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mercoledì 16 dicembre 2020

Sguardi di fine anno

Com'è ormai consuetudine, anche per la fine di questo doloroso anno si stanno elaborando le varie classifiche ed elenchi di best of, seppur condizionati da tutto quello che è successo. Per quanto riguarda il mondo della musica, o meglio, delle musiche di ricerca, quelle lontane dal mainstream, possiamo dire di aver avuto per le nostre orecchie materiali di ottimo livello. Ma, in questo caso, vorrei più gettare uno sguardo generale,  tratteggiare o suggerire tendenze e orientamenti, che elaborare classifiche. 



Partiamo da una breve riflessione: la crisi acuta del rock, sia quello da classifica che quello più di nicchia, avanzato. Non voglio parlare di morte, come qualche critico famoso ha fatto tempo fa, ma in ogni caso ci troviamo di fronte un'assenza di prodotti significativi, ad una  vera e propria stasi creativa che dura ormai da molto tempo. Credo che il problema risieda nella fine della spinta propulsiva del rock, nella sua emarginazione dai linguaggi giovanili di protesta, nel non essere più espressione del disagio, o di provocazione artistica. E' come se si fosse spezzato il contatto con il terreno che permetteva a questo tipo di musica un continuo rigenerarsi perchè in stretto collegamento con il proprio pubblico di riferimento, le masse giovanili soprattutto. Ora sembra invece preda di un pubblico adulto, se non anziano, che predilige il fenomeno retromania, anche perchè oggettivamente questa musica ormai produce poco. Scalzato dalle musiche più propriamente nere (rap, funk, trap) oppure sommerso e sovrastato dal mercato, dagli pseudo talent, o semplicemente abbandonato a favore di musiche che prediligono l'importanza del testo, della parola, il rock sembra lentamente avviarsi ad essere una musica che guarda al passato, oppure ad annacquarsi, sbiadirsi nel calderone pop, senza più quella carica sovversiva che ne aveva fatto uno dei linguaggi di riferimento dell'espressività giovanile. 



Ma è vero che alcuni stilemi e sonorità rock hanno varcato i confini e li ritroviamo presenti, contaminati con molti altri generi e approcci musicali. Voglio dire: sembra che una certa sensibilità, un tipo di suono e di modalità abbiano deciso di intrecciarsi con l'improvvisazione tout court  (ma anche con sensibili accenti minimalisti) dando vita a sonorità e progetti significativi e sicuramente originali. Anzi, la speranza per il rock credo arrivi proprio da quei musicisti che viaggiano tra musiche differenti senza alcun problema, arricchendo il loro linguaggio e proponendo progetti particolari. Chrys Forsyth, Ryley Walker, Horse Lords, Sunwatchers, 75 Dollars Bill mi sembrano, tra gli altri, proposte assolutamente convincenti che delineano, seppur non sempre chiaramente e con successo, un futuro per le musiche di stretta derivazione rock. 




Comunque le elaborazioni più interessanti e suggestive arrivano dall'inesauribile patrimonio black. Come sempre è successo storicamente, l'effervescenza sociale e politica delle masse nere, impegnate in prima fila nelle lotte contro razzismo e discriminazioni, sta producendo un rigoglio di proposte artistiche di altissimo livello, da una parte e dall'altra dell'oceano. L'intreccio tra soul, funk, rap, jazz, blues e pop sembra essere un elemento comune a molti progetti e lavori usciti in questo 2020, facendo della blackness la cifra stilistica dominante, perlomeno per alcuni dischi di qualità elevata. C'è come un'urgenza comunicativa che porta gruppi e solisti a elaborare e rielaborare tutto il patrimonio culturale di origine afroamericana e a modellarlo e declinarlo con estrema raffinatezza e compiutezza. Alla base sembra esserci il ritmo, le linee di basso e la vocalità, le parole, la spiritualità. E' una necessità espressiva che in molti casi sembra proprio esplodere, come per esempio nel caso dalla rapper e performer Moor Mother, oppure insinuarsi tra le pieghe delle note e dei suoni, come nel caso dello storico sassofonista Idris Ackamoor e i suoi Pyramids, o ancora trasformarsi in inni o vere e proprie pop songs, come nei Sault o nei Mourning (A) BLKstar, riannodare i fili con Amiri Baraka e il free come nel caso degli Irreversible Entanglements o lasciar de/cantare e fluire uno dei grandi ispiratori della blackness, quel Gil Scott Heron rivisitato (ma non troppo) da Macaya McCraven. La parola viene declinata e fusa con i mille rivoli sonori africani, a produrre quell'eclettismo musicale che indubbiamente affascina e seduce, mostrandosi allo stesso tempo espressione e ispirazione di movimenti e anime in agitazione. Da questo punto di vista va anche sottolineato il protagonismo femminile (Moor Mother, Jyoti), anche qui espressione diretta dei movimenti delle donne, in particolar modo delle afroamericane, che è rilevante non soltanto a livello musicale ma anche teorico e artistico in generale. 



