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mercoledì 30 marzo 2022

Lettere al Direttore (6)

 



Caro Direttore,

Le scrivo con un leggero sorriso sul mio viso, quasi con una sorta di compiacimento. È buffo, lo so, ma appena ho saputo della sconfitta della nazionale italiana di calcio per mano di una sconosciuta del football mondiale quale è la Macedonia del Nord, la mia bocca si è increspata, i miei occhi hanno sommessamente brillato e io mi sono seduto placido sul divano.

Lei forse sa, caro Direttore, che il mio nome è omonimo del mitico allenatore Edmondo Fabbri, passato ahimè alla storia non per le sue qualità ma per la ormai non più storica sconfitta e conseguente eliminazione dai mondiali del 1966 con la Corea del Nord (buffa questa simmetria geografica nordista!). E dico con piacere non più storica, perché credo che quella sconfitta sia stata tutto sommato meno clamorosa di questa, avvenuta sere fa. Quale ironia per un paese che per il calcio ha una folle devozione, un credo immotivato e per certi versi immorale: mancare per la seconda volta di seguito la qualificazione ai Mondiali per colpa di un’anonima squadra.

Per anni ho coltivato una sorta di ammirazione mista a profondo dispiacere per quell’allenatore costretto a rimanere a bordo di un aereo per più di un’ora senza poter scendere a causa dell’ira dei tifosi, impazziti per l’inopinata sconfitta. Ora penso sia giunto il momento di lasciare in pace il mio omonimo, di dimenticarlo per quella trascurabile eliminazione a fronte di ciò che è avvenuto con gli onesti e sconosciuti macedoni, figli di un calcio d’altri tempi, povero e modesto, lontano certo dai fasti e dal denaro scintillante. È tempo di ridare dignità ad un personaggio che è stato sconfitto non dalla Corea del Nord ma dal suo stesso paese, inadatto ad accettare debolezze e umiltà. Viva Edmondo Fabbri.  

 

L’omonimo

Suo assiduo Lettore

Lettere al Direttore (5)



 

Direttore,

le scrivo così di getto, quasi di soprassalto, come per un’esigenza di liberazione. Mi trovo in strada, seduto ad un bar sotto un bel sole, caldo ma allo stesso tempo rinfrescante. Pur con tutto il piacere che questa momentanea dimensione mi provoca, le idee smuovono i miei sentimenti, acutamente. Non posso non riflettere sull’inconsistenza di un autentico pensiero progressista, rivoluzionario, utopista, e quindi sull’assenza pressoché totale di un protagonismo degli sfruttati, imbrigliati e imbrogliati sempre più in discorsi e rivendicazioni nazionaliste, regressive, collaterali al Mercato. E’, questa assenza, motivo del mio pessimismo e, in un quadro generale, causa del nostro scontento e dei pericoli che corriamo in questo momento. Ma la tristezza si acuisce quando vedo sparuti rimasugli di quella che un tempo fu una grande forza di emancipazione, prendere le mosse di volta in volta di questo o quel personaggio, provocando nei fatti una sorta di tifo del nemico del mio nemico. È proprio questo agire che mostra la subalternità ai discorsi dominanti, alle azioni e alle dinamiche del Capitale, senza una reale possibilità di poter incidere sui nostri destini e sul futuro del pianeta. Si tenta di rispondere all’abbandono degli ideali di cambiamento compiuto da una larga parte della sinistra storica, ormai pienamente inserita nell’ambito dell’esistente, con riflessi condizionati del passato, ricercando di volta in volta presunti alleati che in realtà non sono altro che diverse facce della stessa medaglia. 

 Servirebbe invece un’altra voce, un altro punto di vista, altre idee che provino a sovvertire realmente l’esistente. Invece di essere rinchiusi nella morsa degli eventi dovremmo cercare di disinnescarla, quella morsa, per poter liberare l’umanità dallo scempio dell’esistente, del pensiero unico, del realismo capitalista.

La finisco qui, dopo averla certamente importunata più del solito, e conscio della mia inettitudine e del mio velleitarismo. Tutto sommato anche io sono prodotto e causa della nostra inconsistenza, del nostro marginalismo. Ma non mi tolga, almeno lei, la soddisfazione di poter esprimere le mie inquietudini e i miei sfoghi. Tutt’altro che produttivi, lo ammetto.

