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venerdì 26 febbraio 2021

Weird Tales. Il giardino dei Trees: tra folk e psichedelia!

 

Il grande patrimonio folk anglo-scoto-irlandese è stato una delle caratteristiche forse meno evidenti dell’esplosione del rock inglese, spesso oscurato dal blues, dallo skiffle e dal rock’n’roll, musiche più chiaramente riconoscibili nella costruzione della British Invasion. Eppure, quelle centinaia di ballate che si sono trasmesse oralmente per tutta la Gran Bretagna e l’Irlanda, sconfinando anche negli Stati Uniti, sono state il substrato di tanta musica inglese, primi fra tutti i Beatles. È un patrimonio che è stato sottovalutato ma che con tutta evidenza rappresenta quell’elemento particolare, quell’ingrediente speciale che ha permesso la nascita e lo sviluppo del rock d’Albione. Tale è stata la forza di questo retaggio culturale da aver dato vita anche ad un vero e proprio genere musicale, il cosiddetto folk rock, che ha prodotto dei veri capolavori ed una serie di gruppi eccezionali. La triade Fairport Convention/Pentangle/Steeleye Span, con la Incredible String Band a fare da stralunato e sperimentale jolly, già di per se mostra la ricchezza e lo splendore di una musica ancorata si alla tradizione ma in grado di rinnovarsi e sperimentare nuove sonorità e nuovi approcci musicali. Il rock, il jazz e il blues hanno contribuito a dare una nuova luce alle ballate e alle canzoni tradizionali, dimostrando che un materiale, pur antico, può e deve avere sempre una nuova vita. 



Tra i numerosi gruppi e musicisti che hanno attraversato la gloriosa stagione del folk rock, tra il 1968 e il 1973, i Trees rivestono un ruolo particolare, lontani dal successo eppure autori di una miscela originale e significativa, con quel loro folk psichedelico, tra la California e le campagne inglesi. Bias Boshell, principale autore, bassista e tastierista, Barry Clarke, chitarra solista, David Costa, chitarra acustica e ritmica, Unwin Brown, batterista, e Celia Humphris, cantante, formano nella primavera del 1969 uno dei tanti gruppi che andrà ad arricchire il folto immaginario inglese, la nuova Arcadia, un paesaggio preindustriale, popolato da esseri fantastici e ricco di melodie e suoni naturali, con le foreste incontaminate e i bardi che narrano leggende d’altri tempi. Da questo punto di vista i Trees non sfuggono all’estetica folky del periodo, e gran parte della loro musica sarà tratta dal patrimonio folkloristico opportunamente riarrangiato, sulla falsa riga di ciò che facevano Fairport, Pentangle e tanti altri. Ma in loro c’è un approccio in parte diverso dagli altri gruppi folk rock. Potremmo quasi dire che l’esperimento Trees coniuga gli ultimi lasciti della rivoluzione pop di entrambe le sponde dell’oceano con il susseguente ripiegamento in ambito “fantasy”, di un immaginario lontano dalla contemporaneità e situato in un passato fiabesco. Da questo punto di vista non avremmo molta difficoltà a leggere come una tendenza comune e omogenea l’Arcadia folk con la Terra del Grigio e Rosa o le copertine di Roger Dean così come le atmosfere barocche dei Gentle Giant o la pastoralità di certi Genesis.

Tuttavia, nei Trees è possibile rintracciare consistenti elementi che contaminano e cambiano di segno le atmosfere e le musiche del repertorio tradizionale da loro arrangiato. Elementi potremmo dire progressivi, che di fatto rimandano spesso alla musica psichedelica, alle lunghe improvvisazioni e ad atmosfere dilatate.

L’esordio è su CBS, The Garden Of Jane Delawney, registrato all’inizio del 1970 e pubblicato il 24 aprile dello stesso anno.  La produzione è di David Howells e di Terry Cox (Caravan, Yes, Family e tanti altri) mentre la copertina è opera dello stesso David Costa, uno stupendo disegno in stile Magritte.  Metà dei brani sono tradizionali, ovviamente riarrangiati, mentre il resto sono a firma di Boshell e il primo brano del disco è opera di tutto il gruppo. L’album è caratterizzato da un alternarsi tra acustico ed elettrico, un aspetto comune a tante altre opere di folk rock. Spesso l’elemento elettrico, sporco, aggressivo, è riservato ad intermezzi che spezzano le composizioni e introducono, per l’appunto, altri territori, dove la chitarra elettrica è protagonista. Alcune volte questa operazione sembra un po’ meccanica, frutto di giustapposizioni, nondimeno il risultato è pregevole e affascinante. Il brano di apertura mostra già gli inequivocabili segni della musica dei Trees, a cavallo tra folk e psichedelia, una ballata attraversata in lungo e largo da una chitarra elettrica dal netto sapore West Coast, a tratti simile al Kaukonen lisergico, anche nel suono oltre che stilisticamente. L’eterea e delicata voce di Humphris, tipicamente folk, è contrappuntata dal solismo di Barry Clarke e rende questa Nothing Special un giusto mix tra energia rock e sapori pastorali. The Great Silkie e Lady Margaret sono esemplificativi del lavoro di arrangiamento che i Trees compiono sul materiale tradizionale. La prima è tratta dal repertorio delle isole Orcadi in Scozia e narra le vicende di un uomo che si trasforma in un animale acquatico soprannaturale. Qui la ballata dolce e appena segnata da leggeri tocchi elettrici si trasforma in una cavalcata psichedelica grazie ad un intermezzo dove le due chitarre soliste intrecciate ricordano atmosfere decisamente acid rock.  La seconda, ballata apparsa in Inghilterra intorno al diciassettesimo secolo e chiamata anche Lady Margaret And Sweet William, ha un inizio alla Fairport, tra chitarre acustiche ed elettriche pulite per poi, anch’essa, irrobustirsi e distorcersi, con una ritmica vivace ed incalzante. She Moved Thro’ The Fair, antica ballata irlandese del Donegal, registrata anche dai Fairport Convention nel loro secondo album, mostra un Bushell virtuosistico, con il suo strumento a disegnare continue linee melodiche, quasi una sorta di Jerry Garcia del basso, e poi un’improvvisazione collettiva coinvolgente ed affascinante, per uno dei migliori brani dell’album. E dai Fairport si passa ai Pentangle, perché Glasgerion altri non è che la Jack Orion del gruppo di Jansch e Renbourn. Una delle 305 tradizionali ballad raccolte da Francis James Child nella seconda metà del diciannovesimo secolo, Glasgerion venne modificata in Jack Orion (con il protagonista della storia che da suonatore d’arpa diventa violinista!) dal folk singer A.L. Lloyd negli anni 60 e quindi poi ulteriormente trasformata dai Pentangle nel loro stupendo Cruel Sister. Qui la versione dei Trees è leggermente più veloce, con cambi di tempo e un’elettrificazione moderata, un andamento tradizionale e una voce non sempre all’altezza, pur se ricca di fascino.  I brani originali di Bushell spaziano dal country rock di Road, con la voce del bassista ad alternarsi con quella della Humphris, alle atmosfere tipicamente folk di Epitaph, contraddistinto da una splendida chitarra arpeggiata, oppure alle suggestioni West Coast di Snail’s Lament, dove il canto della coppia Bushell Humpris ricorda gli impasti vocali dei primi Jefferson Airplane. Menzione speciale la merita la title track, scritta sempre da Bushell, un piccolo gioiello acustico, impreziosito dal dulcimer e con un atmosfera cupa, triste, il giardino di Miss Delawney colmo di sogni gotici e selvagge fantasie.

