big band come quella di Kenny Clark e Francy Boland, co-leader di piccoli ensemble con Kenny Wheeler e Tony Oxley, ma anche clarinettista classico contemporaneo sotto la direzione di Pierre Boulez, autore di uno stupendo disco intriso di jazz, rock e sperimentalismo, Zeitgeist del 1977, con tra gli altri Phil Lee alla chitarra, Kenny Wheeler al flicorno soprano e una splendida Norma Winstone alla voce, e di altre di decine di lavori a suo nome. Insomma, un musicista dotatissimo e in grado di spaziare tra più generi mantenendo sempre un'alta qualità e un suo riconoscibile timbro strumentale. Vicino a Paul Gonsalves per quanto riguarda il sax tenore, al clarinetto ha una eccelsa tecnica e un suono a volte un po' nasale ma di grande limpidezza e virtuosismo. Pur avendo lavorato con Tony Oxley, con la Winstone e con Wheeler Tony Coe ha poco frequentato i territori della libera improvvisazione, non certo per chiusura mentale. Ma il suo eclettismo non poteva certo fermarsi di fronte ad un grande musicista quale è stato Derek Bailey, certamente la figura più autorevole della scena free impro, non solo inglese.

Bailey, nel 1977, inizia ad organizzare le Company Weeks, incontri semi occasionali di improvvisatori. Un anno prima, in occasione del primo concerto di Company, il chitarrista aveva cominciato a ragionare intorno alla creazione di nuove forme di incontro per l'improvvisazione: " La struttura di Company, per quanto si possa parlare di struttura, è basata sull'idea di una compagnia teatrale di repertorio, un gruppo di musicisti da cui diversi raggruppamenti possono essere tratti per specifiche occasioni e performance".  Ad attrarre Derek Bailey era l'idea di congelare per alcuni giorni quel breve periodo iniziale della nascita di un gruppo, prima che il processo di stabilizzazione e consolidamento influenzi in modo determinante la musica prodotta. Da qui nasce l'idea di raggruppare, dal 24 al 29 maggio 1977, presso l'Institute of Contemporary Arts (ICA) di Londra, 10 tra i più importanti musicisti attivi in ambito improvvisativo: Derek Bailey, Steve Beresford (piano), Lol Coxhill, Evan Parker, Steve Lacy, Anthony Braxton (sassofoni e flauti), Leo Smith (tromba), Maarten van Regteren Altena (basso), Han Bennink (batteria) e Tristan Honsinger (violoncello).  


Da questo primo incontro, che ebbe un'ottima partecipazione di pubblico e un inequivocabile successo, Bailey pubblicò, con la sua Incus, ben tre lp (Incus 28 - 30). L'anno successivo, benché restio ad organizzare un'altra Company Week, Bailey alla fine si convinse per farne un'altra edizione, sempre all'ICA, dal 30 aprile al 6 maggio 1978. I musicisti questa volta furono Johnny Dyani (basso), Misha Mengelberg (piano), Maurice Horsthuis (viola), Leo Smith (tromba), Terry Day (percussioni) e lo stesso Bailey. Questo il programma di sala della seconda edizione: "Come nel 1977 l'obiettivo di questa settimana è di presentare la libera improvvisazione in un contesto che incoraggia le migliori possibilità di questo modo di fare musica. Company, il nome collettivo per i musicisti che vi prendono parte, è stata fondata con questo scopo. E' un gruppo di musicisti a formazione variabile i cui partecipanti rispecchiano una varietà di stili e di concezioni dell'improvvisazione. L'ampiezza e la composizione del gruppo verrà decisa dai musicisti ogni sera subito prima della performance". Da questa Company Week non venne pubblicato nessun disco.
E veniamo finalmente al 1979, l'anno dell'incontro tra Bailey e Coe.