Cordiali Saluti

Edmondo Fabbri, suo assiduo Lettore

  

 

 

 

 

 

Recensioni. Henry Cow "Western Culture"

 



                                                                         Henry Cow
                                                                 WESTERN CULTURE
                                                                       Broadcast 1978

E’ il loro ultimo disco, una sorta di testamento per le generazioni future e un affresco per nulla roseo della civiltà occidentale. Nel 1978 gli Henry Cow, nonostante i primi segnali di crisi e di affaticamento, decidono comunque di tornare  in studio per registrare un altro lp. Non ci sono più John Greaves, impegnato con i National Health, e Dagmar Krause, per problemi di salute. Il primo materiale registrato è composto per lo più da canzoni ma proprio per questo non sembra in linea con la storia e l’estetica di Henry Cow, così tutto quel repertorio va a finire nel primo disco degli Art Bears, formazione con Fred FrithChris Cutler e Dagmar Krause. Proprio queste discussioni intorno al repertorio portano alla decisione di terminare l’esperienza del gruppo,  con la registrazione di  nuovo materiale solo strumentale che sarà l’ultimo disco ufficiale degli Henry Cow, il primo in studio non per la Virgin ma per la loro etichetta, la Broadcast. 

l quartetto base  (Tim HodgkinsonLindsay CooperFred FrithChris Cutler) registra 7 tracce, le prime tre a nome di Hodgkinson, le altre tre di Lindsay Cooper e la settima scritta insieme dai due autori. 
Il primo brano, Industry, chiarisce immediatamente le coordinate musicali dell’intero disco: musica contemporanea, Zappa, dissonanze e improvvisazioni libere innestate su brani dai rapidi cambiamenti e dai tempi intricati, atmosfere inquietanti, aperture consonanti e spazi cerebrali. The decay of cities si apre con una chitarra acustica vagamente canterburiana (dalle parti di Hatfield e National Health) per poi sfociare in atmosfere tipicamente zappiane. Verso la fine del brano sembra di ascoltare i Soft Machine di Third. Il terzo brano, On the raft, ci porta in ambito jazz inglese, con  una intrigante melodia contraddistinta da un bell'impasto di fiati. I brani di Lindsay Cooper hanno un sapore più vicino alla musica “colta”, con passaggi Progressive e sperimentazioni varie. Gretel’s tale è impreziosito dalle improvvisazioni alla Cecil Taylor della pianista Irene Schweizer,  mentre il breve Look back, dalle atmosfere delicate, sembra quasi musica da camera. La chiusura è affidata alla stupenda e solare Half the sky,  attraversata da un sax soprano che improvvisa gemendo piccoli suoni e frasi spezzate, con un finale tipicamente prog. La ristampa in cd contiene tre bonus tracks. E’ la conclusione della vicenda Henry Cow, ma i protagonisti saranno comunque ben attivi per tutti gli anni ’80 e oltre con progetti e dischi di assoluto valore.




pop

lunedì 28 marzo 2022

Recensioni. Matthew Halsall "Salute to the Sun"

   