Il primo album dei Trees non ottiene il successo sperato, pur essendo inequivocabilmente un ottimo disco, ma il gruppo va avanti, suona regolarmente, anche se soprattutto nei circuiti universitari, ed ha il sostegno di importanti dj come John Peel e Pete Drummond (che più tardi sposerà proprio la cantante Celia Humphris). E quindi a fine anno arriva un nuovo album, On The Shore, registrato nell’ottobre del 1970 e pubblicato sempre dalla CBS, con una stupenda copertina frutto del lavoro di Storm Thorgesen, dello studio Hipgnosis.



Questo secondo, e ahimè ultimo lavoro ufficiale dei Trees, è sicuramente più organico, il materiale è ben amalgamato e fluido, la voce della Humphris più intraprendente e i suoni, soprattutto della chitarra elettrica, maggiormente definiti e originali. Ma in generale il gruppo appare più maturo e sicuro delle proprie scelte stilistiche così da dare a On The Shore la peculiarità di piccolo capolavoro discografico, purtroppo misconosciuto. Prodotto sempre da Tony Cox (che appare anche al basso in Sally Free And Easy), il disco si apre con Soldiers Three, una ballata composta da Thomas Ravenscroft nel sedicesimo secolo e ideale introduzione al nuovo lp, con le voci di Bushell e Humphris perfettamente combinate e un intermezzo acustico a spezzare l’andamento energico del brano. Murdoch e While The Iron Is Hot sono gli originali di Bushell, che mostra ancora una volta la sua grande capacità di scrivere sia vibranti e serrati scenari come nel primo caso, oppure struggenti melodie, splendidamente arricchite dagli archi, con al loro interno intermezzi classicamente rock, come nel secondo. Little Sadie, un traditional americano, è un simpatico country rock con la voce di Humphris perfettamente calata nel mondo di Nashville, mentre Geordie, una delle tante antiche ballate raccolte da Francis James Child, è delicata, rilassante, punteggiata da una chitarra elettrica discreta e dal solismo appena accennato. Ma il cuore pulsante di On The Shore è rappresentato dal tradizionale Streets Of Derry, con le chitarre elettriche che dialogano nel lungo finale e il basso di Bushell a sostegno delle improvvisazioni, una lunga suite psichedelica di grande fascino. E da Sally Free   And Easy, del folk singer Cyril Tawney, registrata dal vivo in studio al termine di una lunga giornata e provata solo mezz’ora prima, introdotta da un suggestivo pianoforte che poi lascia spazio alle chitarre acustiche ed alla voce limpida e intensa della Humphris. Sono 10 minuti di un incredibile crescendo con tutti gli strumenti che si rincorrono tra loro a delineare un paesaggio sonoro dilatato, vivido, di una luce sognante. In questi due brani i Trees mostrano la loro straordinaria abilità nell’amalgamare linguaggi differenti e creare un folk psichedelico di grande spessore e qualità. Resta da dire ancora dell’originale Fool, scritto da Bushell e Costa, dalle movenze ipnotiche e decisamente rock, l’acquerello acustico dal sapore medievale Adam’s Toon, scritto dal compositore e poeta francese Adam de la Halle vissuto nel tredicesimo secolo, e la tradizionale Polly On The Shore (conosciuta anche come The Valiant Sailor, popolare sea song apparsa  per la prima volta intorno al 1744 e dagli accenti antimilitaristi) a chiudere, con un’altra suite a forti tinte psichedeliche, un disco semplicemente irresistibile e coinvolgente.


 


 

Nel 1971 il gruppo si scioglie, per poi riformarsi brevemente l’anno successivo con Barry Lions al posto di Bias Boshell e Alun Eden alla batteria in luogo di Unwin Brown, con l’aggiunta al violino di Chuck Fleming. Nulla di ufficiale registrato, a parte un bootleg edito in Italia dalla Hablabel nel 1989 con materiale dal vivo e una copertina certamente non all’altezza dei due precedenti album. Purtroppo, anche la musica non è un granché, lontana dal fascino di On The Shore e The Garden Of Jane Delawney, un onesto folk con velate tinte rockeggianti, per di più di scadente qualità sonora.

Resta un mistero lo scioglimento dopo due dischi di assoluto valore, anche se probabilmente le vendite insufficienti e le recensioni non tutte positive hanno contribuito in maniera consistente alla fine del gruppo, lasciando ad un ultimo vano tentativo con una seconda line up la ricerca di quel successo che altre band dello stesso genere musicale avevano avuto in quel periodo. Successo che arrivò in parte, e postumo purtroppo, nel 2006 grazie al duo soul americano Gnarls Barkley che campionò, per la title track del loro disco St. Elsewhere, la versione dei Trees del traditional Geordie, vendendo milioni di copie.



Lo scorso anno, sorprendentemente, è arrivato un elegante cofanetto di quattro cd, corredato da booklet con foto e storia/storie del gruppo, che comprende i due album, un terzo cd di outtakes e remix e il quarto con delle session live alla BBC, più brani dal vivo suonati al Cafè Oto di Londra nel 2018 da una fantomatica On The Shore Band con i soli David Costa e Bias Boshell della formazione originaria. Un piccolo regalo che non fa che aumentare i rimpianti per una band che avrebbe avuto ancora molto da dire.

A noi rimangono musiche eccezionali che acquistano sempre più fascino nel corso degli anni, frutto di stagioni forse irripetibili e che fanno dei Trees certamente uno dei migliori gruppi non solo di folk rock ma della musica popular.

pop

mercoledì 10 febbraio 2021

L'arte del duo!