Ancora un altro aspetto: il rinnovato collettivismo, la volontà di far emergere il gruppo, l'ensemble a scapito dei/del solisti/solismo. Sault, The HeliocentricsMourning (A) BLKstar, Irreversible Entanglements, sono gruppi e/o collettivi che danno forza e privilegiano l'elaborazione collegiale, l'insieme a scapito del singolo. E anche i casi di Shabaka & The Ancestors, Idris Ackamoor & The Pyramids, oppure la vecchia (ma sempre validissima) Arkestra di Sun Ra, mostrano comunque la volontà e la necessità di avere al proprio fianco una comunità, un pensiero collettivo e uno sguardo d'insieme sulla realtà, sociale e artistica. 

Insieme a queste tendenze "black" non va certo dimenticato quell'approccio più propriamente sperimentale e legato alle vecchie avanguardie. In questo campo mi sembra si vada affermando una tessitura compositiva estesa, come fosse in continua espansione, senza limiti e inclusiva, anche qui, di linguaggi differenti, seppur a prevalenza jazz. Tim Berne e i suoi Snakeoil rappresentano al meglio questi aspetti, delineando spesso ambiti metropolitani, distopie e scenari complessi. Ma va certamente sottolineata anche l'opera multiforme di Rob Mazurek, in particolar modo quella con la sua Exploding Star Orchestra (e anche qui va notato il fatto che, seppur l'accento è spostato sul solista e leader, nondimeno rimane fondamentale l'apporto del gruppo o dell'orchestra), dai toni contemporanei, attraversati da groove e contraddistinti da temi intrecciati dai sapori afro, con un approccio collettivo e uno slancio efficace verso estetiche del futuro. Per ultimo vorrei segnalare Nels Cline che,  con i suoi Singers, attua questa attitudine compositiva dai confini illimitati con sonorità fortemente rock, dando ulteriori suggerimenti e suggestioni ad un genere che, come dicevo all'inizio, attraversa una profonda crisi. 

A conclusione di queste brevi riflessioni, una citazione sul fiorente e ricco mercato delle ristampe che talvolta rasenta la pura operazione commerciale ma in molti altri casi riesuma opere lodevoli, spesso dimenticate, o ci porta a conoscenza di outtakes e inediti che contribuiscono ad impreziosire quel disco o quella raccolta. Tra le tante ristampe mi sento di segnalarne due, abbastanza particolari. The End Of The Game di Peter Green, splendido disco di un blues trasfigurato e conturbante, e il cofanetto di 4 cd del gruppo folk rock inglese dei Trees, con la ristampa dei due dischi pubblicati nel 1970 e altre preziose perle fin qui inedite: un tuffo nei suoni folk modificati, alterati dalle sonorità psichedeliche, con accenti visionari e le delicate melodie delle ballad inglesi provenienti da lontani mondi incantati.

https://open.spotify.com/playlist/2RcRvGQhNMjLg0EjNkrX0y?si=59xwx_YFSWWGo08Txaaa1w

https://open.spotify.com/playlist/43IMBRwW1QfbUeApOLjhr9?si=frqToUDUTq-fj__4DhhVZA



pop



lunedì 9 novembre 2020

Soft Machine, Robert Wyatt e la scena di Canterbury

 Venerdì 20 novembre si svolgerà, organizzata dall'università di Strasburgo, una conferenza sulla scena musicale di Canterbury. Ovviamente, vista la situazione, gli interventi saranno da remoto. Qui sotto c'è la locandina con l'elenco degli interventi e una serie di informazioni tecniche su come poter partecipare. 