                                                                Matthew Halsall

                                                            SALUTE TO THE SUN

Gondwana Records 2020

C’è un fascino misterioso, ammaliante, che cattura al primo ascolto, in questo nuovo lavoro del trombettista di Manchester Matthew Halsall. Seppur non originalissimo come proposta, nondimeno Salute To The Sun ha una sua estetica ben definita e con alcuni lati assai pregevoli. Prima di tutto l’uso delle dinamiche, non così frequente in ambito popular, un saper espandere la materia sonora, allargarla e restringerla provocando un moto ondoso a bassa intensità. E poi lo spazio, il respiro, una profonda estensione dei confini che porta i brani a solcare distese illimitate: si potrebbe star lì ad ascoltarli per ore e ore, senza mai stancarsi.  Forse è il frutto della Meditazione Trascendentale, della quale Halsall è un seguace, comunque è musica, questa di Salute To the Sun, che profonde spiritualità e serenità, accanto a quel fascino impalpabile, quasi sotterraneo e che spesso fa affidamento sulle eccelse qualità dei musicisti coinvolti. Halsall ha un suono limpido, chiaro, definito, pulito. A tratti ricorda Ian Carr, e quindi è pienamente nel solco davisiano, ma possiede un proprio suono, originale e brillante nelle improvvisazioni, costruttore infaticabile di racconti sonori, meditativo. Grande spazio è riservato al sassofonista e flautista di Leeds Matt Cliff, anch’esso limpido e pulito sia nell’esposizione tematica che nelle improvvisazioni. E fondamentale, nell’economia del suono, appare anche l’arpa di Maddie Herbert, che porta Salute To The Sun nell’alveo coltraniano, ovviamente più quello di Alice che di John. Ritmica impeccabile, agile, leggera e allo stesso tempo incisiva nel sorreggere e stimolare le storie dei solisti, nell’adagiare con calma e precisione la musica. Liviu Gheorghe al piano, Gavin Barras al basso e Alan Taylor alla batteria forniscono una cornice adeguata alle introspezioni sonore, amalgamandosi con cura e rendendo mai noiosa l’atmosfera, che pur potrebbe correrne il rischio. Quasi non è necessario elencare i brani perché il livello è omogeneo per tutto il disco (ma The Energy Of Life, a chiusura dell’album, merita una menzione speciale con quel suo irresistibile tema), a farne di fatto un libro sonoro sulla meditazione e sull’uso delle improvvisazioni modali, con quel tocco di orientale che ogni tanto sposta l’accento sull’etno jazz. Ma davvero siamo lontani da banalità e formule stantie, la freschezza e l’estrosità di Salute To The Sun è ineccepibile, tale da farne uno dei migliori dischi del 2020. E con ragione.   

 

Matthew Halsall, trumpet

Matt Cliff, saxophone, flute

Maddie Herbert, harp

Liviu Gheorghe, piano, kalimba, marimba

Gavin Barras, bass

Alan Taylor, drums

Jack McCarthy, percussion

Tom Harris, kalimba


pop

venerdì 25 marzo 2022

Lettere al Direttore (2)

 



Caro Direttore,

mi trovo di nuovo a scriverle sperando di non importunarla troppo. Immagino stia pensando di trovarsi di fronte ad una sorta di stalker, ma le assicuro che non intendo passare per quelle figure assai inquietanti che assillano quotidianamente qualsiasi persona abbia un minimo di notorietà. Insomma, vorrei solo fornirle di tanto in tanto spunti, riflessioni e quesiti che mi sembra possano aiutarla nel suo lavoro, o perlomeno possano suscitare interesse nei suoi lettori, tra i quali ovviamente ci sono anch’io.

L’altro giorno, mentre sfogliavo una delle riviste musicali che saltuariamente seguo, mi sono imbattuto in uno strano personaggio a me fino ad allora sconosciuto. Eric Chenaux, apprezzato chitarrista canadese, molto probabilmente ignoto alla grande massa, ma credo che anche lei non ne abbia mai sentito parlare, né tantomeno abbia avuto modo di ascoltarlo. Ebbene, caro Direttore, incuriosito dall’articolo sul musicista in questione, sono andato ad ascoltare la sua musica e ne sono rimasto assai colpito. Devo dirle, in tutta onestà, che comunque ho avuto difficoltà nel seguire i brani del suddetto chitarrista. trovandoli di complicata fruizione. Tuttavia, cosa assai rara, l’ascolto di Eric Chenaux mi ha portato a riflessioni bizzarre. Bizzarre perché, lo riconosco, assolutamente gratuite per certi versi, o comunque prive di particolare interesse. Ma, mi sono detto, forse sono riflessioni che possono suscitare una sua risposta, o magari incuriosirla per approfondire argomenti finora poco trattati. In ogni caso, la prego, non si faccia remore nel cestinare questa mia, nel caso la trovi assolutamente insulsa.