Ad integrazione di questo post dello scorso anno va aggiunto quello che probabilmente è il lavoro più affascinante del lotto: Keys, a nome del sempre attivo Bill MacKay e del virtuoso del clawhammer banjo Nathan Bowles. I due allestiscono un piccolo gioiello acustico, sempre con lo sguardo rivolto verso le profonde radici folk americane e con quei tocchi improvvisati seducenti, spazi distesi e accenni minimalisti. E se di Bill MacKay ne abbiamo già tessuto le lodi, altrettanto va fatto con il multistrumentista  proveniente da Duhram (North Carolina) Nathan Bowles, nato come batterista e percussionista ma riconvertitosi con meritato successo al banjo. Autore di una manciata di ottimi lavori in solo, in Keys Bowles dialoga perfettamente con il suo compagno intrecciando abilmente i suoni del suo banjo con le chitarre visionarie di MacKay. Un album assolutamente da ascoltare distesi sul divano, sognando ad occhi aperti un'altra America.  



Al centro di questi paesaggi sonori delineati in coppia, certamente anomali ma alquanto suggestivi, c'è lui, Ryley Walker, da Chicago. 

 


Di Walker se ne è parlato molto, giustamente, e speriamo se ne parli anche in futuro, in attesa di suoi nuovi lavori. Musicista particolare, profondo e creativo, autore di una progressione artistica notevole che in soli tre dischi solisti l'ha portato dalle lande intimiste contornate dai Van Morrison e dai Nick Drake, a territori più impervi, increspati dai rivoli dell'improvvisazione che certamente è di casa in quel di Chicago. Ma il chitarrista è personaggio da innumerevoli appetiti, in continua ricerca e voglioso di approdare in terre inaudite, per nulla fermo sugli allori. E' quindi abbastanza naturale che in questi anni, oltre alle sue opere soliste, abbia intrecciato e incrociato i destini e le musiche di altri inesauribili ricercatori di nuove sonorità, grazie anche all'ambiente favorevole a questo tipo di mutazioni che la città di Chicago, storicamente, offre ai suoi concittadini. 

Meno famoso di Walker, ma anche lui instancabile chitarrista, innovatore e sperimentatore, Bill MacKay è uno di quei musicisti che attraversano i generi con semplicità e spontaneità: dal folk all'avant-rock, al jazz e al blues, dalla collaborazione con la violoncellista della Chicago Symphony Orchestra Katinka Klejn a lavori in solitudine. In poche parole, un tipico prodotto della fertile scena di Chicago. 



E veniamo al terzo protagonista, Charles Rumback, batterista, bandleader e compositore di ambito free, essenzialmente un jazzista, autore di diversi lavori discografici, spesso in trio con il pianista Jim Baker e il bassista John Tate. Provenienza? Chicago, as usual!

Viste le biografie e la residenza comune era assai naturale che questi musicisti si trovassero insieme a collaborare, ovviamente su terreni a loro congeniali, di certo non inclini al mainstream. Ed è quindi con curiosità che mi sono avvicinato a questi lavori prodotti in coppia, due a nome Bill MacKay e Ryley Walker, gli altri due a nome Charles Rumback sempre con lo stesso Walker. Quattro dischi dalle atmosfere e dall'andamento simili, come se fossero suonati da un'unica band contraddistinta da una spasmodica ricerca a rifuggire le etichette, a travalicare gli stili, tutte qualità (perché di questo si tratta) che sembrano essere di casa nella dinamica ed effervescente Windy City, la Chicago del jazz e del blues, dell'Art Ensemble e della techno, del post-rock e della Symphony Orchestra.  



Tuttavia sbaglierebbe di grosso chi pensasse a lavori ardui, duri, di difficile ascolto. Tutt'altro. I tre hanno trovato in quel suono malinconico, pastorale, prettamente acustico, il luogo dove intrecciare le loro anime creative. Quella musica che viaggia tra folk e blues, tra John  Fahey e Nick Drake, il fingerstyle, i Monti Appalachi e i raga indiani, quel sapore di un'America d'altri tempi, ma anche quel richiamo d'Europa, con qualche sottile esotismo. Il tutto reso audace e intrigante da un approccio improvvisativo che attraversa tutti e quattro i lavori costantemente, dando un profondo senso di avventura a tutte le composizioni.  Ed è un piacere sopraffino perdersi nell'ascolto di queste lande. 

Più elettrico e psichedelico Cannots, il primo lavoro di Walker con Rumback, ampiamente improvvisato e vicino a certe atmosfere alla Grateful Dead, mentre il secondo lp, Little Common Twist, è pacato, arioso, sostenuto talvolta dall'elettronica di John Hughes, ma in modo delicato, a far risaltare la compostezza acustica del disco e la morbida batteria di Rumback.

SpiderBeetleBee, con Bill MacKay, è un trionfo di chitarre intrecciate, melodie folk, richiami blues e suggestioni agresti. I due chitarristi, anche qui talvolta aiutati dal violoncello di Katinka Kleijn o dalle percussioni di Ryan Jewell, esplorano con profondità quel mondo acustico che fa riferimento a John Fahey e a Bert Jansch, America ed Europa, folk e blues, radici e sguardi improvvisati. Stesso discorso per il loro primo disco, Land Of Plenty, con qualche richiamo esotico e medievale in più, ma sempre con un'originalità e un'intensità davvero uniche. 



Quattro dischi che ci mostrano un'America differente, quasi compassata, riflessiva, attenta a ricordare i suoi legami con l'Europa ma ricca di pulsioni improvvisate che scorrono sottotraccia, a rinvigorire vecchie melodie e atmosfere sospese nel tempo. Ai quali può benissimo essere aggiunto Fountain Fire, lavoro solista di Bill MacKay, che scorre fluido negli stessi territori. 

Se Ryley Walker di attenzioni ed elogi ne ha avuti molti, credo che altrettanto vada fatto con questi suoi due compagni di viaggio e concittadini, Charles Rumback e Bill MacKay.

 


https://open.spotify.com/playlist/35SZEICX1pJyEfLLWsgtnL?si=A6D4fD-PRmK_kxrH-SUIxA


Bill MacKay - Ryley Walker "SpiderBeetleBee" Drag City, 2017

Bill MacKay - Ryley Walker "Land Of Plenty" Whistler Records, 2015

Charles Rumback - Ryley Walker "Little Common Twist" Thrill Jockey, 2019

Charles Rumback - Ryley Walker "Cannots" Dead Oceans, 2016

Bill MacKay "Fountain Fire" Drag City, 2019

Bill MacKay - Nathan Bowles "Keys" Drag City, 2021


pop

giovedì 7 gennaio 2021

Weird Tales. Twink, the pink drummer

Le avventure di un batterista underground tra psichedelia e punk

 

Le vicende della musica rock inglese hanno spesso nascosto o messo da parte i personaggi che non rientravano nella trattazione classica, quelli che esulavano dai generi o se ne mantenevano ai margini. Nel racconto emerge sempre un susseguirsi di eventi che sembra stritolare le personalità contrastanti e fluttuanti. Eppure, il nostro Twink (all’anagrafe John Charles Edward Adler), magistrale batterista, cantante, attore, si è trovato nel corso della storia al posto giusto e nel momento giusto, niente da dire su questo. Nella Swingin’ London e nella Londra del punk, all’Ufo club come a Ladbroke Grove o tra le fila della Chiswick Records, la prima indie label britannica.  È stato l’ultimo hippy e allo stesso tempo un punk ante litteram, ma tutto questo invece che portargli gloria ha finito per lasciarlo ai margini, forse volutamente.