Di seguito l'abstract del mio intervento. 

Il sistema dei cerchi concentrici: una metodologia per la definizione della scena musicale di Canterbury

 

La definizione di “scena di Canterbury” è sempre stata fonte di discussioni sia tra gli addetti ai lavori che tra gli stessi appassionati. L’estrema eterogeneità delle musiche solitamente definite canterburiane, ha provocato un senso di indeterminatezza, di ambiguità nel cercare di chiarire quali fossero le caratteristiche della scuola di Canterbury o, addirittura, di affermare l’esistenza della stessa.

Per questa nuova sistematizzazione è stato necessario adottare una griglia analitica all’interno della quale poter riconoscere e inserire le musiche che realmente costituiscono la scena canterburiana. Ma, nonostante questa griglia, le vicende musicali e i musicisti stessi spesso ci portano lontano dalla definizione di una musica autenticamente facente parte di quella scuola. Una sorta di appannamento che rende il lavoro di ricerca non centrato, ancora in parte indeterminato.

Quindi, una volta stabilita la griglia analitica, ci siamo attenuti al solo prodotto che è in grado di assicurarci una lettura ed una analisi il più possibile obiettiva: i dischi. Solo facendo quasi esclusivamente riferimento ad essi possiamo definire confini e caratteristiche peculiari della scena di Canterbury. In poche parole, invece di elencare le band e i musicisti noi ne elencheremo i dischi fondamentali. I lavori discografici verranno inseriti in un sistema di cerchi concentrici che ci permette di individuare allo stesso tempo il centro, le fondamenta, le propaggini, riducendo l’indeterminatezza nell’individuazione e nella caratterizzazione della scuola di Canterbury.  

Le caratteristiche del sound canterburiano possono racchiudersi in una serie di elementi e aggettivi sonori: l’intreccio tra armonie elaborate, passaggi strumentali e pop song, un certo approccio all’improvvisazione vicino al jazz ma non aderente completamente ad esso, suite e talvolta tempi dispari, atmosfere pastorali del patrimonio folk inglese, ironia testuale e anche musicale, infine una sonorità generalmente morbida, ricca di tastiere ed elegante. Ancora: accordi di settima, passaggi cromatici e soluzioni strumentali inaspettate, sconfinamenti limitati in territori sperimentali e improvvisazioni inserite generalmente in un contesto compositivo.

Questa griglia ha permesso di individuare nell’asse Caravan/Hatfield And The North/National Health e quindi in alcuni loro dischi, il primo anello del sistema, quello che determina maggiormente l’estetica canterburiana, dandone le coordinate e le principali caratteristiche.  Il secondo anello è costituito in gran parte da una serie di lavori legati all’asse Soft Machine/Matching Mole, mentre il terzo è costituito da alcuni lavori solisti di Kevin Ayers e dai Gong di Daevid Allen.  

 

  

pop

lunedì 19 ottobre 2020

Il Bue!

 

L’uscita della biografia del bassista degli Who, John Entwistle, mi fornisce l’occasione per una breve riflessione sul musicista e anche sul gruppo. The Ox, il bue, il soprannome di Entwistle, è sempre stato considerato un musicista tranquillo, probabilmente surclassato dalle personalità debordanti degli altri Who. Tuttavia questo non ha impedito, anche a lui, di vivere in modo dissoluto e ben sopra le righe, dimostrando nei fatti, ahimè, di non essere certo la pecora nera del gruppo. Ma, a parte gli eccessi e le sregolatezze, mi interessa analizzare, seppur brevemente, il musicista, il suo rapporto interno alla band, il suo ruolo. 


Di una tecnica eccezionale, in grado di suonare e arrangiare anche strumenti a fiato, autore parco ma di notevole talento, John Entwistle è stato allo stesso tempo la tipica figura del bassista rock e un’incredibile anomalia.