"Dopo averla organizzata nel 77 (la Company Week)  non volevo più farla, ma fu un tale successo che chiunque poteva riconoscere e la pressione per rifarlo era abbastanza stupefacente, particolarmente dalle persone che mi avevano dato il denaro per organizzarla, l'Arts Council. Così feci un'altra Company Week nel 78 che pensai non fosse particolarmente riuscita e allora provai un differente format nel 1979, un concerto settimanale per quattro o cinque settimane. Era cumulativo. Partii con un solo, poi duo e trii fino ad arrivare ad una line up di otto, nove elementi. Ho pensato che avrei dovuto provare in quel modo. Neanche a me piacque tanto, erano solo concerti. Provai ancora nel 1980". 
Così, nelle parole di Bailey, le considerazioni sulle Company Week del 77 e del 78 e le idee riguardo l'edizione del 1979, abbastanza differente dalle precedenti. Uno dei concerti della Company  si svolge il 16 aprile 1979 presso la Purcell Room di South Bank a Londra e vede la partecipazione di Bailey con Paul Rutheford, Keith Tippett e il nostro Tony Coe. Una settimana dopo, il 23 e 24 aprile, negli studi Riverside di Londra, Derek Bailey e Tony Coe registrano Time, pubblicato dalla Incus lo stesso anno. I due, prima del concerto alla Purcell Room, si erano già incontrati per suonare nel programma radio della BBC Jazz in Britain il 4 aprile del 1979 e torneranno a suonare sempre per lo stesso programma il 14 maggio. Il tutto è ora su questo doppio lp pubblicato dalla Honest Jon's poco tempo fa.


Siamo in presenza di una raccolta di racconti dall'andamento misterioso e avventuroso, con i due musicisti  che sembrano trovarsi alla perfezione nell'elaborare strutture narrative per poi virare improvvisamente verso scenari inaspettati. Tutto qui è semplicemente narrazione, storie, trame e vicende raccontate in modo egregio da due eccezionali artisti.
Il primo lato dell'lp è composto da composizioni brevi, semplici prose che si gustano una dopo l'altra. L'apertura, con Kuru, è misteriosa, caratterizzata dalle note lunghe del clarinetto e da intrigati arpeggi di chitarra. Sugu, breve e immediata, intreccia fraseggi sinusoidali dei due strumenti mentre Itsu e Koko hanno un andamento simile, seppur alternato. Nel primo è protagonista la chitarra con accordi strappati e note pizzicate e solo verso la fine il clarinetto allunga le sue ombre sul brano. Il secondo vede invece un Tony Coe rilassato, a suo agio con una serie di fraseggi morbidi, vellutati e rapidi, nel registro medio alto e con passaggi sugli acuti. A circa metà brano Derek accompagna le evoluzioni del clarinetto con una sequela di accordi strambi,  dissonanti.
Il resto della prima facciata scorre con caratteristiche simili, essenziale e conciso, con le anch'esse brevi Ima e Sarinu, mentre Omoidasu, l'ultimo brano,  è più lungo e sembra anticipare le atmosfere del secondo lato del disco. Qui la trama si fa più spessa, articolata. Le composizioni (Chiku, Taku, Toki) sono più estese e questo comporta maggiori evoluzioni strumentali, con i due musicisti abili nel condurre di volta in volta le impervie tematiche improvvisative verso territori inaspettati. Toki, lo stupendo brano che chiude il primo disco, è introdotto da una chitarra magica, eterea e puntillista con il clarinetto che sostiene le elaborazioni di Derek. Il filo del discorso poi si intreccia in un continuo dialogo, a volte buffo, serrato, per poi immediatamente placarsi, diventando un sussurro, un rivolo. Si ritorna a fraseggi impetuosi, sempre comunque ben controllati, fino ad arrivare ad elementi parossistici e poi defluire, ammorbidirsi e lasciare spazio, espandere il discorso, in un alternarsi levigato con Coe che a volte innervosisce il dialogo. Nel finale un morbido ostinato rumorista fa da base ad un clarinetto mosso, rapido e allo stesso tempo fuggente.