L’inconsueta musica di questo introverso e misterioso chitarrista sembra essere frutto di un particolare mix tra delicate e cantabili melodie e un tipo di improvvisazione dai caratteri assolutamente liberi, audaci.  In breve, l’ascolto procede in un continuo entrare ed uscire da consonanze, la delineazione di tratti melodici alternati a dissonanze, suoni morbidi ed effetti rumoristici, o meglio elettronicamente modificati in un senso profondo di ricerca. Insomma, se da un lato ci si sente appagati e rilassati da motivi soavi che confinano con territori pop, ballads dal vago sapore jazz, dall’altra si è continuamente sobbalzati verso terreni avventurosi, a volte anche irritanti, nondimeno con un loro particolare fascino. Tutto ciò mi ha portato a riflettere sullo stato assolutamente misero della nostra popular music, in particolare di quel pop e rock da classifica che giganteggia nei media occidentali. Eppure, basterebbe aggiungere, o mescolare, queste musiche prive di avventura con qualche sano e rivitalizzante inserto improvvisativo perché il tutto assuma un nuovo colore, nuovi e speziati sapori. Invece si è ormai bandita del tutto l’improvvisazione, relegata alle musiche di stretta derivazione afroamericana come il jazz, lasciando solo la continua ricerca del refrain cantabile, scontato, della canzoncina con i soliti accordi, o della finta provocazione estetica per vendere il prodotto. Sono banditi persino gli assoli di qualsiasi strumento, e il risultato è un piattume generale, a meno che non si vada alla ricerca di musiche di nicchia. Non crede, Direttore, che sia il caso di provare a rompere ogni tanto questa sensazione del già sentito, di incrinare queste musiche patinate che sorvolano le nostre orecchie e le nostre menti senza lasciare alcuna traccia? In fondo, improvvisare fa parte della nostra vita quotidiana, perché espungere quest’atto dalla musica?

Spero di non averla annoiata troppo.

Cordiali Saluti

Edmondo Fabbri, suo assiduo Lettore  

  

Lettere al Direttore (1)

 



Caro Direttore,

mi premetta di rivolgermi a lei in questo modo così confidenziale, anche se non ci conosciamo. O meglio, lei sicuramente non sa nulla di me, al contrario io credo di conoscere qualcosa di lei, perlomeno il suo pubblico pensiero, da suo assiduo lettore quale sono. Le scrivo in questi momenti certo drammatici del nostro tempo, con guerre e pandemie che tormentano i nostri animi (e i nostri corpi) e non le nascondo di avere un pizzico di nostalgia di epoche lontane, non tanto per la gioventù ormai perduta quanto per la nitidezza degli accadimenti passati, la possibilità di avere più certezze, maggiori convinzioni di quante ne abbia ora. Ma probabilmente è solo il corso degli anni che porta ad un continuo interrogarsi, mettere in dubbio, cercare argomenti, risposte e domande alle questioni in atto, provando a rintracciare le motivazioni e le ragioni altrui. 

Vede Direttore, non che io non abbia convinzioni, anzi: ma in questi ultimi anni tento disperatamente di aderire appieno ad esse, cercandone ragioni profonde che me ne diano la legittimità, e non ci riesco. Anzi, sempre più provo forme di disagio di fronte alle scelte di campo nette, senza sconti. Non so, è come se rintracciassi nelle opinioni a me avverse piccole verità che riconosco legittime, con un senso di fondatezza. Credo, caro Direttore, che le sfumature e le dialettizzazioni siano molto più importanti ora che in passato. Ma questa nostra società sembra invece favorire le scelte di campo assolute e l’arruolamento nei rispettivi schieramenti. Chi tenta di argomentare viene sommerso dalle facili risposte, dai semplici commenti e dalle narrazioni spesso superficiali, ma alquanto efficaci da portare avanti. 

Una guerra non può non essere avversata, e ne ho avversate tante in passato. Eppure, mi sembra importante cercarne le ragioni, anche se folli o totalmente sbagliate. Trovo indispensabile tentare di capire le motivazioni, i perché di azioni che non condivido assolutamente, ma che penso non nascano da insensatezza o pazzia. E quant’anche possano sembrare tali, è importante trovarne comunque le possibili cause, almeno per evitare che si ripetano. Ciononostante, questi tentativi di ragionamento sembrano perdenti, arrendevoli di fronte alle tragedie della storia, e appaiono come futili distinguo per placare le mie diffidenze rispetto alle narrazioni di parte. Ma non trovo altra via che quella di soppesare, ragionare, comprendere, condannare certo, per provare a far tacere le armi, rimuovere dal consesso umano lo strumento della guerra che non porta certo soluzioni, semmai acuisce i mali, con lugubre corredo di morti innocenti. La finisco qui, per ora, sperando di non averle recato troppo disturbo. Se mi permette, come chiosa finale, vorrei dirle che ho anche nostalgia di quelle lettere al Direttore di tanti anni fa, di quell’epistolario che mostrava i sentimenti e le idee del semplice lettore di fronte ad una figura rispettabile come quella di un onesto e preparato direttore di un giornale. Rispetto alla cagnara dei commenti social, quella ponderatezza, quel bizzarro mix di pubblico e privato appaiono una sorta di luogo fantastico, certo di altri tempi. E di altri modi.