Come detto, fuori dai riflettori e in secondo piano rispetto ai vari Townshend, Daltrey e Moon, il bassista degli Who ricalca in questo, pienamente, il ruolo e l’estetica del bassista in ambito rock. A parte poche figure, il bassista elettrico, nel suo particolare ruolo ritmico e melodico, è quasi sempre in ombra, chiuso in quel suo agire di raccordo, lavorando ritmicamente e sorreggendo o talvolta evocando linee melodiche. Non c’è dubbio che chitarristi, cantanti e persino batteristi lo abbiano messo in secondo piano. Insomma, è raro trovare un frontman al basso, a parte ovviamente qualche caso. 



Ma Entwistle si discosta contemporaneamente da questo clichè, invero con poche eccezioni, proprio per quel suo particolare modo di suonare, che è assai lontano dalle pratiche del bassista rock. Provate ad ascoltare con attenzione il lavoro del basso su qualsiasi brano degli Who: c’è una varietà, un movimento e un’inventiva tali da dar vita a continui giri, linee melodiche, accompagnamenti, il tutto non mollando neanche per un attimo l’impulso ritmico, l’accordo con quell’incredibile batterista che è Keith Moon, altrettanto creativo nell’accompagnare i brani. E’ quasi una sorta di ribollio continuo, di infiorettamento che però diventa sostanza, tutto teso a sorreggere la linea vocale e allo stesso tempo a decorarla. In realtà la vera funzione ritmica è data dalla chitarra di Townshend. E’ lui che mantiene la staticità tipica del rock, il legame con la terra, mentre la ritmica sembra svolazzare in alto, quasi libera. Potremmo pensare di paragonarla alle ritmiche jazz, se non fosse che il drumming di Moon è così irruento e vigoroso da non potersi certo confondere con la finezza e l’interplay tipico di un batterista jazz. 

Tuttavia il basso di Entwistle effettivamente può avvicinarsi all’approccio jazzistico. Rispetto all’agire rock John elabora una pratica assolutamente composita che lo porta a non lavorare su giri stabili che si ripetono, ma a modificare incessantemente le linee di basso, in questo avvicinandosi al bassista jazz, il quale interpreta e dialoga continuamente con il solista da una parte e con il resto della ritmica dall’altra. Il tutto lo fa con una scioltezza e una spontaneità unici nel panorama popular, come se stesse compiendo la cosa più semplice al mondo. E basta così guardarlo, nei tanti filmati a nostra disposizione, con quella sua aria distaccata, da gentleman, come se fosse da un’altra parte rispetto alle intemperanze degli altri Who. Ma quelle sue dita della mano destra che blandiscono le corde dello strumento in modo gentile ma con una velocità e un'agilità incredibili, stanno lì a mostrarci come la sua flemma sia solo di facciata, mentre musicalmente produca un torrente di idee, un effluvio di creazioni ritmiche e melodiche da far girare la testa.


Speriamo solo  venga tradotta e pubblicata presto anche in Italia questa biografia: di certo ne leggeremo delle belle!


pop


martedì 13 ottobre 2020

La materia viva

Dopo averlo sfiorato varie volte, mancato per un soffio o perso all'ultimo istante, sono riuscito finalmente a vedere Richard Sinclair in concerto dal vivo.

Bassista, chitarrista, cantante, autore, membro dei Caravan e prima ancora dei Wilde Flowers, poi con Hatfield And The North, Camel, oltre a svariate collaborazioni sempre tra Canterbury e dintorni, Sinclair di quella scena musicale è stato uno dei protagonisti, avendo contribuito negli anni a segnarne le coordinate artistiche. Di più, la sua voce, il suono del basso, le sue composizioni rappresentano forse il nucleo centrale della musica canterburiana, l'essenza stessa. Ma questo è un discorso che necessita di approfondimenti e analisi che non è il caso di trattare, per ora, su questo blog.