Il secondo disco, come detto, raccoglie materiale inedito, frutto della partecipazione del duo al programma della BBC Jazz in Britain. L'inizio, Burgundy,  ricorda certe atmosfere di musica contemporanea e porta con sè echi del Giuffre di Free Fall. Va detto che le suggestioni e le sonorità del trio di Jimmy Giuffre con Paul Bley e Steve Swallow percorrono sotterraneamente tutto Time, non potendo prescindere, questa musica, dalle intuizioni fondamentali di quel trio. Le facciate 3 e 4  sviluppano storie e tematiche in maniera incessante, con Tony Coe che lavora brillantemente sul registro acuto del suo strumento e il commento di Bailey fatto di accordi sghembi, note strappate, bicordi dissonanti, sempre in un proficuo dialogo tra i due musicisti. In Dumaine il discorso è tirato, flessuoso, irto e a tratti spigoloso, mentre il finale è delicato e soffuso. La chitarra di Derek disegna un paesaggio aspro in Chartres, nel quale il clarinetto si muove sommessamente, sempre con quel suono pulito, limpido, mentre Bailey costruisce sfondi per le scorribande di Coe. In South Rampart la protagonista, all'inizio, è una chitarra evocativa, che lascia spazi e silenzi e sembra solo suggerire ciò che avviene mentre Tony Coe suona con indeterminatezza, come se parlasse a se stesso, per poi all'improvviso piazzare quelle fiammate acute che stordiscono l'ascoltatore.


E veniamo a questo punto a Carver e alle sue osservazioni iniziali. Questo doppio lp ha in sè l'economia e la precisione, la ricerca dei dettagli importanti. Nulla è superfluo nella musica di Time, tutto è indispensabile. I due musicisti riescono a tradurre in musica eventi che suonano suggestivi, misteriosi, senza nulla di infruttuoso ma condensando nelle loro improvvisazioni il racconto degli avvenimenti. Effettivamente sembra di ascoltare un libro di Carver, ma è scritto (suonato) in tempo reale, non c'è possibilità di revisione, di riscrittura. Ed è per questo che Time è un bellissimo lavoro, per la grande efficacia e essenzialità con le quali Derek Bailey e Tony Coe compongono un' autentica raccolta di piccole storie sonore. Come direbbe Carver....vanno dritti al sodo!

P.S. Sempre nel 1979, il 5 agosto presso l'Institute of Contemporary Arts (ICA) di Londra, Derek Bailey organizzerà una nuova Company, con Frank Perry, Evan Parker, Keith Tippett, Paul Rutheford, Tristan Honsinger, Maarten Altena, Barry Guy e il nostro Tony Coe. Oltre a loro, una line up simile all'incontro del 16 aprile alla Purcell Room, ci saranno anche due musicisti giapponesi, Toshinori Kondo e Toshi Tsuchitori e il mimo clown olandese Ted Jolings. 


Fonti
John Wickes, Innovations In British Jazz. Volume one 1960-1980
Mike Pearson, Conversations In British Jazz
Ian Carr, Music Outside. Contemporary Jazz In Britain
Ben Watson, Derek Bailey And The Story Of Free Improvisation
Derek Bailey, Improvvisazione. Sua Natura E Pratica In Musica
Raymond Carver, Niente Trucchi Da Quattro Soldi


pop





venerdì 26 luglio 2019

Captain Capricorn

Lunga assenza di post dovuta alla scrittura di un corposo articolo su Radio Gnome Invisible, la trilogia dei Gong. Uscirà, spero, a settembre. Ma l'ascolto prolungato e le ricerche intraprese per l'elaborazione di questo scritto mi hanno portato ad alcune considerazioni.


Primo. Daevid Allen si conferma, forse suo malgrado, come la constatazione che spesso e volentieri la tecnica, se non accompagnata dalla creatività e dall'intelligenza, serve a molto poco in musica...e non solo. Tutta la carriera dell'australiano è connotata da una grande voglia di comunicazione, sensoriale ed extrasensoriale, una inesauribile forza creativa che trascende la tecnica musicale e riesce ad esprimere contenuti alti e altri al di là delle mere competenze tecniche. Certo, ha bisogno di avere intorno a se abili musicisti, ma cos'è la musica se non condivisione di idee e sentimenti, un'arte che quasi necessariamente si esprime in modo collettivo, presupponendo la presenza di sodali che partecipano alla creazione. E' solo dopo aver percorso questo processo che talvolta, non spesso, spunta fuori l'esigenza della creazione in solitudine.


Secondo. L'esperienza Gong, soprattutto nella trilogia, è qualcosa di particolare, unico per certi versi. Continui cambi di formazione, assenze del leader, conduzione collettiva e temporanee direzioni singole, tutto questo ha prodotto del materiale musicale di elevata qualità. Un mix di rock, jazz, musica etnica, psichedelia, sperimentalismo, Kosmische Musik, Terry Riley, tutto frullato insieme e offerto in una dimensione anche spirituale e fantastica, non solo come mero prodotto musicale.