Cordiali Saluti

Edmondo Fabbri, il suo assiduo Lettore

giovedì 24 marzo 2022

Weird Tales. Henry Grimes e il suo The Call


 





Ci sono quei dischi che hanno un potere magnetico, ti incuriosiscono e ti affascinano al solo sentirne parlare, prodotti unici e colmi di un loro potere seduttivo misterioso. E in quanto a unicità, fascino, mistero, The Call, a nome Henry Grimes Trio, ne ha da vendere!

Iniziamo dalla casa discografica, la ESP dell’avvocato Bernard Stollman, folgorato dalle sonorità free dei vari Ornette ColemanAlbert AylerSun Ra, nei primi anni Sessanta in quel di New York. E che dà l’opportunità di registrare il primo disco a suo nome ad uno dei grandi protagonisti di quella stagione, il contrabbassista Henry Grimes. E qui passiamo alle vicende, senz’altro avventurose e avvolte dal mistero, di questo grande musicista ahimè morto poco tempo fa, possiamo dire per la seconda e definitivamente ultima volta.  La lista dei musicisti con i quali ha collaborato è impressionante per quantità e qualità: Anita O’DayBobby TimmonsLee MorganGerry Mulligan e Chet BakerArt FarmerBenny GoodmanTony ScottSonny RollinsThelonius MonkLee Konitz. E poi la svolta, agli inizi degli anni ’60: Cecil TaylorDon CherryAlbert AylerPharoah SandersArchie SheppSteve Lacy, fino a diventare IL contrabbassista free per eccellenza. Un monumento della musica afroamericana che però misteriosamente scompare dalle scene alla fine del decennio, per oltre trent’anni dato per morto salvo poi riapparire miracolosamente nel 2002, senza più il suo strumento e in condizioni disagiate ma con ancora una grande voglia di rimettersi in cammino, cosa che poi effettivamente avverrà.  Nella sua prima vita, nonostante le numerose collaborazioni e il suo talento Grimes ha a suo nome un solo album, proprio questo The Call, e ovviamente solo una casa discografica avventurosa e sperimentale come la ESP poteva dargli questa opportunità.

Ma le peculiarità di questo disco non finiscono qui. Curiosamente la carriera di Grimes ha più volte incrociato le note e  i suoni di uno strumento che nel secondo dopoguerra certo non era più così comune come un tempo: il clarinetto. Tra i musicisti con i quali il contrabbassista ha collaborato spiccano i nomi di Benny Goodman e di Tony Scott. E, sorprendentemente, di un altro clarinettista che fin qui abbiamo taciuto ma che è uno dei suoi compagni di avventura in The CallPerry Robinson.  