Interessante, invece, è stato scoprire come quella musica, nelle mani e nella voce di un Sinclair ormai in là con gli anni e in solitudine (ma accompagnato comunque da un bravo Gianluca Milanese al flauto), fosse ancora viva, pulsante e...inaspettata. Ricchezza armonica, progressioni di stampo jazzistico e  sommovimenti ritmici hanno reso le versioni di Share It, Keep On Caring, Disassociation, If I Could Do It All Over Again...ancora fresche e sorprendenti, pur in una dimensione intimista. E hanno mostrato anche le notevoli capacità strumentali e interpretative di Sinclair. Sembrava musica scritta ora, assolutamente priva delle incrostazioni e della pesantezza che tanta musica degli anni '70 porta con se. Ma tutto questo è frutto di un approccio creativo alla composizione, movimentato, ironico. E attraversato in lungo e largo da un impeto improvvisativo che ha reso per l'appunto viva la materia. Dove improvvisazione significa dare forme nuove alle composizioni, mutarle e reinterpretarle in un continuo rigenerarsi. Cosa che a Sinclair riesce benissimo.


Un'ultima annotazione, diciamo così, tecnica, che riguarda la differenza delle musiche autenticamente canterburiane da quelle classicamente progressive rock. In questa versione scarna e solitaria si può meglio osservare come i brani, in questo caso di Richard Sinclair ma il discorso vale per l'appunto per il resto della scena di Canterbury, siano composti e attraversati da armonie di stampo jazzistico, i famosi accordi di undicesima e tredicesima che Dave Stewart, tastierista tra gli altri degli Hatfield And The North e dei National Health, affermava essere una delle caratteristiche della musica di Canterbury. Questo tipo di accordi ammorbidisce le atmosfere e le espande, dandogli un senso di leggerezza, in contrasto con la durezza e l'ampollosità dovute all'uso massiccio di triadi in ambito Prog. Ancora, questa ricchezza armonica favorisce, per l'appunto, un approccio improvvisativo costante e permette una malleabilità non certo così comune nel rock. Se a questo aggiungiamo il disincanto, il gioco, l'ironia diffusa che stempera anche le situazioni più seriose e formali, quasi dissacrandole, beh potremmo forse dire di aver scoperto la formula segreta della musica di Canterbury. 

pop

mercoledì 26 agosto 2020

I paesaggi sonori di Nils Petter Molvaer

Seguo, anche se discontinuamente, Nils Petter Molvaer dal 1997, anno del suo esordio discografico solista con Khmer, edito dalla ECM. E che ritengo tuttora il suo disco migliore, tanto per mettere subito in chiaro le cose. Trombettista norvegese, dal suono caldo e spesso filtrato elettronicamente, Molvaer è sicuramente figlio del Davis di fine carriera, con quell'accenno di note che ampliano e dilatano lo spazio sonoro. Anzi, possiamo dire che l'estetica di Molvaer sia una versione omeopatica di Miles Davis, dove le tracce del grande jazzista sono diluite in dosi infinitesimali pur contenendo in sé evidentissimi residui  della materia originale. 



La musica di Molvaer è veramente fatta di poche note, frammenti di scale e singoli suoni che viaggiano nel tempo, circondati e intrisi di elettronica ma con un forte respiro umano. Khmer, da questo punto di vista, è illuminante per il suo mirabile equilibrio e la bellezza di struggenti melodie irrobustite da scariche elettriche. Tuttavia lo stile del trombettista norvegese, così essenziale, stringato, minimalista, può correre il rischio di ripetersi, di sfiorare il già sentito, l'ovvietà di suoni e melodie abusate. Ed è per questo, forse, che Molvaer è un abile ricercatore di diversi paesaggi sonori, instancabile nel voler cambiare incessantemente il contorno della sua poetica. 


Così lo vediamo passare dalle sonorità elettroniche e trance, al dub con Sly & Robbie, dalla collaborazione con il multistrumentista tedesco e produttore techno Moritz Von Oswald, ai groove di Manu Katchè o al world jazz con il percussionista Mino Cinelu. Senza disdegnare i madrigali delle Nordic Voices con musiche composte da Bjorn Bolstad Skjelberg, gli incontri con la percussionista Marilyn Mazur, le lunghe frequentazioni con Bill Laswell o con il suo fidato chitarrista dall'impatto rock Edwin Aarset. Ma l'elenco è ancora più lungo, a dimostrazione di una grande versatilità di Molvaer
Ma come si traduce questo continuo intreccio di diverse sonorità e ambientazioni musicali con l'estetica minimale del trombettista? Sembra che Molvaer abbia la grande capacità di modificare il senso profondo dei diversi contorni nei quali partecipa o ne è l'artefice, quasi che quel suo suono ammanti di malinconie e sospiri tutto ciò con cui entra in contatto. Talmente forte il  tocco, la mano, da modificare il paesaggio sonoro con semplici pennellate. E alla fine ogni progetto nel quale Nils Petter Molvaer è presente porta inconfondibili tracce di quel sound così caratteristico prodotto dalla sua tromba. Un'estetica assolutamente non basata sul virtuosismo ma sul suono, sul respiro e sullo spazio. Un pittore dai gesti essenziali, intensi.  