Batterista dei Tomorrow, mitico gruppo psichedelico con lo Steve Howe dei futuri Yes nelle fila, artefici di due fra i più popolari singoli della Londra Underground del 1967, My White Bycicle e Revolution, e di un omonimo Lp, Twink poi approda in un’altra grande band della Londra alternativa, i Pretty Things. Ma prima di approdare nel gruppo di Phil May e Dick Taylor forma un duo con l’ex bassista dei Tomorrow John “Junior” Wood chiamato The Aquarian Age e registra un singolo, 10.000 Words In A Cardboard Box/Good Wizard Meets Naughty Wizard, che poi ritroveremo più avanti nella nostra storia. Ma, come dicevamo, Twink, ormai già famoso nei circuiti alternativi, prende il posto di Skip Alan dietro i tamburi dei Pretty Things e registra con loro uno dei capolavori del rock inglese. S.F. Sorrow, pubblicato nel dicembre 1968, è il disco della svolta psichedelica del gruppo basato sulla storia drammatica del protagonista Sebastian F. Sorrow.  Primo concept album che anticipa il Tommy degli Who, purtroppo per il gruppo non riscuote il successo sperato e questo provoca l’abbandono temporaneo del chitarrista Dick Taylor nel giugno del 1969. A questo punto Twink, pur essendo formalmente ancora un membro dei Pretty Things, inizia a pensare in proprio e registra alcuni demo insieme al suo vecchio amico John “Junior” Wood e a Steve “Peregrin” Took dei Tyrannosaurus Rex di Marc Bolan. La Sire, un’etichetta discografica americana che aveva pubblicato il disco dei Tomorrow negli States, gli offre la possibilità di registrare un album a suo nome e lui, ovviamente, accetta. Il periodo certo non è lo stesso di qualche anno prima, quando una Londra effervescente era il luogo di residenza privilegiato della sperimentazione in tutte le arti, atmosfere vibranti cariche di creatività e ribellione. La psichedelia è ormai defluita nelle retrovie e una certa aria di riflusso pervade sia la società che ovviamente la musica. Nonostante questo Twink si imbarca in un progetto che tenta, con successo va detto, di tenere in vita quel mix di stravaganza, improvvisazione e visionarietà tipico della musica psichedelica e inizia le registrazioni del suo primo disco solista, Think Pink.


L’elenco dei musicisti che collaborano alla realizzazione del disco è significativo e anticipa anche gli sviluppi futuri della carriera di Twink. Accanto a Wood e Took ci sono membri dei Pretty Things come Phil May, il chitarrista Vic Unitt, il bassista Wally Allen e il tastierista John Povey. E poi il chitarrista Paul “Blackie” Rundolph, il bassista Duncan “Sandy” Sanderson e l’attivista e agitatore culturale Mick Farren, tutti membri dei Deviants, un gruppo garage rock dalle sonorità sperimentali e protopunk, una sorta di Fugs londinesi.

L’apertura è affidata a The Coming Of The Other One, caratterizzata da voci trattate, chitarre e sitar in sottofondo, in un paesaggio psichedelico vicino a Syd Barrett e con frammenti di un poema di Nostradamus sul Giorno del Giudizio. Il secondo brano è quella Ten Thousand Words In A Cardboard Box del singolo degli Aquarian Age, qui in una versione più psichedelica, con la chitarra di Paul Rudolph che attraversa tutto il brano e nel finale erompe in un assolo acido, allucinogeno, incalzato dalla movimentata ed agile ritmica di Twink e Junior Wood. Dawn Of Magic è un bordone ipnotico e surreale, un mantra colorato, mentre la successiva Tiptoe On The Highest Hill (già nel repertorio degli Aquarian Age) è, probabilmente, l’apice del disco. Una commovente e sognante ballad, con la strabiliante chitarra di Rudolph al contrario, che può benissimo dirsi l’essenza della musica psichedelica. Chiude la prima facciata Fluid, un inizio sexy con una voce femminile in estasi e un lungo e piacevole crescendo fino all’esplosione finale caratterizzata dagli accordi di una chitarra estremamente distorta e l’altra impegnata in brevi ricami psichedelici, con i piatti e le rullate di Twink ad esaltare il tutto.  

La seconda facciata del disco si apre con Mexican Grass War, musica free form elaborata collettivamente in studio, caratterizzata da tamburi di guerra e voci confuse, con la chitarra distorta che trafigge il brano fino ad un parossistico finale. Rock An’ Roll The Joint è una sorta di hard rock blues, dalle parti di Hendrix, mentre Suicide è in puro stile Tomorrow/Pretty Things di S.F.Sorrow, chitarre acustiche, stop and go e la solita atmosfera sognante e fluida. Three Little Piggies vede insieme Syd Barrett e Daevid Allen, una buffa filastrocca tipicamente sixties, un divertissement psichedelico. Chiude il disco The Sparrow Is A Sign, anch’essa composta in studio ma con un contributo particolare di Steve Took, ed è un anomalo e disorientante rock attraversato, al solito, da una grande lavoro di chitarra di Paul Rudolph.



Twink e i suoi compagni, con Think Pink, elaborano un piccolo capolavoro, certo nei suoni leggermente datato ma assolutamente ancora fresco nell’approccio e nello sviluppo di un linguaggio espansivo e sperimentale. Un disco di autentica musica psichedelica, una miscela di pop, rock e improvvisazione free form, con atmosfere dilatate e suoni eterei, melodie sognanti e stravaganze sonore.

Si tratta di quei lavori unici per certi versi, eccentrici e irripetibili che spesso sono poco conosciuti o apprezzati. Potrebbe essere fatto un parallelo con The End Of The Game di Peter Green, tra l’altro uscito nello stesso anno, il 1970, per come viene affrontata la materia musicale, e per il ruolo che riveste l’improvvisazione nella composizione delle musiche, anche se ovviamente il lavoro di Peter Green è innervato completamente di blues.

Come detto Think Pink, con la splendida copertina dello studio Hipgnosis, esce nel 1970 non prima di essere stato rimixato dallo stesso Twink, insieme a Steve Took, perché insoddisfatto del lavoro fatto da Mick Farren, che rivestiva per l’appunto il ruolo di produttore e arrangiatore. Nonostante questi contrasti con il leader dei Deviants, Twink è intenzionato a costituire una nuova band proprio con Mick e Steve Took, una specie di supergruppo composto da ex Pretty Things, Tyrannosaurus Rex e Deviants per l’appunto. È proprio per quest’entusiasmo riguardo il nuovo progetto che il disco solista di Twink praticamente non avrà promozione e verrà dimenticato dallo stesso autore, che lo considererà come una sorta di primo album della nuova formazione, i Pink Fairies.