Terzo. Uno dei rari esempi di non attaccamento alla fama, alla ricchezza, allo star system. Come per i Soft Machine, siamo in presenza di percorsi musicali che continuano con la stessa sigla ma senza i loro fondatori e leader. Anzi, essi stessi lasciano volentieri in altre mani ciò che loro hanno costruito nel corso degli anni. Come a dire basta, sono stanco ed è giusto che continuiate voi, se ne avete la forza e se le nostre idee non concordano più.
Quarto. Le avventure musicali di Allen andrebbero studiate in modo approfondito perché ancora ricche di spunti e di ispirazioni che farebbero la fortuna di molti musicisti. L'assenza di barriere stilistiche, un discorso complessivo riguardo i contenuti musicali e testuali che vanno da scenari fantasy a elementi ironici e nonsense, a riflessioni più profonde, spirituali e filosofiche. 
Quinto. Molto di quanto scritto ricorda le esperienze e la musica di un altro capitano, anch'esso "strano" e bizzarro, forse leggermente più ossessivo e inquieto di Daevid Allen: Captain Beefheart. E prossimamente vedremo di ragionarci sopra.


Daevid Allen, Melbourne 13 gennaio 1938 - Byron Bay 13 marzo 2015
Captain Beefheart (Don Van Vliet), Glendale 15 gennaio 1941 - Arcata 17 dicembra 2010


pop

lunedì 17 giugno 2019

Weird Tales. I Dream Syndicate e Karl Precoda

Il gruppo non è certo di quelli famosi, almeno non tra il grande pubblico. E' invece stata, e lo è ancora, una di quelle formazioni di culto, venerata da un ristretto numero di fans in giro per il mondo e che con gli anni ha incrementato, seppur di poco, la propria fama.


Parliamo dei Dream Syndicate, da un paio di anni di nuovo in carreggiata,  gruppo guida del Paisley Underground, quel piccolo movimento, o meglio corrente musicale, che agli inizi degli anni '80 riportò in voga la psichedelia, un certo rock grezzo, sicuramente influenzato dal punk, e un ritorno al sound chitarristico prettamente americano.
Arrivarono, Dream Syndicate, Green On Red, Rain Parade, True West, Three O' Clock, Opal, Long Ryders, Bangles, in un periodo di trionfo del sound sintetico, batterie elettroniche, tastiere, synth pop e brani dance. Con loro tornarono alla ribalta il sudore, le chitarre distorte, gli assoli e un certo rock primitivo che probabilmente non era mai andato via, semplicemente era rimasto sotto traccia, in attesa di riemergere più sporco che mai. 
E agli inizi i Dream Syndicate erano veramente sporchi, così impregnati di punk ma con forti legami con il Neil Young dei Crazy Horse, la psichedelia di Nuggets, la visionarietà del Verlaine dei Television, e le atmosfere scure e inquietanti dei Velvet Underground
Il tutto di provenienza West Coast, termine che già racchiude in sé un cumulo di suoni, atmosfere e significati tutto particolare ed alquanto caratteristico.


Steve Wynn, chitarra e voce, Karl Precoda, chitarra solista, Kendra Smith, basso, Dennis Duck, batteria, esordiscono nel 1982 con l'ep The Dream Syndicate, per poi pubblicare, sempre nello stesso anno, The Days Of Wine And Roses, loro primo lp prodotto da Chris D. dei Flesh Eaters.
Queste, fin qui, le note basilari, le informazioni primarie buone per avere un quadro, seppur sommario, della situazione.
In realtà non voglio fare un excursus critico dei lavori dei Dream Syndicate, ma affrontare particolari aspetti e curiosità.
Iniziamo dall'effettivo ruolo che hanno i membri del gruppo. La leadership è chiaramente nelle mani di Steve Wynn, cantante, frontman e autore della maggior parte dei brani. Sezione ritmica essenziale, non particolarmente brillante, poche variazioni, qualche buona linea di basso di Kendra Smith e drumming costante a supporto della musica da parte di Dennis Duck. Ma, come spesso accade nel rock, e non solo, tutto questo sembra funzionare alla perfezione con, in aggiunta e per nulla secondario in quanto a peso effettivo nel gruppo, la chitarra solista di Karl Precoda. E qui c'è il primo elemento da sottolineare. Come in tutte le storie rock che si rispettano, anche la musica dei Dream Syndicate vive e sgorga furiosa e ammaliante dall'opposizione di due personalità: quella dell'autore dei brani, del songwriter un po' sghembo ma pur sempre affidabile e alla ricerca del Nuovo Racconto Americano, e quella del folle visionario, chitarrista acido (il più acido d'America si diceva ai tempi!), irrequieto e irriducibile all'ordine, alla regolarità.