pop

venerdì 19 giugno 2020

Minimalisti di tutto il mondo, unitevi!

Il buon Terry Riley probabilmente una statua se la meriterebbe, non fosse altro per la duratura influenza che ancora esercita in ambito popular e non solo. Sembra che il suo minimalismo (e quello di Steve Reich e Philip Glass ovviamente) sia diventato una sorta di fuga ideale per molti musicisti, ormai propensi a cercare nell'ipnotismo ripetitivo il loro campo ideale.

 

Non può essere certo un caso il fenomeno Necks, arrivati ormai con l'ultimo Three, al ventunesimo album. C'è da dire che il trio australiano è certo il più aperto all'approccio improvvisativo, nondimeno il reiterare cellule melodico/ritmiche seppur improvvisate rimane la loro cifra stilistica, di certo affascinante. L'ultimo album continua a sorprendere pur restando all'interno della loro formula, con aggressioni ritmiche e paesaggi lunari, dolci arpeggi di pianoforte e iterazioni morbide. 


Ma in questo panorama geograficamente insolito dall'Australia si passa abbastanza sorprendentemente alla Svizzera. Qui la rotondità e anche l'estrema varietà di atmosfere dei Necks lascia spazio a formule matematiche, a veri e propri inserti ipnotici che trascinano l'ascoltatore in un'altra dimensione. Il pianista Nik Bartsch e il suo progetto Ronin sono rigorosi in questo approccio minimale. Cellule ritmiche e frammenti melodici si accumulano lentamente senza lasciare spazio a interferenze soliste, sfruttando al massimo l'elemento ossessivo. Il loro zen funk, come lo stesso Nik descrive la musica del gruppo, esiste dal 2001 e quindi anch'esso vanta una lunga militanza nei territori dell'accumulazione. Non sorprende, quindi, che abbia fatto proseliti. 


Il quartetto Sonar (minimal progressive groove band si definiscono), sempre svizzero, in questi ultimi due anni ha incluso tra le proprie fila, come ospite ma pienamente dentro il progetto, nondimeno che David Torn, chitarrista americano attivo nei territori sperimentali e sempre presente in uscite discografiche e progetti di alto livello. Qui a dominare le cellule musicali sono le chitarre e, a differenza dei Ronin, il materiale ipnotico è stemperato da lunghi paesaggi sonori che delineano sopra l'ossessività ritmico/melodica squarci spaziali, fughe stellari. Nondimeno l'elemento minimalista è preponderante e ricorda talvolta i King Crimson di Discipline, soprattutto il brano omonimo. Infatti il chitarrista Stephan Thelen (autore anche di pregevoli lavori solisti)  ha partecipato ai seminari di Robert Fripp e alcune sue composizioni sono state eseguite dal Kronos Quartet, altro mirabile esempio di minimalismo e longevità.
 

Proseguendo in questa rapida carrellata giungiamo finalmente là dove tutto è nato (o almeno sembra essere nato), gli Stati Uniti. I Sunwatchers sono un quartetto proveniente da Brooklin e, rispetto agli esempi precedenti, sono forse i meno minimalisti. Contraddistinti da un' anomala tessitura di sax e chitarra elettrica, i quattro (aiutati spesso da ospiti), pur lavorando su intrecci ripetuti spesso lasciano il campo a variazioni, inserti inquieti e assoli, lasciando respirare profumi psichedelici e aromi jazz. 