Dopo un disastroso concerto a Manchester la nuova band finalmente si stabilizza con i vecchi membri dei Deviants Paul Rudolph, Duncan Sunderson, Russell Hunter (una line up con doppia batteria!) ma senza Mick Farren e Steve Took.  Il nome deriva da un locale chiamato Pink Fairies Motorcycle Club And All-Star Rock’n’Roll Band e ricorda la prima band di Twink, quei Fairies con i quali aveva registrato tre singoli intorno alla metà degli anni 60 e che si erano sciolti nel 1967.

A questo punto va avviata una riflessione, certamente breve in questo ambito, su quella corrente sotterranea che ha attraversato i sixties e la prima metà degli anni Settanta e che dalla scena psichedelica londinese, l’Ufo club e il 14 Hour Technicolor Dream, arriva dritta al punk. Una serie di musicisti e musiche che rimangono lontane dallo star system e dalle evoluzioni prog, restando fedeli a quell’approccio spontaneo verso la musica, anche scanzonato. Un intreccio di grezzo e sporco rock‘n’roll con suggestioni e sonorità psichedeliche, dilatate. E che si contrappone all’esasperato virtuosismo, all’esibizionismo delle rock star, in un’ottica ancora legata agli ambienti della controcultura attiva e militante, all’underground alternativo che sommuove la società. Questi musicisti, i Pink Fairies ma anche gli  Hawkwind (collaboreranno spesso insieme e daranno vita, ad un certo punto, ad un gruppo dal nome PinkWind), i Deviants di Mick Farren, Steve Cook, Larry Wallis e altri meno noti sono l’anello di congiunzione tra la controcultura dei sixties e la rivoluzione punk, e terranno in vita l’approccio libertario e hippy alla musica e agli eventi intorno ad essa, come festival, concerti e produzione di dischi. 



Da questo punto di vista il disco d’esordio dei Pink Fairies, Never Never Land, è significativo. Il brano d’apertura, quella Do It uscita anche come singolo (The Snake/ Do It, gennaio 1971, Polydor), è un graffiante inno alla rivolta e il titolo è ripreso dal libro di Jerry Rubin, l’attivista e politico radicale americano amico di Abbie Hoffman (Do It! Scenarios Of The Revolution, uscito nel 1970 e con l’introduzione di Eldridge Cleaver, esponente delle Pantere Nere). Twink ripubblicherà Do It nel febbraio del 1978, in piena era punk, per la Chiswick Records (Do It ‘77/Psychedelic Punkeroo/Enter The Diamonds  12”Ep a nome Twink And The Fairies) e verrà ripreso anche da Henry Rollins, l’ex frontmen dello storico gruppo punk californiano Black Flag, con la sua band nel 1988. Ma tutto il disco è un perfetto alternarsi di energici brani rock e composizioni dilatate, ancorate alla matrice psichedelica. Basterà citare, oltre a Do It, gli ultimi due brani di Never Never Land: la potente ed estesa Uncle Harry’s Last Freakout, cavallo di battaglia del gruppo dal vivo, un mix di grezzo e ruvido rock e lunghi assoli che espandono la composizione in una sorta di viaggio spaziale, mentre il finale è uno splendido brano proprio di Twink, The Dream Is Just Beginning, delicato ed etereo, che ricorda certe atmosfere del David Crosby di If I Could Only Remember My Name.



Il disco uscirà per la Polydor nel maggio del 1971 con una copertina dall’aspetto fantasy, curiosamente molto vicina all’estetica prog ma anche alla mitologia del pianeta Gong. A questo punto i percorsi e le traiettorie si fanno estremamente confuse, tra abbandoni, ritorni, nuovi innesti, collaborazioni, fughe in Marocco (Twink), discografie frammentarie. Giova ricordare, per quanto riguarda Twink, l’effimero progetto con Syd Barrett e l’ex bassista dei Delivery Jack Monck, il trio Stars, che purtroppo, a parte qualche esibizione dal vivo, non riuscì a registrare nulla per le precarie condizioni di Barrett. Ma anche la partecipazione alle registrazioni di quel bizzarro e folle esperimento di Mick Farren, il suo disco solista Mona-The Carnivorous Circle (registrato nel dicembre 1969 e pubblicato nel marzo del 1970), intreccio tra spoken word e stralunato rock, con interviste agli Hell’s Angels e la preziosa presenza di Steve Took.  Poi, nel 1975 una reunion con i Pink Fairies in un bel live alla Roundhouse (Live At The Roundhouse, edito nel 1982 dalla Big Beat). 



Tra innumerevoli partecipazioni e collaborazioni si arriva al 1977, in piena era punk e qui troviamo il nostro Adler, in qualità di cantante, tra le fila dei Rings, insieme ad Alan Lee Shaw e Rod Latter degli Adverts. Con questo gruppo registra uno dei primi singoli punk, I Wanna Be Free, sempre per la Chiswick Records. Ma il gruppo si scioglie e la carriera di John Charles Adler, da questo punto in poi, si fa confusa e il suo Acid Punk, come lui aveva definito la sua musica, non avrà seguito. La storia prosegue sempre più sotterranea, tra registrazioni clandestine e apparizioni come attore in diverse serie televisive inglesi, finché nel 2013 Fabio Porretti e Marco Conti, i Technicolour Dream, uno dei primi gruppi italiani neo psichedelici degli anni 80, tramite Facebook contattano Twink, nel frattempo convertitosi alla religione islamica e con il nuovo nome Mohammed Abdullah. Con lui, e con l’ex chitarrista dei Blossom Toes Brian Godding, registrano You Reached The Stars (al Gulliver Master di Roma e missaggio agli Abbey Road Studios di Londra) seguito poi da Think Pink II, con la partecipazione di John Povey dei Pretty Things (mixato da John Wood!) e da Sympathy For The Beast, sempre con Povey. Tre dischi che riportano in superficie quelle sonorità psichedeliche fatte di melodie estatiche e atmosfere dilatate nel tempo e nello spazio. Come si può facilmente notare, il nostro non ha certo perso la voglia di suonare e di rimanere nell’underground, fedele alla sua storia e alla sua estetica di hippy senza tempo.   E c’è ancora spazio per il terzo e quarto capitolo del suo capolavoro, un Think Pink III assolutamente barrettiano, elettroacustico e sognante, mentre il Think Pink IV accarezza il cosmo e lo space rock tra Hawkwind e Gong, senza far mancare l’energia delle chitarre distorte alla maniera punk. Ancora tanta musica, ancora quella voce evocativa che si perde nei meandri dello spazio, quel suono sconfinato, etereo, incantato.