 Steve Wynn e Karl Precoda sembrano incarnare le due anime del gruppo, quella psichedelica e avventurosa e quella del rock ruvido e tradizionale. In realtà, dobbiamo dirlo, in tutti e due vive la fiamma dell'irrazionale, della fuga in avanti pur ancorati alle esperienze rock del passato,  elettrizzare improvvisamente la musica per poi lentamente raffreddarla in eterei fluidi cangianti. Tuttavia sono ben chiari gli approcci e i contributi di entrambi; scrittura di brani, splendide melodie con testi intriganti e distorsione degli stessi con scorribande dissonanti e incalzanti, apertura dei confini e correnti psicotiche.
Si è molto parlato, in passato, di Steve Wynn, della sua leadership e delle sue qualità come songwriter, grazie anche ad una buona carriera lontana dal gruppo. Ma, ed è qui il senso di questo post, troppo poco si è parlato della personalità di Precoda, la chitarra solista dei primi Dream Syndicate. Di chiara ispirazione hendrixiana, Karl Precoda è chitarrista anomalo, per certi versi irrispettoso e inaffidabile. C'è molto di suo nella proposta sonora dei Dream Syndicate così fresca e coinvolgente. Non si lascia irretire dalle efficaci melodie intrise di blues e roots di Wynn, non le accarezza con sagacia e virtuosismo, bensì le graffia, le assesta colpi distorti per allungarle, stirarle verso ignoti viaggi mentali e le trasforma in autentici brani psichedelici.
Il solismo di Precoda è abbastanza particolare perché di solito non segue i consueti canoni del chitarrismo rock. Non è un virtuoso ma sa dosare bene le sue capacità elaborando degli interventi musicali affatto originali, inaspettati direi. Là dove ti aspetteresti un fiume di note, un insieme di pentatoniche una dopo l'altra, lui cambia completamente strada, si incammina in territori inesplorati evocando molto con poco. E' come se dicesse, ok qui si dovrebbe fare così ma io faccio un'altra cosa, anche se al primo ascolto non vi piace. Un esempio significativo è il brano che dà il titolo al loro primo Lp, The Days Of Wine And Roses.