A chiudere il lotto (ma sicuramente di gruppi e progetti ce ne sono molti altri), sempre da New York, i 75 Dollar Bill, duo formato da Che Chen (chitarra) e Rick Brown (batteria). Qui il minimalismo mostra evidenti i suoi contatti con la musica folkloristica, in questo caso dalla Mauritania e da uno dei suoi gruppi etnici, i Mauri, con sovrapposizioni di ritmi e riff. Ma è abbastanza chiaro che tutti questi lavori, al di là dei compositori americani come Riley, Reich e Glass, fondino le loro radici in gran parte nella musica africana, nelle sue lunghe espressioni sonore fatte di ritmi intrecciati e linee melodiche. 


Possiamo benissimo allargare il campo anche ad altre forme musicali folk, lì dove la musica era strumento di ritualità, utile e necessaria alle popolazioni per entrare in contatto con altre dimensioni, spirituali e corporee. E qui veniamo a una breve riflessione sul significato di queste musiche che fanno della ripetizione la loro cifra stilistica. Un aspetto fondamentale è la lunghezza delle composizioni, in apparente contrasto con un mondo dove l'attenzione è minima e il messaggio deve essere veloce, rapido e conciso. Ma probabilmente è proprio questa la ragione del relativo successo di questi minimalismi. E' come se, a fronte di una continua sollecitazione visiva, sonora e intellettuale, questi musicisti cercassero un rallentamento, o meglio un'interruzione del flusso di informazioni portando gli ascoltatori in un'altra dimensione. La lunghezza e la reiterazione, l'ossessività e l'elaborazione di pochi parametri che lentamente si modificano, produce la creazione di un paesaggio sonoro che frena le modificazioni della nostra mente. E tutto sommato non sarebbe male fermarsi un attimo e uscire dal vortice, lasciarsi trasmutare in una trance sonora, un buco spazio/temporale che ci lasci assaporare un diverso fluire del tempo, più esteso e multiforme. 

Piccola discografia consigliata

The Necks, Hanging Gardens, Fish Of Milk, 1999
The Necks, Drive By, Fish Of Milk, 2003
The Necks, Three, Fish Of Milk, 2020
Nik Bartsch's Ronin, Stoa, ECM, 2006
Sonar With David Torn, Vortex, RareNoise, 2018
Sonar With David Torn, Tranceportation Vol.1, RareNoise, 2019
The Sunwatchers, Oh Yeah?, Trouble In Mind, 2020
75 Dollar Bill, I Was Real, Thin Wrist Recordings, 2019

pop
  

venerdì 22 maggio 2020

Four


Questa è la prima incisione di uno dei classici di Miles Davis, uno dei suoi cavalli di battaglia per lungo tempo, divenuto giustamente un famoso standard. Ho ascoltato questa versione in un bellissimo cd antologico uscito in edicola per la Armando Curcio Editore nel 1991, Dizionario Enciclopedico del Jazz, con una presentazione nel booklet di Franco Fayenz. E l'ho sempre considerata un capolavoro. Se qualcuno mi chiedesse cos'è il jazz, ecco, probabilmente farei ascoltare questo brano. Mi sembra tutto così perfetto, sensuale, commovente, di un calore intenso e di una liricità unica. Il brano, le improvvisazioni di Davis e di Horace Silver, l'accompagnamento e le interazioni di Percy Heath e Art Blakey, la ripresa del tema modificato e anche lo strano finale che lascia tutto in sospeso, come se non finisse mai quell'emozione.  


Sono andato, con il tempo, ad indagare su quella registrazione, a cercare di scoprire le vicende intorno a quella musica, le circostanze e il momento storico. Non senza sorprese, ho scoperto che questa versione di Four è, per l'appunto, la prima ad essere stata incisa e venne pubblicata in un Lp a 10 pollici della Prestige (una sorta di mini Lp) dal titolo Miles Davis Quartet. Il disco in realtà fu registrato in due session differenti. La prima facciata è del 19 maggio 1953 mentre la seconda è del 15 marzo 1954. Diverse anche le formazioni: nel 1953 oltre a Davis abbiamo John Lewis al piano, Percy Heath al contrabbasso (il Modern Jazz Quartet!), Max Roach alla batteria e, solo in Smooch, un inedito Charles Mingus al piano al posto di Lewis. La seconda facciata, con Four, That Old Devil Moon e Blue Haze, vede al pianoforte un giovane Horace Silver, al contrabbasso sempre Percy Heath e alla batteria Art Blakey. Nella prima facciata i brani sono When Lights Are Low, Tune Up, Miles Ahead e, come detto prima, Smooch
 