Riannodando i fili possiamo notare come questo musicista, ai più sconosciuto, sia stato presente in alcuni album di culto della storia del rock, Tomorrow dell’omonimo gruppo, S.F. Sorrow dei Pretty Things e Never Never Land dei Pink Fairies, e in più abbia scritto pagine memorabili a suo nome, come per l’appunto Think Pink. Ma Twink rappresenta quel mondo che ha avuto il suo momento di gloria nella Londra della seconda metà degli anni 60, dove psichedelia, improvvisazione, pop, rock, blues e sperimentazioni varie ribollivano in un unico calderone, dando vita a musiche affatto straordinarie. Un periodo irripetibile che John Charles Adler, insieme a pochi altri, ha tentato di tenere vivo fino all’avvento del punk, trovando in questa ennesima rivoluzione musicale, seppur parzialmente, alcune caratteristiche che lo hanno sempre contraddistinto, prima fra tutte la voglia di suonare liberi, senza far troppo caso alla tecnica o al virtuosismo.  



 

Discografia selezionata

Tomorrow, Tomorrow, Parlophone Records/Sire, 1968

Pretty Things, S.F. Sorrow, Columbia, 1968

Twink, Think Pink, Sire, 1970

Pink Fairies, Never Never Land, Polydor, 1971

Pink Fairies, Live At The Roundhouse, Big Beat, 1982

Pink Fairies, Kill ’Em And Eat ’Em, Demon Records, 1987

Twink And The Technicolour Dream, You Reached For The Stars, Sunbeam Records, 2013

Twink And The Technicolour Dream, Think Pink II, Sunbeam Records, 2015

Twink, Think Pink III, thinkpink50th.com, 2018

Twink, Moths & Locusts, Think Pink IV, Noiseagonymayhem Records, 2019



pop

 

 

 

mercoledì 16 dicembre 2020

Sguardi di fine anno

Com'è ormai consuetudine, anche per la fine di questo doloroso anno si stanno elaborando le varie classifiche ed elenchi di best of, seppur condizionati da tutto quello che è successo. Per quanto riguarda il mondo della musica, o meglio, delle musiche di ricerca, quelle lontane dal mainstream, possiamo dire di aver avuto per le nostre orecchie materiali di ottimo livello. Ma, in questo caso, vorrei più gettare uno sguardo generale,  tratteggiare o suggerire tendenze e orientamenti, che elaborare classifiche. 



Partiamo da una breve riflessione: la crisi acuta del rock, sia quello da classifica che quello più di nicchia, avanzato. Non voglio parlare di morte, come qualche critico famoso ha fatto tempo fa, ma in ogni caso ci troviamo di fronte un'assenza di prodotti significativi, ad una  vera e propria stasi creativa che dura ormai da molto tempo. Credo che il problema risieda nella fine della spinta propulsiva del rock, nella sua emarginazione dai linguaggi giovanili di protesta, nel non essere più espressione del disagio, o di provocazione artistica. E' come se si fosse spezzato il contatto con il terreno che permetteva a questo tipo di musica un continuo rigenerarsi perchè in stretto collegamento con il proprio pubblico di riferimento, le masse giovanili soprattutto. Ora sembra invece preda di un pubblico adulto, se non anziano, che predilige il fenomeno retromania, anche perchè oggettivamente questa musica ormai produce poco. Scalzato dalle musiche più propriamente nere (rap, funk, trap) oppure sommerso e sovrastato dal mercato, dagli pseudo talent, o semplicemente abbandonato a favore di musiche che prediligono l'importanza del testo, della parola, il rock sembra lentamente avviarsi ad essere una musica che guarda al passato, oppure ad annacquarsi, sbiadirsi nel calderone pop, senza più quella carica sovversiva che ne aveva fatto uno dei linguaggi di riferimento dell'espressività giovanile. 



Ma è vero che alcuni stilemi e sonorità rock hanno varcato i confini e li ritroviamo presenti, contaminati con molti altri generi e approcci musicali. Voglio dire: sembra che una certa sensibilità, un tipo di suono e di modalità abbiano deciso di intrecciarsi con l'improvvisazione tout court  (ma anche con sensibili accenti minimalisti) dando vita a sonorità e progetti significativi e sicuramente originali. Anzi, la speranza per il rock credo arrivi proprio da quei musicisti che viaggiano tra musiche differenti senza alcun problema, arricchendo il loro linguaggio e proponendo progetti particolari. Chrys Forsyth, Ryley Walker, Horse Lords, Sunwatchers, 75 Dollars Bill mi sembrano, tra gli altri, proposte assolutamente convincenti che delineano, seppur non sempre chiaramente e con successo, un futuro per le musiche di stretta derivazione rock. 




Comunque le elaborazioni più interessanti e suggestive arrivano dall'inesauribile patrimonio black. Come sempre è successo storicamente, l'effervescenza sociale e politica delle masse nere, impegnate in prima fila nelle lotte contro razzismo e discriminazioni, sta producendo un rigoglio di proposte artistiche di altissimo livello, da una parte e dall'altra dell'oceano. L'intreccio tra soul, funk, rap, jazz, blues e pop sembra essere un elemento comune a molti progetti e lavori usciti in questo 2020, facendo della blackness la cifra stilistica dominante, perlomeno per alcuni dischi di qualità elevata. C'è come un'urgenza comunicativa che porta gruppi e solisti a elaborare e rielaborare tutto il patrimonio culturale di origine afroamericana e a modellarlo e declinarlo con estrema raffinatezza e compiutezza. Alla base sembra esserci il ritmo, le linee di basso e la vocalità, le parole, la spiritualità. E' una necessità espressiva che in molti casi sembra proprio esplodere, come per esempio nel caso dalla rapper e performer Moor Mother, oppure insinuarsi tra le pieghe delle note e dei suoni, come nel caso dello storico sassofonista Idris Ackamoor e i suoi Pyramids, o ancora trasformarsi in inni o vere e proprie pop songs, come nei Sault o nei Mourning (A) BLKstar, riannodare i fili con Amiri Baraka e il free come nel caso degli Irreversible Entanglements o lasciar de/cantare e fluire uno dei grandi ispiratori della blackness, quel Gil Scott Heron rivisitato (ma non troppo) da Macaya McCraven. La parola viene declinata e fusa con i mille rivoli sonori africani, a produrre quell'eclettismo musicale che indubbiamente affascina e seduce, mostrandosi allo stesso tempo espressione e ispirazione di movimenti e anime in agitazione. Da questo punto di vista va anche sottolineato il protagonismo femminile (Moor Mother, Jyoti), anche qui espressione diretta dei movimenti delle donne, in particolar modo delle afroamericane, che è rilevante non soltanto a livello musicale ma anche teorico e artistico in generale. 