https://www.youtube.com/watch?v=f-_G7A0RbjU

Splendida canzone strutturata su strofe, ritornelli, brevi bridge, e poi una lunga parte centrale dove Precoda mostra le sue peculiarità di chitarrista "acido". In un brano così ti aspetteresti un assolo di chitarra pieno di fraseggi blues, e invece ci troviamo di fronte ad un lungo, estenuante e inquietante magma sonoro, fatto di rumore, brevi frasi distorte costruite sulle note basse della chitarra che si confondono con la ritmica di Wynn. Non sembra neanche essere un solo bensì una macchia sonora che emerge e poi riaffonda all'interno dello scorrere del tempo, così deforme ed allo stesso tempo originale. E poi, alla fine, una breve sequenza cromatica che finisce su un Mi ossessivo, lancinante, minimalista e inquietante, lungo, che sembra non voler finire mai e che lancia il ritorno della voce di Wynn, per concludersi in un assalto sonoro con il ritornello ripetuto più volte, sempre più urlato, sempre più sporco. Il finale, secco ed inarrivabile (con evidente errore ritmico!), lascia l'ascoltatore esausto. Si potrebbe benissimo dire: ecco, questo è Precoda. Forse nessun altro chitarrista rock avrebbe avuto il coraggio di suonare così in un brano. Molto con poco, è la sua filosofia.
Altro esempio è Until Lately, sempre sullo stesso lp, dove si produce in una linea di chitarra che fa da contrappunto alla voce di Wynn, per poi sporcare le strofe , in sottofondo, con rumori e feedback, note singole distorte e penetranti.  Anche qui nel finale la chitarra esplode sotto le frasi sempre più urlate di Wynn e un'armonica a bocca che ricorda il primo blues. Il brano di apertura di The Days Of Wine And Roses è, anch'esso a suo modo, una sorta di manifesto dell'approccio per molti versi minimalista, di Precoda. Tell Me When It's Over è una splendida ballata, si potrebbe dire tipica dei Dream Syndicate. Un bel riff, una suggestiva linea melodica e poi, quando ci sarebbe tutto lo spazio per un assolo di chitarra, Precoda preferisce suonare una sola nota, ripetuta, dolce e sognante (una delle poche sovraincisioni del disco, quasi tutto suonato in diretta). Tutto qui, nient'altro. Mentre su When You Smile, autentico gioiello, l'inizio è affidato ad una serie di feedback che Precoda sembra governare con maestria, lasciando emergere con grazia il dolce arpeggio della chitarra di Wynn. A tutto questo va aggiunto il suono generale del disco: la voce vicina al Lou Reed più alienato, una generale noncuranza degli aspetti esteriori come  la qualità del suono, registrazione in presa diretta, errori, ma quanta energia, quanto sudore e quanta musica. Il tono generale è sporco, ruvido, e questo esalta le caratteristiche di Precoda così come le splendide composizioni di Wynn. All'epoca si diceva ricalcassero troppo i primi Velvet Underground, ed in parte poteva essere anche vero. Ma, a differenza del gruppo newyorchese, c'è meno arte e più istintività, meno elaborazioni intellettuali e più viaggio acido.


Che succede a questo punto? Tutto sembra funzionare, almeno alle nostre orecchie, ma evidentemente non è così. L'approdo ad una grossa etichetta (A&M Records) comporta una serie di modifiche che saranno determinanti per il futuro del gruppo. Partiamo da una delle più evidenti: il cambio del produttore. Da Chris D. si passa a Sandy Pearlman, da un esponente del punk acido americano al creatore del suono Blue Oyster Cult, così perfetto, pulito, preciso. Anche con i Clash di Give 'Em Enough Rope  Pearlman aveva tentato di ricondurre il punk grezzo e riottoso ad una levigata forma metallica assolutamente fuori luogo per una formazione come i Clash. E questa stessa operazione viene riproposta con The Medicine Show, secondo lp dei Dream Syndicate. Non che il suono sia lo stesso dei Clash, ma è quell'approccio ordinato, distinto, da rock adulto, che viene riproposto, scardinando di fatto quell'equilibrio sonoro raggiunto nel precedente lavoro. Ad aggiungere una patina di "serietà" viene aggregato alla formazione il pianista Tom Zvoncheck mentre al posto delle soavi linee di basso di Kendra Smith, che lascia il gruppo per formare gli Opal, arriva Dave Provost.


Non vorrei parlare troppo male di The Medicine Show perché, alla fine, è comunque un bel disco. Ma la magia di quel suono graffiante, acido, irruento, quel viaggio tra i lidi psichedelici che The Days Of Wine And Roses aveva compiuto con rara efficacia, viene deliberatamente eroso da un sound più levigato, gentile e rispettoso dei canoni del buon rock. Ed ovviamente chi ne farà più le spese sarà proprio la chitarra di Precoda, irregimentata in un suono che lascia poco spazio ai rumori, alle fantasie e alle scorribande soniche. Un esempio è il brano John Coltrane Stereo Blues, che dovrebbe in parte ricoprire il ruolo che aveva, nel precedente disco, la title track; una lunga composizione fatta di improvvisazione e viaggio psichedelico. Ecco, qui Precoda avrebbe potuto essere determinante, avrebbe dovuto esplodere con rumori, distorsioni, note lancinanti. E invece rimane timido, ordinato, quasi timoroso di sporcare il brano, e con esso l'intero disco, cosa che invece non era certo accaduta in The Days Of Wine And Roses. Da questo punto di vista è certamente meglio la out take piuttosto che la versione ufficiale presente su disco.
https://www.youtube.com/watch?v=ScO27FcpzNs