Figlio del compositore e folk singer Earl Robinson, cresciuto a New York in un ambiente liberal e naturalmente orientato verso le arti e la musica in particolare, Perry Robinson è uno dei rari clarinettisti “puri” degli anni ’60, cioè di coloro che hanno scelto e praticato il clarinetto come primo e unico strumento. Scelta assolutamente controcorrente, come abbiamo già ricordato, ma che non ha precluso al nostro una carriera interessante pur se di nicchia. Sicuramente poco conosciuto e non certo un virtuoso dello strumento, Robinson ha avuto il merito di trovarsi al momento giusto nel posto giusto. Suona con Archie Shepp in Mama Too Tight ma soprattutto partecipa a due grandi dischi dal respiro collettivo,  Liberation Music Orchestra di Charlie Haden e Escalator Over The Hill di Carla Bley. Non male per un clarinettista, che aggiunge alle sue frequentazioni album con Jeanne LeeAnnette Peacock, persino il gruppo rock alternativo The Fugs e operazioni soliste dedicate allo yoga kundalini e alla musica klezmer.  Oltre a, naturalmente, questo The Call con Henry Grimes. I due hanno un profondo rapporto di amicizia nato a metà anni ’50 durante una jam session e sugellato nel 1962 proprio con l’esordio come solista di Perry Robinson, con il suo Funk Dumpling.  Nel 1965, dopo il servizio militare, Robinson torna a New York e finisce per andare a vivere nel frizzante East Village proprio con Grimes e il terzo protagonista di questa nostra piccola storia, il batterista Tom Price. Amico di Robinson fin dai tempi di scuola e membro dell’ Uni Trio con lo stesso clarinettista e il bassista Bill Folwell (anche lui nella stessa scuola!), Tom Price è stato un allievo di Alan Dawson e, rispetto a Grimes e Robinson, non vanta grosse collaborazioni, a parte concerti con Jaki Byard e un bel disco a nome del sassofonista Frank Wright con lo stesso Grimes al contrabbasso, sempre edito dalla ESP. The Call nacque durante il periodo di convivenza dei tre musicisti, in una zona dove vivevano moltissimi jazzisti e si respirava una grande energia, qual era l’East Village a metà anni ’60. Ancora un particolare: talmente forte era il legame che li univa che trent’anni dopo, quando Henry Grimes riemerse dalla nebulosa nella quale era scomparso, si ritrovarono insieme a suonare.

Il disco è un classico del free jazz di quegli anni. Batteria tumultuosa, contrabbasso irruento ma nitido e strumento a fiato libero di scorrazzare tra i flussi sonori impetuosi. Tre strumenti che dialogano da pari, a sovvertire di continuo i ruoli. Ma The Call ha alcune sue particolarità che lo rendono diverso, lo discostano in parte dai cliché del genere. Innanzitutto, come dicevamo, la presenza del clarinetto che da quelle parti si era visto raramente, a parte i bellissimi lavori di Jimmy Giuffre con Paul Bley e Steve Swallow. Ma lì le atmosfere erano pacate, a stretto contatto con suggestioni contemporanee, mentre The Call aderisce in pieno alla tipica estetica free. Tuttavia, il clarinetto di Robinson, dal suono nasale e angoloso, devia le sonorità in una landa fino ad allora poco frequentata, una sorta di veemenza morbida, talvolta gentile, persino giocosa. Il suono complessivo è coinvolgente e mostra un alto tasso di interplay, probabile effetto della convivenza, con un’essenzialità unica, senza rivoli infruttuosi o superflui. Oltre la metà dei brani è fra i tre e i quattro minuti, mentre For Django, di Henry Grimes, è una suite ariosa, che lascia spazio ai singoli strumenti ma che vede anche melodie all’unisono e atmosfere sospese, quasi di impronta classica, unite a momenti più nervosi e con un contrabbasso portentoso, dallo swing eccezionale. L’altra composizione di durata estesa è quella che dà il titolo al disco, The Call, scritta da Robinson, che la suonerà nel corso di tutta la sua carriera nei contesti più disparati. È una sorta di breve richiamo, composto anni prima, provando a suonare insieme ad un calabrone e cercando di imitare il suono di altri insetti.  Walk On, sempre dello stesso Robinson, ha striature bop, mentre Son Of Alfalfa, di Grimes, è il seguito di Farmer Alfalfa (un cartone animato che Grimes amava vedere, una specie di Braccio di Ferro!), sempre composta dal contrabbassista e pubblicata su Funk Dumpling, il disco d’esordio di Robinson.

In definitiva, The Call è un disco che avrebbe meritato certamente più fortuna, come l’avrebbero meritata i tre musicisti, non fosse altro per aver registrato questo meraviglioso album.  Dal quale emerge una musica che, pur essendo segnata profondamente dall’estetica del tempo, non ha perso bellezza e comunicatività, come solo i grandi dischi sanno avere. A fronte di un monumentale Henry Grimes, con il suo energico e allo stesso tempo limpido  e ancestrale contrabbasso, sia Robinson che Price contribuiscono alla riuscita dell’opera con performance probabilmente mai più raggiunte nel prosieguo della loro carriera. Dei tre l’unico ad essere rimasto in vita è il batterista, mentre Robinson ci ha lasciato nel 2018.  

“Henry was so beautiful, and we were so close. He was a genius on bass, and even with all his problems he was still able to play. He’s one of the unsung heroes of jazz”. Perry Robinson 


pop

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