Ancora un altro aspetto: il rinnovato collettivismo, la volontà di far emergere il gruppo, l'ensemble a scapito dei/del solisti/solismo. Sault, The HeliocentricsMourning (A) BLKstar, Irreversible Entanglements, sono gruppi e/o collettivi che danno forza e privilegiano l'elaborazione collegiale, l'insieme a scapito del singolo. E anche i casi di Shabaka & The Ancestors, Idris Ackamoor & The Pyramids, oppure la vecchia (ma sempre validissima) Arkestra di Sun Ra, mostrano comunque la volontà e la necessità di avere al proprio fianco una comunità, un pensiero collettivo e uno sguardo d'insieme sulla realtà, sociale e artistica. 

Insieme a queste tendenze "black" non va certo dimenticato quell'approccio più propriamente sperimentale e legato alle vecchie avanguardie. In questo campo mi sembra si vada affermando una tessitura compositiva estesa, come fosse in continua espansione, senza limiti e inclusiva, anche qui, di linguaggi differenti, seppur a prevalenza jazz. Tim Berne e i suoi Snakeoil rappresentano al meglio questi aspetti, delineando spesso ambiti metropolitani, distopie e scenari complessi. Ma va certamente sottolineata anche l'opera multiforme di Rob Mazurek, in particolar modo quella con la sua Exploding Star Orchestra (e anche qui va notato il fatto che, seppur l'accento è spostato sul solista e leader, nondimeno rimane fondamentale l'apporto del gruppo o dell'orchestra), dai toni contemporanei, attraversati da groove e contraddistinti da temi intrecciati dai sapori afro, con un approccio collettivo e uno slancio efficace verso estetiche del futuro. Per ultimo vorrei segnalare Nels Cline che,  con i suoi Singers, attua questa attitudine compositiva dai confini illimitati con sonorità fortemente rock, dando ulteriori suggerimenti e suggestioni ad un genere che, come dicevo all'inizio, attraversa una profonda crisi. 

A conclusione di queste brevi riflessioni, una citazione sul fiorente e ricco mercato delle ristampe che talvolta rasenta la pura operazione commerciale ma in molti altri casi riesuma opere lodevoli, spesso dimenticate, o ci porta a conoscenza di outtakes e inediti che contribuiscono ad impreziosire quel disco o quella raccolta. Tra le tante ristampe mi sento di segnalarne due, abbastanza particolari. The End Of The Game di Peter Green, splendido disco di un blues trasfigurato e conturbante, e il cofanetto di 4 cd del gruppo folk rock inglese dei Trees, con la ristampa dei due dischi pubblicati nel 1970 e altre preziose perle fin qui inedite: un tuffo nei suoni folk modificati, alterati dalle sonorità psichedeliche, con accenti visionari e le delicate melodie delle ballad inglesi provenienti da lontani mondi incantati.

https://open.spotify.com/playlist/2RcRvGQhNMjLg0EjNkrX0y?si=59xwx_YFSWWGo08Txaaa1w

https://open.spotify.com/playlist/43IMBRwW1QfbUeApOLjhr9?si=frqToUDUTq-fj__4DhhVZA



pop



lunedì 9 novembre 2020

Soft Machine, Robert Wyatt e la scena di Canterbury

 Venerdì 20 novembre si svolgerà, organizzata dall'università di Strasburgo, una conferenza sulla scena musicale di Canterbury. Ovviamente, vista la situazione, gli interventi saranno da remoto. Qui sotto c'è la locandina con l'elenco degli interventi e una serie di informazioni tecniche su come poter partecipare. 





Di seguito l'abstract del mio intervento. 

Il sistema dei cerchi concentrici: una metodologia per la definizione della scena musicale di Canterbury

 

La definizione di “scena di Canterbury” è sempre stata fonte di discussioni sia tra gli addetti ai lavori che tra gli stessi appassionati. L’estrema eterogeneità delle musiche solitamente definite canterburiane, ha provocato un senso di indeterminatezza, di ambiguità nel cercare di chiarire quali fossero le caratteristiche della scuola di Canterbury o, addirittura, di affermare l’esistenza della stessa.

Per questa nuova sistematizzazione è stato necessario adottare una griglia analitica all’interno della quale poter riconoscere e inserire le musiche che realmente costituiscono la scena canterburiana. Ma, nonostante questa griglia, le vicende musicali e i musicisti stessi spesso ci portano lontano dalla definizione di una musica autenticamente facente parte di quella scuola. Una sorta di appannamento che rende il lavoro di ricerca non centrato, ancora in parte indeterminato.

Quindi, una volta stabilita la griglia analitica, ci siamo attenuti al solo prodotto che è in grado di assicurarci una lettura ed una analisi il più possibile obiettiva: i dischi. Solo facendo quasi esclusivamente riferimento ad essi possiamo definire confini e caratteristiche peculiari della scena di Canterbury. In poche parole, invece di elencare le band e i musicisti noi ne elencheremo i dischi fondamentali. I lavori discografici verranno inseriti in un sistema di cerchi concentrici che ci permette di individuare allo stesso tempo il centro, le fondamenta, le propaggini, riducendo l’indeterminatezza nell’individuazione e nella caratterizzazione della scuola di Canterbury.  

Le caratteristiche del sound canterburiano possono racchiudersi in una serie di elementi e aggettivi sonori: l’intreccio tra armonie elaborate, passaggi strumentali e pop song, un certo approccio all’improvvisazione vicino al jazz ma non aderente completamente ad esso, suite e talvolta tempi dispari, atmosfere pastorali del patrimonio folk inglese, ironia testuale e anche musicale, infine una sonorità generalmente morbida, ricca di tastiere ed elegante. Ancora: accordi di settima, passaggi cromatici e soluzioni strumentali inaspettate, sconfinamenti limitati in territori sperimentali e improvvisazioni inserite generalmente in un contesto compositivo.

Questa griglia ha permesso di individuare nell’asse Caravan/Hatfield And The North/National Health e quindi in alcuni loro dischi, il primo anello del sistema, quello che determina maggiormente l’estetica canterburiana, dandone le coordinate e le principali caratteristiche.  Il secondo anello è costituito in gran parte da una serie di lavori legati all’asse Soft Machine/Matching Mole, mentre il terzo è costituito da alcuni lavori solisti di Kevin Ayers e dai Gong di Daevid Allen.  

 

  

pop

lunedì 19 ottobre 2020

Il Bue!

 

L’uscita della biografia del bassista degli Who, John Entwistle, mi fornisce l’occasione per una breve riflessione sul musicista e anche sul gruppo. The Ox, il bue, il soprannome di Entwistle, è sempre stato considerato un musicista tranquillo, probabilmente surclassato dalle personalità debordanti degli altri Who. Tuttavia questo non ha impedito, anche a lui, di vivere in modo dissoluto e ben sopra le righe, dimostrando nei fatti, ahimè, di non essere certo la pecora nera del gruppo. Ma, a parte gli eccessi e le sregolatezze, mi interessa analizzare, seppur brevemente, il musicista, il suo rapporto interno alla band, il suo ruolo. 