Peraltro, a fronte di questa parziale delusione, Precoda piazza uno dei suoi più begli assoli in Bullet With My Name On It, uno dei rarissimi brani da lui composto. E' uno solo melodico, struggente, che riprende la melodia del ritornello modificandola e lanciandola in alto, una sorta di Dave Gilmour acido e spostato.
Mi fermo qui, senza voler andare troppo oltre. La pubblicazione del mini lp This Is Not The New Dream Syndicate Album...Live, conferma ed accentua la tendenza di Medicine Show, con la massiccia presenza delle tastiere che accerchia e soffoca pesantemente la chitarra di Precoda, fino a renderla quasi superflua. E ovviamente, con le registrazioni per il successivo lp Out Of The Grey,  si arriva all'abbandono del gruppo da parte del chitarrista. L'arrivo di Paul B. Cutler, indubbiamente più virtuosistico e abbastanza convenzionale come solista, spegne definitivamente le spinte psichedeliche e rumoriste annegandole in un ovvio suono rock abbastanza scontato. A dimostrazione dell'importanza della chitarra e del solismo di Precoda va sottolineato che anche in questo album la qualità dei brani scritti da Wynn è elevata, ma la mancanza di interventi creativi e spiazzanti, dei magma sonori e dei dardi distorti che percorrevano la musica dei Dream Syndicate porta ad un generale appiattimento musicale. Canzoni carine ma prive dell'estro sonoro del passato.
Fine. Non del gruppo certamente, che pubblicherà altri dischi, si scioglierà e poi tornerà ad incidere e suonare dal vivo, ma di un certo modo di intendere quel rock. La volontà di ripulire, di ingentilire ciò che alla fine è nato un po' sciatto, disordinato, sporco, il più delle volte porta al soffocamento delle istanze maggiormente creative, direi scomode. Ecco, forse la parola giusta per definire Precoda e la sua chitarra è questa: scomodo!
Qui sotto un paio di blog interessanti sui Dream Syndicate.

https://mrowster.wordpress.com/category/karl-precoda/

http://www.myrareguitars.com/the-dream-syndicate

pop

lunedì 13 maggio 2019

Fusion/Thesis. L'arte del trio 2

FUSION/THESIS

Il personaggio è abbastanza particolare, tanto da meritare certamente più attenzione di quanta gliene sia stata data dalla storiografia jazzistica. Nato nel 1921 in Texas, a metà dagli anni ’50 Jimmy Giuffre è un tipico esponente della scena west coast, conosciuto non solo come sassofonista e clarinettista ma anche come ottimo arrangiatore e compositore; è lui infatti che scrive ed arrangia uno dei maggiori successi dell’orchestra di Woody Herman, Four Brothers, del 1947. Ma, contrariamente ad alcuni suoi colleghi come Gerry Mulligan, Stan Getz o Dave Brubeck, si allontana pian piano dai riflettori, dal successo commerciale preferendo sperimentare nuove soluzioni e sonorità. 


Ispirato dalla Sonata per flauto, viola e arpa di Debussy e con l’idea di sviluppare così ulteriormente il suo approccio contrappuntistico Jimmy Giuffre forma un trio drumless con Jim Hall alla chitarra e Ralph Pena al contrabbasso (più tardi al posto di Pena subentrerà Bob Brookmeyer al trombone a pistoni!). A questo aggiunge un lento abbandono del sax per suonare quasi esclusivamente il clarinetto, scelta decisamente controcorrente. 

Le sonorità del nuovo progetto di Giuffre sembrano condividere i parametri dell’estetica cool ma in realtà c’è qualcosa che lascia intravedere gli sviluppi futuri. Innanzitutto la scelta di non avere batteria: lo swing non sembra affatto risentirne ma è sempre presente sottotraccia, permettendo una maggiore libertà nelle improvvisazioni e lasciando emergere un forte interplay tra i tre musicisti che iniziano ad eludere i confini tra tema e improvvisazione. Il “blues-based folk jazz” di Jimmy Giuffre è alla ricerca di un’intensità e di un feeling che solo le atmosfere morbide e le sonorità contenute possono far emergere, lontano dalle grida e dal volume alto della maggior parte dei gruppi jazz dell’epoca. 