A parte questi dettagli, più interessante è sapere in quali circostanze Davis si trova a registrare questo particolare Lp, e soprattutto i brani della seconda facciata tra i quali Four. Nella sua splendida autobiografia Miles racconta come in quel periodo la sua dipendenza dall'eroina fosse un grosso problema, non solo fisico e mentale ma anche musicale. La difficoltà nel suonare, nel concentrarsi, e la schiavitù dovuta alla droga che lo rendeva nervoso e incapace di organizzare la sua vita, artistica e non.  In poche e struggenti pagine racconta del suo tentativo di disintossicazione, e del dolore e della fatica di quei giorni chiuso a chiave in un piccolissima dependance della casa del padre. Alla fine ce la fa, ma non sarà un'uscita definitiva. 
Per evitare di avere troppe tentazioni con la droga, invece di tornare a New York, dove era più semplice procurarsela, si rifugia per qualche mese a Detroit. Poi, sentitosi più sicuro, agli inizi del 1954 torna nella Grande Mela e inizia a registrare sia per la Blue Note che per la Prestige. 


Ancora alcuni particolari: il brano, Four, è sempre stato attribuito a Miles Davis, ma il sassofonista Eddie Cleanhead Vinson ne ha rivendicato la paternità, insieme ad un'altra bella composizione anch'essa attribuita a Davis, Tune Up. Sembra che Miles abbia composto e registrato Four perché in quel periodo voleva suonare in quartetto, come poi avvenne in effetti. Al suo ritorno a New York, visto che aveva perso la sua tromba, noleggiò numerose volte quella di Art Farmer, e probabilmente Four venne registrata proprio con questa. 
  
Ma perché individuare questa registrazione come dimostrazione di autentico jazz, come un archetipo della musica afroamericana? 
Ognuno di noi porta con se emozioni che tracciano il proprio percorso di vita e che sfuggono naturalmente a spiegazioni oggettive. Abbiamo dei piccoli tesori che ogni tanto riapriamo e che ci illuminano il cammino, ci guidano talvolta, oppure ci accompagnano. Per chi suona, oppure per chi scrive, dipinge, recita, l'individuazione di questi modelli rappresenta una continua fonte di ispirazione. E si torna lì, alla sorgente, per continuare ad irrorarsi di idee e stimoli, sperando di trovarne sempre. 

Four è così semplice e allo stesso tempo così affascinante. Quel suono unico di Davis che tratteggia con assoluta naturalezza melodie instancabili. Quel suo stare sul tempo e dentro al tempo, quel suo posarsi sul timing in maniera delicata ma sicura. I silenzi che si incastonano nelle intense frasi suonate da Davis stimolano un ascolto continuo e incessante. Vorresti risentire continuamente il brano per scoprire i segreti di una bellezza così eterea e allo stesso tempo avvolgente, ammaliante. 
E poi c'è Percy Heath con quel suono di contrabbasso così rotondo e morbido che danza costante, sotterraneo. Horace Silver che sottolinea e dà vigore all'improvvisazione, e a sua volta si produce in un assolo anch'esso così semplice, lineare e per questo suggestivo. La batteria di Blakey che tinge di striature velate tutto il brano,  accompagnandolo verso un flusso continuo che scorre intenso, a contrappuntare le emozioni. 

Questo Four possiede un raro equilibrio, tutte le dinamiche e gli eventi si susseguono come se fossero inevitabili, desunte dai contesti precedenti, dalle intuizioni e dalle proposizioni. Appare tutto semplice e naturale, come se ci fosse sempre stato.  Ed è questo, forse, il suo più grande pregio. 

Ognuno di noi ha un suo Four, e anche più d'uno ovviamente. Proverò a scovarne, tra conferme e sorprese, com'è giusto che sia, tra le scene musicali. Di tanto in tanto. 



pop

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