Di una tecnica eccezionale, in grado di suonare e arrangiare anche strumenti a fiato, autore parco ma di notevole talento, John Entwistle è stato allo stesso tempo la tipica figura del bassista rock e un’incredibile anomalia.

Come detto, fuori dai riflettori e in secondo piano rispetto ai vari Townshend, Daltrey e Moon, il bassista degli Who ricalca in questo, pienamente, il ruolo e l’estetica del bassista in ambito rock. A parte poche figure, il bassista elettrico, nel suo particolare ruolo ritmico e melodico, è quasi sempre in ombra, chiuso in quel suo agire di raccordo, lavorando ritmicamente e sorreggendo o talvolta evocando linee melodiche. Non c’è dubbio che chitarristi, cantanti e persino batteristi lo abbiano messo in secondo piano. Insomma, è raro trovare un frontman al basso, a parte ovviamente qualche caso. 



Ma Entwistle si discosta contemporaneamente da questo clichè, invero con poche eccezioni, proprio per quel suo particolare modo di suonare, che è assai lontano dalle pratiche del bassista rock. Provate ad ascoltare con attenzione il lavoro del basso su qualsiasi brano degli Who: c’è una varietà, un movimento e un’inventiva tali da dar vita a continui giri, linee melodiche, accompagnamenti, il tutto non mollando neanche per un attimo l’impulso ritmico, l’accordo con quell’incredibile batterista che è Keith Moon, altrettanto creativo nell’accompagnare i brani. E’ quasi una sorta di ribollio continuo, di infiorettamento che però diventa sostanza, tutto teso a sorreggere la linea vocale e allo stesso tempo a decorarla. In realtà la vera funzione ritmica è data dalla chitarra di Townshend. E’ lui che mantiene la staticità tipica del rock, il legame con la terra, mentre la ritmica sembra svolazzare in alto, quasi libera. Potremmo pensare di paragonarla alle ritmiche jazz, se non fosse che il drumming di Moon è così irruento e vigoroso da non potersi certo confondere con la finezza e l’interplay tipico di un batterista jazz. 

Tuttavia il basso di Entwistle effettivamente può avvicinarsi all’approccio jazzistico. Rispetto all’agire rock John elabora una pratica assolutamente composita che lo porta a non lavorare su giri stabili che si ripetono, ma a modificare incessantemente le linee di basso, in questo avvicinandosi al bassista jazz, il quale interpreta e dialoga continuamente con il solista da una parte e con il resto della ritmica dall’altra. Il tutto lo fa con una scioltezza e una spontaneità unici nel panorama popular, come se stesse compiendo la cosa più semplice al mondo. E basta così guardarlo, nei tanti filmati a nostra disposizione, con quella sua aria distaccata, da gentleman, come se fosse da un’altra parte rispetto alle intemperanze degli altri Who. Ma quelle sue dita della mano destra che blandiscono le corde dello strumento in modo gentile ma con una velocità e un'agilità incredibili, stanno lì a mostrarci come la sua flemma sia solo di facciata, mentre musicalmente produca un torrente di idee, un effluvio di creazioni ritmiche e melodiche da far girare la testa.


Speriamo solo  venga tradotta e pubblicata presto anche in Italia questa biografia: di certo ne leggeremo delle belle!


pop


martedì 13 ottobre 2020

La materia viva

Dopo averlo sfiorato varie volte, mancato per un soffio o perso all'ultimo istante, sono riuscito finalmente a vedere Richard Sinclair in concerto dal vivo.

Bassista, chitarrista, cantante, autore, membro dei Caravan e prima ancora dei Wilde Flowers, poi con Hatfield And The North, Camel, oltre a svariate collaborazioni sempre tra Canterbury e dintorni, Sinclair di quella scena musicale è stato uno dei protagonisti, avendo contribuito negli anni a segnarne le coordinate artistiche. Di più, la sua voce, il suono del basso, le sue composizioni rappresentano forse il nucleo centrale della musica canterburiana, l'essenza stessa. Ma questo è un discorso che necessita di approfondimenti e analisi che non è il caso di trattare, per ora, su questo blog.

Interessante, invece, è stato scoprire come quella musica, nelle mani e nella voce di un Sinclair ormai in là con gli anni e in solitudine (ma accompagnato comunque da un bravo Gianluca Milanese al flauto), fosse ancora viva, pulsante e...inaspettata. Ricchezza armonica, progressioni di stampo jazzistico e  sommovimenti ritmici hanno reso le versioni di Share It, Keep On Caring, Disassociation, If I Could Do It All Over Again...ancora fresche e sorprendenti, pur in una dimensione intimista. E hanno mostrato anche le notevoli capacità strumentali e interpretative di Sinclair. Sembrava musica scritta ora, assolutamente priva delle incrostazioni e della pesantezza che tanta musica degli anni '70 porta con se. Ma tutto questo è frutto di un approccio creativo alla composizione, movimentato, ironico. E attraversato in lungo e largo da un impeto improvvisativo che ha reso per l'appunto viva la materia. Dove improvvisazione significa dare forme nuove alle composizioni, mutarle e reinterpretarle in un continuo rigenerarsi. Cosa che a Sinclair riesce benissimo.


Un'ultima annotazione, diciamo così, tecnica, che riguarda la differenza delle musiche autenticamente canterburiane da quelle classicamente progressive rock. In questa versione scarna e solitaria si può meglio osservare come i brani, in questo caso di Richard Sinclair ma il discorso vale per l'appunto per il resto della scena di Canterbury, siano composti e attraversati da armonie di stampo jazzistico, i famosi accordi di undicesima e tredicesima che Dave Stewart, tastierista tra gli altri degli Hatfield And The North e dei National Health, affermava essere una delle caratteristiche della musica di Canterbury. Questo tipo di accordi ammorbidisce le atmosfere e le espande, dandogli un senso di leggerezza, in contrasto con la durezza e l'ampollosità dovute all'uso massiccio di triadi in ambito Prog. Ancora, questa ricchezza armonica favorisce, per l'appunto, un approccio improvvisativo costante e permette una malleabilità non certo così comune nel rock. Se a questo aggiungiamo il disincanto, il gioco, l'ironia diffusa che stempera anche le situazioni più seriose e formali, quasi dissacrandole, beh potremmo forse dire di aver scoperto la formula segreta della musica di Canterbury. 

pop

Recensioni. Kevin Ayers and The Whole World "Shooting at the Moon"

  Kevin Ayers And The Whole World SHOOTING AT THE MOON Harvest 1970 Il secondo album solista di Kevin Ayers vede al suo fianco, al co...