Nel 1957 si sposta a New York, e qui nuovi stimoli portano Giuffre lontano dai suoni west coast e vicini alla nuova scena free che sta emergendo sul finire dei ’50 inizi ’60 proprio nella Grande Mela. Il trio rimane la formazione ideale per Giuffre, ma cambiano questa volta i musicisti; Paul Bley al piano e Steve Swallow al contrabbasso. Nel 1961, a marzo e ad agosto, il nuovo trio registra due album per la Verve (poi ristampati in un doppio cd dalla ECM nel 1992): Fusion e Thesis.




La Fusione di Jimmy Giuffre è un materiale sonoro liquido ma non informe, composito ma fluido, ricco di stimoli e di suggestioni. Le dissonanze sono immediatamente stemperate da continue consonanze, il semplice sembra tramutarsi in complicato e viceversa. C’è una libera ricerca di nuove forme e le tonalità vengono in parte abbandonate per poi essere riprese. Questo disco sembra essere un’alternativa alla bollente energia dell’hard bop così come alle rivolte musicali e socio-culturali del free. Ma non lo è perché non si contrappone ad essi bensì ne rielabora alcune tematiche e ne sussurra nuovi aspetti. È fondamentale, come in passato, l’interplay fra i tre musicisti; piano e contrabbasso sembrano fondersi con quel suono così delicato eppur anomalo, sfuggente, alieno in certi casi, del clarinetto. Coraggiosa e vincente è la scelta stilistica di Giuffre; rinunciare in pieno alla tradizione virtuosistica dello strumento per costruire un proprio linguaggio innovativo che faccia respirare e parlare il clarinetto insieme agli altri strumenti, che lo faccia vibrare sommessamente senza dover per forza urlare. In Fusion c’è un dialogo pacato tra i musicisti che porta il trio ad improvvisare in una continua ricerca tematica, portando alla luce il blues del Texas come la Third Stream, il free come il Modern Jazz Quartet. Il volume basso, il suono soffice, il soffio permettono all’ascoltatore di percepire continuamente nuove suggestioni, richiami, visioni. 

Thesis, registrato qualche mese dopo, è diverso. Ma è una diversità insita in Fusion, non se ne percepisce al primo ascolto il carattere programmatico. Dove Fusion era materiale liquido Thesis sembra offrire rivoli solidi, spunti programmatici solitari inseriti in discorso complesso, vicino alla musica “colta”. Dove in Fusion c’era suono comune qui spesso gli strumenti appaiono isolati tra loro, intenti a elaborare i loro assunti, forti della precedente compattezza, della loro raggiunta fusione. Lo stesso clarinetto di Giuffre suona leggermente più alto, su registri acuti. Le composizioni sono più angolose, aggressive, libere da tonalità. Dopo essere riusciti a fondere i loro suoni, i tre musicisti manifestano la volontà di enunciare le loro idee uscendo dal materiale fuso e spargendo note e suoni nell’aria. Il tutto sempre in maniera sommessa, quasi a non voler disturbare troppo, come se fossero di lato rispetto al fluire degli eventi. 



Sarebbe finita qui se uno non considerasse il terzo capitolo della saga, Free Fall. Sempre lo stesso trio, qualche mese dopo Thesis e un tour in Europa. E può benissimo dirsi l’esplosione di un gruppo, di un’idea; lo scioglimento dei suoni nella libera improvvisazione quale naturale approdo dell’intero percorso artistico di Giuffre. Una sonorità ostica e sfrangiata, un oltrepassare i limiti e lanciarsi nel precipizio dell’ignoto. Il trio che ha fuso le sue molteplici influenze e ha teorizzato nuovi assunti, con Free Fall mostra la dissoluzione del tutto, una libertà angosciante, che sa di fine della storia. 

“Ci disperdemmo una notte in cui guadagnammo 35 centesimi ognuno”. Steve Swallow  

 




pop

Recensioni. Kevin Ayers and The Whole World "Shooting at the Moon"

  Kevin Ayers And The Whole World SHOOTING AT THE MOON Harvest 1970 Il secondo album solista di Kevin Ayers vede al suo fianco, al co...